Introduzione

A cura di Luigi Contegiacomo

«Bisogna rassegnarci alla sorte ed accettare passivamente quello che viene. Ormai non ci resta altro. Ho il vago presentimento che si avvicini la fine, sarà quello che sarà, ma se finisse e potessimo tutti essere assieme, in qualche modo sarebbe una consolazione piuttosto di vederla continuare ancora senza nessuna uscita…» Così, con sfiduciato realismo, scrive a un ufficiale al fronte un civile di Lama Polesine il 22 luglio del ’43.

Solo due giorni più tardi, il 25 luglio, si apre per l’Italia stanca per i tre lunghi anni di guerra e avvilita dalle umiliazioni patite su tutti i fronti, una crisi interna che porterà a una netta spaccatura del Paese, che si troverà ben presto diviso dall’antitetica presenza di due governi-fantoccio manipolati a piacimento dai reciproci seguaci e, in modo storicamente più significativo per il futuro politico e culturale del Paese, da un conflitto armato che opporrà anche in modo feroce i parafascisti e le forze coalizzate della resistenza democratica. Il tributo di sangue versato rappresenterà il prezzo che un popolo, compromesso in modi diversi con vent’anni di dittatura fascista, sarà chiamato a pagare per la riconquista della democrazia. Le azioni belliche vere e proprie restano appannaggio quasi esclusivo degli eserciti di occupazione, mentre è lasciato ai rispettivi governi il controllo della situazione interna, dalla lotta alla rispettiva dissidenza, sia essa in forma armata, sia essa puramente politica, alla ricerca di un consenso oramai in gran parte inesistente e difficile da riconquistare. Ed è proprio sul terreno inusitato, ma non certo ignoto alla storia, della propaganda che pare giocarsi il destino della Repubblica Sociale. Non è più il tempo dei magniloquenti e demagogici discorsi dal balcone poiché non vi è più un uditorio disposto ai facili e illusori entusiasmi, non si può più puntare sull’impatto visivo della figura ormai non più carismatica del Duce, è molto meglio affidare l’immagine del regime alla stampa e alla propaganda scritta e soprattutto far perno sui valori di sempre: l’amore per la famiglia e per la propria terra. E gli argomenti certo non mancano alla squadra di bozzettisti, pubblicitari, sociologi di cui si avvale il neonato Nucleo di propaganda, fortemente voluto dal ministro della cultura popolare Alessandro Pavolini e alle dirette dipendenze del cui dicastero opera. Gli elementi portanti di questa battente campagna propagandistica vanno dall’enfatizzazione degli effetti dei bombardamenti confederali sul territorio nazionale, al richiamo all’ateismo bolscevico, tradizionale nemico storico e ideologico, all’immoralità del capitalismo americano, fino alla minaccia del cosiddetto complotto pluto-giudaico-massonico. Ma l’aspetto forse più rilevante è la forte accentazione razzistica che affiora in modo esplicito da molti manifesti, coi riferimenti alla composizione etnicamente ibrida, sinonimo questo di nuova barbarie, degli eserciti propinqui. Tutto ciò si concretizza nella produzione di cartoline illustrate, etichette propagandistiche, scatolette di fiammiferi, film-giornali/giornali cinematografici e articoli a stampa, ma soprattutto in una notevole quantità (dai 200 ai 250 tra italiani e tedeschi) di manifesti murali spesso dalle grandi dimensioni, quasi sempre colorate a tinte forti e dalle immagini di grande presa sulle potenziali masse di lettori. Ad esse è affidata l’immagine del regime repubblicano, basata non più tanto sulla retorica auto-apologia degli anni precedenti quanto sulla denigrazione del nemico. «La rappresentazione e la tematizzazione del negativo e cioè del nemico – per dirla con Isnenghi – riescono più efficaci di quelle del positivo» e cioè del programma politico del regime, e quanto più negativi sono gli esiti del conflitto tanto più irridente e razzista diviene il negativismo degli «invasori» e dei «ribelli» che li spalleggiano.

Sono, a ben vedere, i consueti strumenti retorici cui ricorrono a piene mani tutti i mass-media della Repubblica di Salò, dalla radiofonia impegnata in una strenua lotta con le ascoltatissime quanto vietate trasmissioni radiofoniche di Radio Londra o provenienti dall’Italia liberata, alla stampa quotidiana, presto ridotta dalla crisi della carta a un unico avvilente foglio, agevolmente manipolata dagli uomini del regime e in cui progressivamente, man mano che le operazioni militari vanno verso l’inevitabile catarsi della disfatta, le notizie, già prima ampiamente «guidate», lasciano il posto quasi integralmente alle sempre più scarne «veline» imposte dal governo, o come nel caso dei fogli locali, all’adulazione e alla retorica più sfacciate. Gli stessi periodici divengono da semplice mezzo d’intrattenimento e di distensione ad arma di propaganda al pari dei manifesti murali di cui spesso paiono richiamare l’iconografia. Solo verso febbraio-marzo del ’45, quando i timidi tentativi di Cione, autorizzato da un Mussolini oramai conscio dell’approssimamento della fine, per una svolta democratica verso un governo di unità nazionale, sembreranno avere un qualche successo, parte della stampa, in un estremo e tardivo tentativo di lifting, abbandonerà gli oramai logori cliscé ammorbidendo ad arte i toni arroganti e oltranzisti per assumere un atteggiamento più possibilista.

Ma se radio, stampa e manifesti la fanno da padroni nella ricerca di un nuovo, arduo proselitismo – «occorre convincere non tanto chi è già convinto ma chi è dubbioso o disorientato» recita una delle disposizioni governative sulla propaganda – non minore è il ruolo rivestito dall’altro grande e relativamente nuovo mezzo di comunicazione: il cinema. Ancora vivi gli echi del consenso riscosso dai film confezionati dal regime stesso tramite un’altra sua creatura, il Comitato per il Cinema di guerra e politico, creato nel ’41, ma spentisi oramai gli illusori entusiasmi a causa degli infelici esiti delle tanto propagandate campagne d’Africa e di Russia, la cinematografia italiana si destreggia ancora tra prodotti di intrattenimento stile «telefoni bianchi» e pellicole impegnate sul fronte propagandistico con attori di fama come Amedeo Nazzari e Luisa Ferida, e autori del calibro di Roberto Rossellini e Luigi Comencini. Anche in questo caso la pubblicità è affidata in gran parte ai manifesti murali e alla stampa, in particolare a quella specializzata come la rivista «Cinema» sulle cui pagine, riccamente illustrate in bianco e nero, si alternano articoli e recensioni di grande valore – l’obiettività tuttavia, pur palesemente ricercata, appare stentata quando il critico raffronta le cinematografie dei due diversi schieramenti – ad altri di puro intrattenimento e a carattere pubblicitario. E se sul versante spettacolare le occasioni di dare un’immagine edulcorata e accattivante della guerra stessa non mancano, sull’altro versante, quello dei cinegiornali «LUCE», il messaggio è univoco e piattamente populistico: l’imperativo è ancora una volta fare proselitismo e gettare discredito sui «liberatori» crudeli e affamatori, sanguinari e violenti, «neri» e «giudei».

Ma la realtà, già subito dopo l’8 settembre, è ben diversa da quella presentata dalla propaganda di regime e ben lo sanno sia le autorità, sia oramai la maggior parte dei civili e dei militari al fronte o nei campi di prigionia alleati o nei lager tedeschi. Ed è la realtà, non già il verosimile, quella che appare testimoniata senza più veli nelle lettere, censurate dall’autorità, dei soldati al fronte o internati, delle madri e delle mogli rimaste sole ad affrontare i bombardamenti e la fame. Così scrive nel luglio ’43 un militare: «Pensare cosa si è fatto per questa nostra Patria da cento anni ad oggi, ed ora, da pochi mesi, tutta questa rovina!... Come devono soffrire i nostri ufficiali! Esposti alle umiliazioni contro la loro volontà…». E ancora stanchezza e frustrazione traspaiono dalle parole di un altro soldato ai suoi familiari a Ficarolo: «… Si fa una vita impossibile anche di notte; il nostro riposo è breve e su quattro foglie secche e siamo in una montagna deserta dove ci sono solo sassi, siamo privi di acqua e si mangia poco e male. Per quanto si cerchi di essere forti non si può rassegnarsi a queste cose tanto tristi…». E da una Milano sconvolta dai bombardamenti una madre di famiglia, categoria oggetto e soggetto di tanta propaganda di regime, rivolge queste parole disperate a una parente di Porto Tolle: «…Qui non si trova più niente da mangiare; mio marito, dalla debolezza non è più capace di lavorare per mancanza di nutrimento, i miei bambini per lo stesso motivo non sono più buoni da star in piedi. Per amor di Dio aiutami tu. Ti prego di accogliermi presso di te con la mia amata famiglia, ti aiuterò lavorando anche giorno e notte, ma salva dalla morte certa i miei bambini…».

Preoccupazione, confusione e discordie d’altra parte serpeggiano tra le stesse autorità civili e militari, come si può leggere sotto le righe di tanti avvisi e proclami a stampa, da quelli sul coprifuoco e la legge marziale a quelli contro le bande di «ribelli» e i loro complici, da quelli sulle bombe inesplose a quelli sui disertori o gli sbandati dell’8 settembre. E mentre si continua ad enfatizzare pubblicamente a mezzo stampa e propaganda, ribadendola, la fedeltà alla Germania e della Germania, in realtà malcontenti e attriti tra «fraterni consoci», nonché i comportamenti arroganti e violenti ora degli uni ora degli altri verso inermi civili, preoccupano non poco sia le autorità repubblicane, già spesso proiettate realisticamente verso il dopoguerra, sia le autorità tedesche timorose di vedersi addebitare anche le colpe dei fascisti: alla lettera schietta e accusatoria inviata alla fine del ’43 da un anonimo avvocato al comandante militare tedesco di Padova e in cui si denunciano innumerevoli episodi di corruzione nella distribuzione e nella requisizione delle vettovaglie, di violenza e intimidazione nei confronti dei familiari dei renitenti alla leva, nonché l’uso di mezzi coercitivi e impopolari, fa immediatamente seguito un’allarmata circolare inviata ai capi delle province di Padova, Venezia, Treviso e Rovigo in cui il comandante von Frankenberg scrive: «Le asserzioni di tale vecchio italiano corrispondono purtroppo alla realtà.= Ogni corruzione ed ingiustizia commessa da parte delle organizzazioni fasciste e della Milizia sono da considerarsi atti di sabotaggio nei confronti del Governo Germanico e sono da reprimere e da punire nel modo più severo.= Tutti gli errori commessi da questi vengono attribuiti a carico dei tedeschi danneggiando oltremodo il prestigio germanico». Ma se logica e comprensibile è la preoccupazione per il danno che le violenze fasciste possono arrecare all’immagine degli «amici» d’oltralpe, già in realtà si va scoprendo pubblicamente il volto dei veri padroni. Così recita nella traduzione italiana il proclama del feldmaresciallo Kesselring nel giugno ’44 contro le bande armate: «Qualora in una regione si trovino bande in considerevole numero, dovrà essere stabilita caso per caso una percentuale di persone di sesso maschile da arrestare che dovrà poi essere fucilata nel caso dovessero verificarsi degli atti di violenza… Qualora in determinate località venissero uccisi soldati germanici, deve essere incendiata la località. I responsabili oppure i caporioni dovranno essere pubblicamente impiccati… ». Di qui le tante Fosse Ardeatine, di qui le tante Villamarzana. Ed è palesemente pretestuoso il ricorso alle conclamate provocazioni monarchiche e alleati dei proclami Badoglio e Alexander: «…assalite i comandi e i piccoli centri militari, uccidete i germanici alle spalle, in modo da sfuggire alla reazione per poterne uccidere degli altri…», per giustificare le condanne a morte sommarie, i rastrellamenti, le rappresaglie.

E infine arriva lo scompiglio totale, la distruzione del materiale più compromettente, la fuga disordinata degli occupanti, l’abbandono della divisa, l’umiliazione di chi troppo spesso era uso a umiliare, la resa dei conti. Arriva piazzale Loreto, arrivano le vendette di segno opposto e con esse gli affannati inviti alla moderazione e alla normalizzazione delle nuove autorità militari compagne, preoccupate di trovarsi in mezzo a una guerra civile e al tempo stesso di non lasciare troppo spazio alla temutissima influenza comunista, e del Comitato di Liberazione Nazionale, già spaccato internamente nelle sue varie componenti politiche, già tutte proiettate in avanti verso la conquista dei consensi. Il 24 aprile il generale Clemente Primieri, comandante del Gruppo di Combattimento Cremona, a nome del comandante in capo del Mediterraneo, decreta: «Fino a quando non giungeranno in zona le Autorità appositamente costituite i poteri militari e civili verranno assunti in ogni centro abitato, dall’Ufficiale dell’esercito presente più elevato in grado… Vietiamo 1° – Assembramenti, riunioni, comizi, dimostrazioni. 2° – Atti di violenza, rappresaglie, vendette. 3° – Il possesso di armi senza l’autorizzazione dell’autorità di cui sopra. Facciamo appello al senso di civismo e di concordia di tutti i cittadini perché l’ordine, la calma e la disciplina regnino dovunque. Se vi sono dei colpevoli provvederà la legge. Coprifuoco dalle 21 alle 5…».

Occorrerà attendere in realtà la fine dell’anno e il tanto atteso proclama del nuovo presidente del Consiglio Alcide De Gasperi perché la situazione si normalizzi e cessi il Governo militare ristretto in battaglia e con esso l’emergenza. Tuttavia la drammatica divisione prodottasi allora, con il suo inevitabile carico di violenze e di atrocità attribuibili in misura diversa ad entrambe le parti, prolungherà i suoi effetti anche negli anni immediatamente successivi la conclusione della guerra. È l’ineliminabile strascico di odio e ostilità che solo le guerre civili sono in grado di alimentare. Nonostante ciò, la Resistenza costituisce il necessario spartiacque fra totalitarismo e democrazia, il fondamentale prerequisito storico dell’Italia repubblicana. La riconquista della democrazia poteva nascere solo da una rottura ideale e materiale con il passato fascista; è questa rottura che la Resistenza storicamente rappresenta.

Le analisi, le interpretazioni, il dibattito che su quel periodo sono tornati ad alimentarsi in questi ultimi anni, vanno incoraggiati nella consapevolezza che l’unica possibile e auspicabile pacificazione è quella che nasce non dalla rimozione del passato, ma dal riconoscimento, anche in sede storica, dell’inappellabile condanna di ogni totalitarismo.