Guide di Roma e trattati di antiquaria (sez.2)

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Oltre alla trattatistica vera e propria, sia essa vitruviana o moderna, va tuttavia considerata quella ricca pubblicistica antiquaria rivolta allo studio e alla divulgazione delle memorie monumentali romane, oggetto, a partire dal Quattrocento, di un rinnovato interesse, ora più ora meno nutrito di rigore filologico. Destinata tanto ai romei quanto agli eruditi e agli “archeologi”, questa copiosa produzione editoriale fu tenuta in buon conto, per ragioni evidenti, anche dagli architetti.

Dov’è il teatro di Marcello? Dove sono i molti edifici innalzati su incarico di quell’imperatore [Augusto] in molti luoghi di Roma con così grande impegno e così ingenti spese? Cerca nei libri e troverai i loro nomi. Ma se oggi li cerchi in Roma non troverai niente, o solo piccoli resti di tanto imponenti edifici”: così lamentava Petrarca. Quasi in risposta alla deplorazione del poeta, il medico padovano Giovanni Dondi aveva iniziato a misurare i resti antichi dell’Urbe e pochi decenni più tardi, artisti ed eruditi cominciarono a ricostruirne sistematicamente la mappa e a restituire l’idea di quelle meraviglie.

S’inaugurava così un modo nuovo d’intendere l’architettura, basato sull’esperienza diretta delle rovine antiche. Poco importa che in realtà Brunelleschi si accostasse agli esempi romani per trarne cognizioni tecnico-costruttive più che estetico-normative, e che per i propri edifici egli poi s’ispirasse a modelli del classicismo paleocristiano: d’allora in avanti il viaggio a Roma e lo studio diretto dei monumenti antichi sarebbe stato vissuto come un’esigenza irrinunciabile da tutti gli architetti moderni.

Il peso di questa svolta epocale, inaugurata ad un tempo da umanisti e artisti, si misura nelle trasformazioni che interessarono nel Quattrocento la letteratura periegetica.

Nella sua Vita di Filippo di Ser Brunellesco, architetto fiorentinoAntonio Manetti scrive che Brunelleschi, recatosi con Donatello a Roma per studiarne le vestigia, "vide el modo del murare degli antichi e le loro simmetrie, e parvegli conoscere un certo ordine di membri e d'ossa molto evidente”. Insieme, i due fiorentini, secondo Manetti, rilevarono “grossamente in disegno quasi tutti gli edifici di Roma, e di molti luoghi circunstanti di fuori, colle misure delle larghezze ed altezze […]. Ed in molti luoghi facevano cavare per vedere i riscontri de’ membri degli edifici, e la loro qualità, se egli erano quadri, e di quanti anguli, o tondi perfetti, o ovati, e di che condizione”.

Uno stesso abito mentale legava Brunelleschi ai circoli umanistici fiorentini, in particolare a quei grammatici e antiquari, come Niccolò Niccoli e Poggio Bracciolini, che, abbandonato il reverente ossequio alle auctoritates medievali, si erano accostati ai testi antichi con gli strumenti agguerriti dell’epigrafia e della filologia, ripristinando con acribìa apparentemente pedantesca le corrette grafie latine storpiate dalle corrive lessicografie medievali, e anche da Dante e dallo stesso Petrarca, pur venerato maestro di humanitas. In fondo, anch’egli, il grande poeta dei Trionfi e dell’Africa, tra i primi appassionati cultori delle antichità romane, non si era forse lasciato fuorviare dalle leggende quando aveva interpretato la piramide Cestia come il sepolcro di Remo, nonostante l’iscrizione ne attestasse la dedica a Caio Cestio Epulone? Se ne meravigliava Poggio, riportando la corretta iscrizione, resa quasi illeggibile dalle erbacce che l’infestavano. Ripulire gli antichi marmi, e studiarli sulla scorta degli antichi autori fu il nuovo imperativo. 

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