Coppi il rivoluzionario
di Giovanni Battistuzzi
Quando gli apparve davanti con uno di quei nastrini che le sarte utilizzavano per far gli orli ai vestiti di lusso e gli chiese se si potesse incollare al manubrio, Pinella De Grandi aggrottò la fronte. Prese il tessuto tra le dita, ne valutò la consistenza e la resistenza. Pinza d’oro lo guardò con l’aria di chi non capiva il perché uno che aveva vinto già tutto, che aveva soldi, successo e fama, si ostinasse a vivere il ciclismo come un universo in continua mutazione.
In quel nastrino da sarta incollato al manubrio “perché assorbente come nessun altro, così non si rischia di scivolare quando le mani si bagnano di sudore”, c’era il ciclismo di Fausto Coppi, la sua volontà di non dare mai niente per scontato, per immodificabile. C’era una pillola della sua rivoluzione.
Perché questo è stato Coppi per il ciclismo: un uragano elegante, capace in silenzio di spazzare ciò che c’era, spiazzando tutti. Una tempesta fatta di fughe impetuose, avventure montane solitarie, di distacchi abissali, soprattutto però una tempesta di modernità. Perché prima di lui c’erano bistecche e vino rosso, non una bilancia di vitamine e carboidrati, proteine e zuccheri. Perché prima di lui gli allenamenti erano lunghi giri a menar sui pedali, non accelerazioni costanti e gare simulate. Perché prima di lui le maglie servivano soltanto a coprirsi, non mezzo per attraversare meglio l’aria. Perché prima di lui il ciclismo sembrava una religione immutabile, non una scienza migliorabile, riscrivibile grazie a imprese e grandi invenzioni.