di Monica Calzolari
Sorvegliare e promuovere
Il teatro nelle città dell’Italia centrale si diffonde capillarmente anche nelle realtà più piccole durante l’occupazione francese (1798-1814) e si afferma come fenomeno concretamente rivoluzionario, che rispecchia e allo stesso tempo promuove l’evoluzione delle gerarchie sociali e istituzionali. Con la Restaurazione il successo culturale e sociale del teatro, anziché attenuarsi, si sviluppa e si amplia, senza incontrare resistenze da parte dei governi e degli amministratori locali che si limitano a esercitare un severo controllo sullo svolgimento delle rappresentazioni.
Secondo i regolamenti, è compito delle autorità comunali la vigilanza sulla sicurezza del Teatro. Il maire e, in seguito, i deputati, prima dell'apertura devono supervisionare lo spazio con un muratore, devono farlo pulire e “corredarlo di tini con acqua”, per il pronto intervento su eventuali focolai d’incendio. Devono sorvegliare, affinché la strada che porta al Teatro sia stata illuminata dall'impresario e curare l’accensione e lo spegnimento dell'illuminazione all’interno dell’edificio.
Essi si occupano anche di redigere e fare applicare il regolamento del Teatro. Il primo regolamento documentato dal censimento nei dieci comuni, in ordine di tempo, è quello del Teatro del Genio di Viterbo emanato il 1° agosto 1806, cui seguono quello predisposto il 10 gennaio 1811 dal maire di Corneto, quello redatto a Genzano il 18 settembre 1830 e, infine, quello pubblicato a Velletri il 21 dicembre 1863. La lettura dei documenti mostra la sostanziale corrispondenza e continuità tra il primo e l’ultimo e in controluce dà conto dei comportamenti della popolazione.
L’attenzione è rivolta soprattutto verso la platea che, nel corso del secolo, va definendosi come lo spazio destinato al pubblico pagante, maschile e soprattutto militare, ben distinto da quello dei palchettisti, notabili, azionisti del Teatro. L’accesso è regolamentato attraverso il sistema di vendita dei biglietti e il controllo esercitato mediante le maschere sull’assetto dei posti di platea. È vietato stare in piedi e tenere il cappello in testa, introdurre lattanti, cani “… e tutt'altro che possa compromettere o infastidire la quiete dei spettatori …”. Sono proibiti il fumo, il vino, i liquori, la consumazione di cibo. Per la sicurezza è vietata l’introduzione o accensione del fuoco. È vietato portare armi, anche strumenti consentiti dalle leggi come “… Mazzarelle, o Bastoni all’uso di Campagnoli …”. Si minacciano severe punizioni per chi getti acqua, olio o altro dai corridoi e dai palchetti sugli spettatori sottostanti. Sono proibiti i fischi, le altercazioni, i richiami ad alta voce, i motti impropri o pungenti. È vietato prorompere in atti e segni indecenti ed eccessivi di disapprovazione dello spettacolo. Gli applausi non devono mai oltrepassare i limiti della decenza e del rispetto, né, specialmente, impedire la prosecuzione dello spettacolo, affinché ciascuno ne goda tranquillamente.
Spetta al maire e poi ai deputati anche la vigilanza sulla decenza del vestiario, delle parole e dei gesti degli attori. Agli impresari e agli attori sono, infatti, richiesti il rispetto del “buon costume”, l’osservanza nelle parole, nel portamento, nei gesti e nel vestiario della modestia e della decenza, la precisa ottemperanza delle prescrizioni dettate dagli organi di revisione dei copioni e dei libretti. Gli attori sono puniti, se il loro comportamento provoca risse, alterchi, o qualunque altro incidente tra gli spettatori ed è anche proibito all’orchestra di interrompere per qualsiasi motivo lo spettacolo, pena l’arresto.
Le autorità periferiche sviluppano una strategia diretta al coinvolgimento dell’élite presente all’interno del pubblico teatrale, in una collaborazione finalizzata a evitare la censura più severa e la repressione, isolando ed emarginando gli elementi più eversivi. I rapporti inoltrati alle autorità centrali insistono soprattutto sulla condizione sociale del pubblico di platea – giovinastri, sfaccendati, di bassa estrazione –, sulla necessità di promuovere l’educazione del pubblico e il rispetto dell’ordine. Il maire o i deputati che devono essere presenti alle rappresentazioni possono far intervenire le forze di polizia, per far arrestare le persone insubordinate.
Gelosia assassina
Al Teatro del Genio a Viterbo, una sera del 1825, Pasquale Tessero che recita nella parte del “Tiranno” è colto da folle gelosia per la signorina Baragoni, la prima donna della Compagnia, che si è messa ad amoreggiare con l’attor giovane che sostiene le parti del primo amoroso. Nel pieno della recita davanti al pubblico allibito e divertito, la rincorre sul palcoscenico, minacciando di ucciderla. La signorina Baragoni svelta, svelta gli sfugge e si rinchiude nel suo camerino. I deputati accorsi con i gendarmi fanno arrestare il “Tiranno”, che però, per non deludere il pubblico, le sere seguenti riprende le recite, guardato a vista dai gendarmi. Alla fine della stagione, in omaggio alla ferrea gerarchia che governa la vita della Compagnia, il “Tiranno” l’avrà immancabilmente vinta sul “primo amoroso” che viene licenziato dal capocomico che manco a farlo apposta è anche il padre della smorfiosa “prima attrice”.
I pasticci dell'impresario
Sempre nello stesso Teatro, nel 1834 la gestione dell'impresario Ercole Tinti scatena diversi inconvenienti. Già incarcerato durante la stagione primaverile, a causa della condotta riprovevole, il basso cantante Pietro Giani, nuovamente scritturato per la stagione autunnale, si scontra con l'impresario e inizia "... a fanaticare i discoli giovinastri..." che bazzicano il Teatro. Viene convinto quindi a lasciare la città. Ma Giani non è l'unico ad avere un contrasto con l'impresario che nel trattare le scritture con gli artisti ha fatto " ... un pasticcio tale ..." che dà luogo a delle cause. L'avvocato Lodovico Attati che difende gli artisti è tanto sicuro del buon esito di esse che va sempre dicendo − se perdo queste cause mi chiamerete Lodovica − Così, perdute le cause "... principiarono a chiamarlo l'Avvocato Lodovica". Il pasticcio commesso da Tinti coinvolge anche l'orchestra e quando il concertino Pellegrini per protesta si rifiuta di suonare, il direttore Costa crede bene di abbandonare la direzione e prendere il suo posto. Allora la Deputazione accompagnata dal tenente dei Gendarmi intima al Costa di riprendere la direzione, ma poiché egli si rifiuta lo trae in arresto per tre ore. Alla fine della stagione l'impresario Tinti non paga gli artisti e per evitare il carcere si rifugia nel Convento di S. Pietro che gode la condizione di luogo immune.
“Viva la Repubblica Romana”
Dopo la caduta della gloriosa Repubblica Romana, infine, nel 1849 l’insubordinazione degli spettatori del Teatro durante la rappresentazione dell’opera La Vestale, si colora di politica. Durante la 4° scena del 1° atto, nel momento in cui sfilano sul palcoscenico le vittoriose legioni e il carro del trionfatore seguito dai Galli prigionieri, il patriota viterbese, conte Giovanni Pagliacci Sacchi da un palco del 2° ordine grida: “Viva la Repubblica Romana”. Il grido scatena una straordinaria e generale dimostrazione cui prendono parte anche le signore che sventolano i fazzoletti. Il commissario straordinario del Patrimonio, monsignor Pila, presente in Teatro, pallidissimo per la rabbia e la paura proibisce immediatamente l'esecuzione dello spartito.