Ben diversa dalla stereotipia che del conflitto e dei «cattivi» offre il regime tramite la martellante campagna del Nucleo propaganda, la realtà quotidiana è vissuta dalla gran parte del popolo come un incubo senza fine e ben lo sanno le autorità che questa realtà hanno il compito di gestire e regolamentare, tanto più in quegli ultimi seicento giorni in cui sfiducia e scetticismo, disperazione e dolore hanno soppiantato i facili entusiasmi e le illusorie convinzioni del primo periodo bellico. Di qui la costante apprensione degli organi di governo repubblicani e degli occupanti tedeschi di contenere la diffusione di notizie, dannose allo stereotipo edulcorato ad arte di una guerra vittoriosa, sull’effettiva progressione della campagna di Russia e sull’avanzata delle truppe alleate. Di qui la immancabile censura postale che viola la riservatezza del cittadino facendo violenza perfino, se necessario, agli stati d’animo, se reputati disfattisti o comunque potenzialmente pericolosi per la loro influenza negativa su chi, volente o nolente, deve continuare a lavorare e a produrre per la guerra oramai persa di un regime in agonia. Costante, seppur di segno opposto, si mantiene anche l’attenzione dei censori per le notizie e i messaggi positivi, vere e proprie iniezioni di fiducia per i familiari esitanti ma anche per gli stessi avviliti servitori regimisti, tanto da meritare talora di essere stralciati per esser pubblicati su riviste e manifesti propagandistici.
Alla guerra «raccontata» dalle lettere di soldati, liberi o prigionieri, e dei loro cari si affianca poi quella vissuta sulla propria pelle, la guerra fatta di editti e proclami, di bombardamenti e rastrellamenti, di sospetti e delazioni, ma anche di piccoli e grandi atti di eroismo e generosità, segni di un’umanità mai sopita neppure negli attimi di più marcato oscurantismo. Ne fanno fede spaccati sconvolgenti come quelli tristemente famosi dell’eccidio di Villamarzana ma anche quei documenti che di tali nefandezze costituiscono i prodromi legittimatori: il proclama Kesselring contro le bande armate e le direttive per porlo in essere. Ma se la lotta alla dissidenza è asse portante della della politica di qualsiasi totalitarismo e come tale trova la sua ragion d’essere nell’essenza stessa del regime, meno scontata e comprensibile è certamente agli occhi degli italiani la sua politica razziale, quella «difesa della razza» storicamente e moralmente aberrante e fondata su motivazioni pseudo-scientifiche manifestamente speciose, che si concreta soprattutto in una cieca persecuzione degli ebrei e che vedrà il suo famigerato culmine nelle deportazioni, queste sì storicamente provate, e nello sterminio nei lager nazisti.
E intanto, mentre il conflitto si avvia all’epilogo, si infittiscono i provvedimenti per prevenire le piogge di bombe o almeno per limitarne gli effetti, dall’oscuramento alla frettolosa improvvisazione di rifugi antiaerei, e si moltiplicano a dismisura gli allarmi, mentre il suono delle sirene diviene un inferno per la popolazione sempre più stanca e prostrata. E giunge finalmente la fine con la fuga disordinata degli occupatori tedeschi, l’abbandono dei mezzi blindati ora inutilizzabili, l’arrivo dei reparti partigiani e degli assistenti, spesso immortalati da fotografi improvvisati le cui immagini passeranno alla storia. Ma con la nuova autorità militare arrivano tempestivamente anche nuove misure restrittive, sovente a firma dello stesso comandante in capo delle armate alleate, Alexander, e le prime norme ufficiali del C.L.N. Inizia così il dopoguerra in un’Italia spossata e abbattuta, e inizia la lenta ricostruzione sotto lo stretto controllo degli aiutori.