Roma lux orbis (sez.2)
print this pageurante il Medioevo i Mirabilia urbis Romae avevano accompagnato i pellegrini nel loro tour tra i luoghi di culto e le rovine della città, offrendo un succinto elenco di siti e vestigia degni di memoria, con in appendice cataloghi di reliquie e indulgenze: elenco con molti errori, come appunto il sepulchrum Remi, e varie fantasiose digressioni del tutto leggendarie (esemplari in questo senso, quelle sui Dioscuri scambiati per due maghi di nome Fidia e Prassitele -dal nome dei loro autori- o sulla statua equestre di Marco Aurelio interpretata come il “cavallo di Costantino”).
Quando, quarant’anni dopo le prime esplorazioni di Brunelleschi e Donatello, il forlivese Flavio Biondo divulgava i tre volumi della Roma instaurata (1443-46), il ritratto della città che ne usciva era molto diverso da quello dei Mirabilia medievali. Nel suo lavoro Biondo si era avvalso di epigrafia e numismatica, di testi antichi e medievali, utilizzando questi materiali come fonti per la conoscenza della topografia e dei monumenti, in stretta connessione con la diretta indagine archeologica. Un progetto analogo era stato promosso in quegli anni anche dal pioniere della ricerca “sul campo”, Poggio Bracciolini, con il suo De fortunae varietate Urbis Romae et de ruina eiusdem descriptio, primo libro del più ampio De varietate fortunae;; Leon Battista Alberti a sua volta veniva realizzando nel quinto decennio del Quattrocento la Descriptio Urbis Romae, icnografia dell’Urbe, eseguita “ex mathematicis instrumentis”.
Le pubblicazioni sulla Roma antica s’infittirono nel Cinquecento: sono opere che riassumono e volgarizzano la Roma instaurata di Biondo, e nelle quali l’interesse più spiccatamente archeologico è in secondo piano. Si tratta in alcuni casi di guide popolari, come quelle di Lucio Fauno, di Lucio Mauro, di Luigi Contarini e di Bernardo Gamucci, architetto e antiquario di San Gimignano, autore dei fortunati Libri quattro dell'antichità della città di Roma (1565), da cui sono state scelte per la Galleria le immagini del teatro di Marcello, uno dei più antichi edifici per spettacoli giunto fino a noi, eretto per volontà di Augusto nel circo Flaminio; la celebre Colonna Traiana, innalzata a Roma nel 113 da Apollodoro di Damasco per ordine di Traiano, le cui imprese sono raffigurate nel fregi a spirale che la avvolge; e la piramide Cestia eretta tra il 18 e il 12 a.C. come sepolcro di Caio Cestio Epulone nei pressi dell’attuale Porta San Paolo.
In altri casi si tratta invece di opere d’impostazione scientifico-erudita, come per Andrea Fulvio e Marco Fabio Calvo i cui scritti riflettono il clima culturale della Roma di papa Leone X, connotato da un rinnovato interesse per la restituzione archeologica dell’antica Urbe. Il prenestino Andrea Fulvio autore nel 1513 del poemetto Antiquaria Urbis, descrizione in versi delle antichità romane, pubblicava nel 1527 le Antiquitates Urbis, il suo più rilevante impegno, frutto anche delle esperienze condotte a fianco di Raffaello, incaricato dal papa nel 1515 di disegnare la topografia della Roma antica, che godette presto di un buon successo confermato dalla traduzione in italiano (1588).
Alla morte di Raffaello (1520), non sarà però Fulvio a continuarne l’opera di rilevazione, ma il ravennate Marco Fabio Calvo, archeologo e antiquario, che aveva a sua volta collaborato con l’artista, fornendogli tra l’altro una traduzione del De architectura di Vitruvio, rimasta manoscritta. Il lungo impegno di Calvo è alla base del Antiquae urbis Romae cum regionibus simulachrum, di cui mostriamo la grande pianta della Roma imperiale con le trentaquattro porte menzionate da Plinio, pubblicato anch’esso nel 1527, l’anno del Sacco della città durante il quale persero la vita sia lui sia Fulvio.
Importante fu in particolare la Urbis Romae topographia (1534) del lombardo Bartolomeo Marliani, arricchita nell’edizione del 1544 con piante e tavole xilografate, qualcuna a piena pagina, riproducenti vari monumenti romani e luoghi famosi, dal Circo Massimo alle Colonne Traiana e Antonina, agli obelischi al Marc'Aurelio, fino al Laocoonte e altre statue, di cui l'autore fornisce un quadro dei caratteri qualificanti e delle funzioni; il pittore e architetto napoletano Pirro Ligorio, autore di tre famose piante di Roma antica, elaborò fra il 1550 e il 1560 l’opera Delle antichità di Roma, sorta di enciclopedia archeologica, di cui uscì a stampa soltanto il Libro delle antichità di Roma nel quale si tratta de’ circi, teatri e anfiteatri (1553). Ma fu un trattato di cosmografia descrittiva a soddisfare ampiamente la curiosità nei lettori, dando ampio spazio all'illustrazione: la Cosmografia universale (1575) di Sebastian Münster, ristampata e tradotta nonostante le riserve delle autorità religiose.
La diffusione di questi testi, più volte ristampati, fu amplissima e non se ne deve sottovalutare il richiamo sugli artisti, e in particolare proprio sugli architetti, se è vero che personaggi come Palladio e Scamozzi si cimentarono a loro volta nella compilazione di guide di Roma, con l’evidente intenzione di cogliere anche le opportunità offerte da quel ricco mercato editoriale. Famosissima L’antichità di Roma di Andrea Palladio, pubblicata dapprima nel 1554, l’anno dell’ultimo viaggio dell’architetto a Roma, e poi innumerevoli altre volte, a testimonianza di un successo durato un paio di secoli. E’ lo stesso Palladio a dichiarare il suo debito nei confronti della letteratura antiquaria e periegetica quando, nel proemio del suo libretto, accanto agli antichi scrittori (da Dionigi di Alicarnasso a Eutropio), cita come fonti i moderni Biondo, Fauno, Fulvio, Marliani, Ligorio. “Nè mi sono contentato di questo solo -avverte Palladio nel proemio ai lettori- che ancho ho voluto vedere, et con le mie proprie mani misurare minutamente il tutto”. Prima del 1554, in effetti, Palladio era già stato quattro volte a Roma, dedicandosi allo studio, misurazione e rilievo delle architetture antiche, di cui ci restano bellissimi disegni, non utilizzati tuttavia nella pubblicazione, priva di illustrazioni.
A dispetto delle ambizioni e del favore di cui godette, il libretto palladiano appare piuttosto disorganico; un’operazione riuscita a metà, si direbbe, più che uno strumento davvero nuovo. Nello stesso 1554 che vide la pubblicazione de L’Antichità di Roma, Palladio dava alle stampe la Descritione de le chiese, stationi, indulgenze e reliquie de corpi sancti, che sonno in la città de Roma, così completando in qualche modo l’itinerario della città secondo le tradizionali guide che mettevano insieme mirabilia antichi e devozioni cristiane.
Rispetto a Palladio, i Discorsi sopra l’antichità di Roma (1582) di Vincenzo Scamozzi sono lavoro certo più compiuto, nel quale l’autore dispiega con dovizia la sua notevole erudizione: l’opera, inoltre, è illustrata; i quattro discorsi nei quali si articola, infatti, sono accompagnati da quaranta tavole disegnate e incise da Battista Pittoni, che si era ispirato da vicino a quelle edite nel 1551 dal fiammingo Hieronymus Cock, già modello anche per i paesaggi rovinistici di Paolo Veronese nella villa Barbaro a Maser.
Nel 1575, intanto, in occasione dell’anno santo, erano apparsi I Vestigi dell'Antichità di Roma, un libro di 39 grandi vedute ad acquaforte dell’architetto, incisore e pittore francese Étienne du Pérac. Le immagini pur protagoniste pressoché assolute, sono tuttavia corredate nel margine inferiore di didascalie che descrivono succintamente i vari monumenti; insieme alle incisioni di Hieronymus Cock, il dossier di Du Pérac si configura, per qualità artistica e fedeltà documentaria, come una delle raccolte iconografiche più belle nella storia dell’editoria antiquaria cinquecentesca. Le pagine esposte raffigurano l’arco di Costantino sullo sfondo dell’arco di Tito (ed. 1575); il Campidoglio, che porta, in alto, il ritrattino dello stampatore con la dicitura “Giombattista de Rossi Milanese in Navona”; le vedute di Porta Nevia o Porta Maggiore (ed.1671).
Francese è anche l’erudito Louis de Montjosieu, autore della rara opera Gallus Romae hospes. Ubi multa antiquorum monimenta explicantur, pars pristinae formae restituuntur, pubblicata nell’Urbe nel 1585, descrizione in cinque parti di alcuni dei principali monumenti romani, compreso un excursus su pittura e scultura: la tavola raffigura il cosiddetto Arco di Giano presso la chiesa di S.Giorgio al Velabro, leggermente alterato nelle proporzioni e ancora provvisto dell'attico e del coronamento poi demoliti nel 1830. Eretto nel IV secolo con funzioni commerciali e probabilmente da identificarsi con l’Arcus divi Costantini ricordato dalle fonti nei pressi del Foro Boario – il nome moderno deriverebbe dal termine latino ianus che indica un passaggio coperto – è ricordato nella trattatistica cinquecentesca come arco, o tempio, di Giano.
La sezione della mostra dedicata alle guide di Roma, si chiude con un’opera dei primi del Seicento, il Trattato nuovo delle cose meravigliose dell’alma città di Roma del servita lombardo Pietro Martire Felini, pubblicata la prima volta nel 1610 e esposta in mostra nell’edizione del 1614, un’opera, nella quale l’autore, oltre alle consuete notizie sulle antichità, descrive più di 300 chiese, mostrandosi aggiornato sulle ultime novità edilizie e decorative: le immagini scelte mostrano il Mausoleo di Adriano (castel S.Angelo) e il Settizonio