di Quirino Galli
articolo pubblicato sulla rivista "Biblioteca e Società" …
«I direttori della Drammatica Compagnia suddetta si fanno un dovere ci prevenire questo rispettabile pubblico che con la sera di sabato 3 giugno daran principio ad un corpo ben regolato di rappresentazioni tragiche, comiche e drammatiche per la maggior parte nuove, istruttive e calde di quel santo fuoco che oggi liberamente trabocca da ogni petto italiano; le quali, oltre ad essere corredate con lusso e magnificenza, verranno col massimo zelo disimpegnate da tutti gli artisti fermanti il seguente elenco» (1).
Segue su questo manifesto datato 3 giugno l'elenco degli attori e delle attrici.
La Drammatica Compagnia è quella di Coltellini e di Zannoni, personaggi non di primo piano nella Scena teatrale italiana di quei decenni ma che proprio per questo testimoniano come ampiamente e subitamente si fossero diffusi gli ideali e le speranze che correvano in quei giorni per tutta l’Italia e come il Teatro sapesse accogliere, prima di ogni altra forma espressiva dell'intelligenza umana, le istanze di rinnovamento e di riscatto così a lungo trattenute. Era il 1848 e in quei giorni l'esercito piemontese conseguiva i clamorosi successi contro l'esercito austriaco.
Il prezzo d’ingresso era di bajocchi 7,5 appena mezzo bajocco in più rispetto al prezzo dei biglietti d’ingresso nelle stagioni precedenti che avevano pur visto salire sulla scena del Teatro del Genio di Viterbo artisti di fama come Maddalena Pelzet e Adelaide Ristori con la celebre Compagnia di Romualdo Mascherpa.
Il manifesto non contiene l’indicazione delle opere che la Compagnia aveva in programma. Alcuni titoli si ricavano da altri manifesti stampati per le diverse serate; da essi gli avventi di vivo patriottismo espressi nella formulazione dell’invito al pubblico acquistano una giustificazione storica e culturale che dissipa ogni dubbio di facile ed opportunistico entusiasmo per le vicende che stavano investendo l’Italia. Il primo titolo è il FORNARETTO, ovvero L’INNOCENTE CONDANNATO A MORTE DAL CONSIGLIO DEI X (di Francesco Dall’Ongaro). Sul manifesto che annuncia la rappresentazione di quest’opera si legge un brano riportato, così è scritto, dal “registro della giustizia” in cui è narrato il fatto accaduto nel 1505 a Venezia e da cui è tratto l’argomento della tragedia. Il secondo titolo è ORESTE di Vittorio Alfieri; interessante anche in questo l’aggiunta: “Terminata la tragedia il Capodaglio leggerà un’ODE ALL’ITALIA nuovissima”. Il terzo è IL BUGIARDO di Carlo Goldoni, che in quel clima veniva ad assumere un significato più ampio di quello suo proprio di composizione comica.
Dei tre manifesti il primo è certamente il più interessante; esso riassume emblematicamente un programma culturale che era in effetti rimasto patrimonio degli intellettuali e che solo in queste occasioni veniva proposto anche alle sfere provinciali della società italiana. Più esattamente esso testimonia la realizzazione d’una volontà culturale e a un tempo politica che in Giuseppe Mazzini aveva avuto una lucida argomentazione.
Nei suoi articoli sul Dramma storico Giuseppe Mazzini aveva ripreso e riproposto tutto il dibattito romantico intorno alla composizione e rappresentazione di una tragedia, conferendo alla sua digressione una implicita finalità politica. (2)
Argomento della tragedia, egli ribadiva, doveva essere la Storia, ma non quella che gli autori del Settecento avevano esaltato con alcune singole figure, piuttosto quella che rivelava ai posteri il cammino inarrestabile della Giustizia. Il fine di ogni composizione tragica poteva essere per il poeta la ricostruzione del “vero storico” (fine che del resto aveva perseguito Alessandro Manzoni). Soltanto in questo modo il Teatro superava il meschino e unico scopo di divertire e si poteva proporre come scuola per la coscienza popolare.
Non erano quelle di G. Mazzini idee nuove, né in Italia erano mancate esperienze che avevano dato vita ad un teatro politico. Ma in questo caso è di tutto rilievo il fatto che al Teatro sia stato riconosciuto nuovamente un ruolo culturale e pedagogico presso le masse popolari e soprattutto che esso sia stato inserito in un sistema politico complessivo, in una visione “filosofica” della vita sociale. La conferma si ha proprio in quel manifesto che, annunciando la rappresentazione di “Il fornaretto”, ripropone anche quel documento, da cui l’autore prese l’ispirazione a suffragare la validità del concetto del vero storico.
Questi documenti della vita teatrale, come quelli dell’anno successivo durante il potere della Repubblica Romana, non furono delle semplici manifestazioni d’una appartenenza ad una vasta e generica corrente culturale, ma l’innesto puntuale nelle vicende quarantottesche che per taluni ebbero il significato d’un movimento rivoluzionario. E in una prospettiva rivoluzionaria il Teatro, come movimento di vita collettiva, poteva essere una tra le migliori tribune per diffondere le nuove idee e suscitare vaste adesioni (3).
A conferire un preciso significato politico a questi momenti della vita teatrale italiana sta il fatto che quei documenti apparvero in una delle più papaline città dello Stato Pontificio a poco più di un mese di distanza dal ritiro delle truppe pontificie dalla guerra contro l’Austria (4). In quei frangenti un’Ode all’Italia era una aperta sfida al ripensamento di Pio IX, colui che tante speranza aveva alimentato per la causa risorgimentale e che ora mal avrebbe sopportato qualunque forma di rinnovamento, temendola inquinata di rivoluzionarismo (5).
Della stagione autunnale, che vedeva agire il Teatro genio la stessa Compagnia di Coltellini e Zanoni, ci sono pervenuti solo due manifesti. In essi non compaiono altro che le notizie relative alla sola rappresentazione, segno d’un declino degli iniziali entusiasmi, ma non di abbandono della via intrapresa; infatti le opere programmate contenevano delle problematiche sociali e presumevano di mettere a nudo la verità. Di particolare interesse è l’opera che fu programmata per il 19 settembre per la forumlazione del suo titolto: “ABBASSO I TARTUFFI ossia LA RAZZA CHE ROVINA IL MONDO” (di Molière). Si può intuire la presenza di una tensione politica che era alle soglie di profonde evoluzioni e nella quale una parte avverte di interpretare un ruolo storico primario (6).
Anche quest’ultimo documento è emblematico di quell’azione che caratterizzò i settori più impegnati del mondo teatrale italiana ce che durante la vita della Repubblica Romana ebbe modo di essere definita sulla scena viterbese.
Nella stagione primaverile del 1849, mentre il parlamento repubblicano costruiva l’assetto del uovo stato e ancora lontano era l’assalto francese alla libertà romana, venne a Viterbo la Compagnia De Ricci e Costantini diretta da Marco Paladini (o Palladini) (7). Sul manifesto che annunciava il loro corso di rappresentazioni si legge:
«La Drammatica Compagnia, unita al secondo divertimento mimo-fantastico, darà un corso regolare di produzioni; la maggior parte di esse, affatto nuove, istruttive e calde di quel santo fuoco che oggi liberamente trabocca da ogni petto italiano, come pure diverse produzioni di CIRCOSTANZA dei fatti presenti; nonché molte di brillanti caratteri e giocate della graziosa maschera dello STENTERELLO»
Segue un elogio degli artisti e della magnificenza
delle scenografie, l'indicazione della data d'inizio delle rappresentazioni: il 9 aprile. Altri fatti meritano di essere rilevati: il prezzo del biglietto che scende a bajocchi 5, e la sostituzione del titolo di «signore» con quello di «cittadino» per un tal Luigi Minervini che da anni, possiamo riscontrarlo nei precedenti manifesti, aveva l'appalto della vendita degli abbonamenti.
In un testo linguisticamente infelice non perde comunque valore l'espressione «liberamente trabocca da ogni petto italiano», espressione che sottintende due idee fondamentali in quella vicenda politica. La prima era che la Repubblica Romana, in quanto repubblica, era affermazione di libertà conseguita in quel caso con l'abbattimento del potere dispotico ed ambiguo del papa; la seconda era quella che con la fondazione della Repubblica Romana sarebbe iniziato il processo di unificazione degli italiani e che solo da Roma doveva partire.
Potrebbe sembrare sorprendente e incoerente la programmazione di opere di cui è personaggio la maschera di STENTARELLO dopo tante espressioni piene di fervore politico. Inoltre, sospettando che queste opere traggano spunto dal vastissimo e plurisecolare filone della Commedia dell'Arte, sarebbero state neglette le idee di Mazzini, II quale, oltre a propugnare e ad affermare la validità artistica e politica del “Dramma storico”, aveva sempre e vivacemente avversato la Commedia dell'Arte giudicandolo spettacolo evasivo e per nulla educativo, utile solo a chi non vuole che il popolo pensi con la propria testa. Non è possibile sapere di quali commedie si trattasse sia perché manca l'indicazione del loro autore, sia perché il criterio di alterate i titoli delle opere da rappresentare, ampiamente diffuso in quei tempi, sconsiglia qualsiasi supposizione. Tuttavia per superare la sorpresa e l'incoerenza è opportuno pensare
che in testi di tal genere è possibile riscontrare talvolta una acuta satira sociale (basti pensare all'uso delle Maschere fatto da C. Goldoni) messa in evidenza anche da una adeguata interpretazione scenica; in questo senso, è lecito sospettare che rappresentazioni del genere potevano valere come un recupero di quelle forme di spettacolo con le quali il popolo aveva deriso il nobile e poteva anche deridere se stesso. Ma credo si debba individuare anche un altro motivo nella scelta di una tale
rappresentazione per inaugurare la stagione ed esattamente la necessità di invogliare il pubblico ad andare a teatro, un pubblico che temeva i nuovi avvenimenti politici e che, forse, non nutriva molta simpatia per il nuovo regime. Altri documenti ci avvaloreranno questa ipotesi (8).
Il fine pedagogico e politico di queste rappresentazioni emerge ancora più chiaramente nel manifesto di Mercoledì 18 aprile nel quale si annunciava un discorso alle donne della Repubblica Romana pronunciato dalla prima attrice (si veda la riproduzione fotografica f. 1).
Mancando qualunque traccia del testo di quel discorso, è possibile: solo avanzare anche in questo caso delle ipotesi che possono comunque essere confortate da una intuibile logica storica presente in questi eventi. Secondo una prima ipotesi si potrebbe credere che quel discorso sia stato una esortazione alle donne viterbesi per sollecitare una loro attiva presenza nelle vicende politiche della Repubblica (9). Secondo un’altra ipotesi, più credibile perché più aderente alla tradizione sociale e culturale della città di Viterbo, quel discorso dové essere una illustrazione delle idee che i teorici e i fondatori del nuovo Stato Repubblicano, in particolare Giuseppe Mazzini, avevano nella nuova società.
Nella sua opera “I doveri dell’uomo” (1841) G. Mazzini aveva dedicato un capitolo alla “famiglia” (10).
In questo aveva essenzialmente definito l'immagine privata e sociale della donna e determinato il rapporto di questa con l'uomo all'interno della famiglia, dinanzi alla società e dinanzi a Dio.
“L’Angelo della Famiglia - aveva scritto G. Mazzini - è la Donna. Madre, sposa, sorella, la Donna è la carezza della vita, la soavità dell’affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sull’individuo della Provvidenza amorevole che veglia sull’Umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice che basta ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è inoltre per ciascun di noi l’iniziatrice dell’avvenire.
(…) Davanti a Dio Uno e Padre non v’è uomo né donna, ma l’essere umano, l’essere nel quale, sotto l’aspetto d’uomo o di donna, s’incontrano tutti i caratteri che distinguono l’umanità dall’ordine degli animali: tendenza sociale, capacità d’educazione, facoltà di progresso. Dovunque si rivelano questi caratteri, ivi esiste l’umana natura, uguaglianza quindi di ritti e doveri. Come due rami che movono distinti da uno stesso tronco, l’uomo e la donna movono, varietà, da una base comune che è l’umanità. Non esiste disuguaglianza fra l’una e l’altra ma come spesso accade fra due uomini, diversità di tendenze, di vocazioni speciali. Son due note d’un accordo musicale di natura diversa?
(…) Abbiate dunque la donna siccome compagna e partecipe, non solamente delle vostre gioie o dei vostri dolori, ma delle vostre aspirazioni, dei vostri pensieri, dei vostri studi, e dei vostri tentativi di miglioramento sociale. Abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica. Siate le due ali dell'anima umana verso l'ideale che dobbiamo raggiungere.
Fossero state o non fossero state queste le parole che furono rivolte alle donne presenti, ciò che probabilmente premeva ai repubblicani, causa della fuga del papa da Roma, istauratori d'un nuovo regime, sostenitori d’un nuovo sistema sociale e di nuove leggi civili in cui veniva affermata una diversa presenza di Dio, era quella di non apparire come demoni travestiti da uomini, dissacratori dell'antica tradizione cattolica, sovvertitori di un ordine voluto da Dio.
Anche il manifesto del 25 aprile (qui riprodotto f. 2) presenta motivi interessanti. innanzi tutto la rappresentazione d'un soggetto storico in cui protagonista è una donna; poi la nascita viterbese del suo autore, nonché le sue idee e azioni politiche che solo episodicamente sono conosciute, infine, quell'ode che deve dare alla serata momenti di particolare attenzione democratica e tensione emotiva (12).
Durante quelle vicende politiche nelle quali lo sforzo per la costruzione di una diversa realtà storica si scontrava con la esiguità della partecipazione popolare e l'incertezza dominava la sopravvivenza dello Stato, solo il Teatro poteva conservare la sua istanza rivoluzionaria. E questa doveva esprimersi come esaltazione della multiforme genialità dell'uomo e come funzione didascalica d'una scena tribunizia, insomma come fusione e sintesi di «Arte e politica». Così per il 5 maggio appena sei giorni dopo il primo assalto alle mura di Roma da parte dell'esercito francese, il manifesto della Compagnia annuncia uno spettacolo particolarmente variato (fig .3). Vi si legge:
Sabato 5 maggio 1849
Serata a beneficio dell’attore MARCO PALADINI che sostiene nelle Pantomine il carattere dell’ARLECCHINO. Il suddetto vi ha riserbato in tal sera un duplice variato divertimento, vi destina la rappresentazione di un nuovissimo dramma in cinque parti scritto di recente, e che ebbe la fortuna di rappresentare nelle principali città con generale soddisfazione.
Esso dramma nulla ha d’immortale, e tutto coincide a mostrarci che il delitto per quanto sia ad arte ordito, Dio non lo lascia impunito, e scaglia quando meno si crede, il fulmine struggitore dell’Assassino. Il suo titolo è LA GIUSTIZIA DI DIO.
Dopo ciò passeremo al divertimento vero. FANTASTICO ed in questo genere il Paladini vi ha preparato una nuovissima pantomima con voli, trasformazioni, trasmigrazioni e bei colpi di scena. Le decorazioni sono in buon ordine, ed assicura il Paladini l’esatto andamento.
Una magnifica TENDA dipinta dallo scenografo cittadino Venier darà bellezza al finale di questa pantomina intitolata IL GIGANTE PARA-FARA-GARAMUS. Chiuderà la medesima col passo a due ballato dalle giovani COSTANTINI e BORDES intitolato LA STIRREN. Ecco quanto può offrivi in tal sera l'umile attote che conscio dei suoi propri meriti sa di non aver diritto alla vostra beneficienza, ma confidando nei generosi nuovi italiani che Viterbo adornano, tutto spera, tutto in voi si affida, ed altro non può offrirvi in retribuzione che un grato cuore e sincera riconoscenza.
Mentre l’attacco alla Repubblica Romana è portato sul suo stesso territorio, l’esigenza di diffondere le nuove idee si fa urgenza, si scontra probabilmente con una generale diffidenza; dinanzi all’incertezza della propria sopravvivenza cui andava incontro il nuovo Stato, è facilmente sospettabile che buona parte dei cittadini volesse tenersi lontano da pubbliche adunanze temendo per il presente e per il futuro. Ciò spiega quel tipo di spettacoli annunciati dai manifesti con i quali si cerca di attrarre il pubblico a teatro proponendo fatti eccezionali e sorprendenti.
Domenica 6 maggio 1849
Commedia brillantissima del Teatro Francese
L’ABITO NON FA IL MONACO
ovvero
Il cassiere senza cassa
e
L’Economia senza economia
Framezzato da canti eseguiti dai celebri DE GIULI e COLINI “Lode ai generosi Artisti che spinti da vero amor patrio non si fecero pregare a stendere una mano agli Artisti fratelli”.
Ingresso bajocchi 10.
Mercoiedì 9 maggio 1849
TARTUFFO
ossia
IL VERO GESUITA SMASCHERATO
di Molière
Dopo questo capo d'opera avrà luogo la tanto applaudita pantomina
IL GIGANTE PARA-FARA-GARAMUS
Domenica 13 maggio 1849
I celebri artisti di canto CITTADINA TERESA DE
GIULI BORSI e CITTADINO FILIPPO COLINI penetrati vivamente dalla critica situazione in cui trovasi
la Drammatica Compagnia accondiscesero gentilmente di cantare (. . .)
La Compagnia Drammatica rappresenterà una commedia
brillantissima in 5 atti
LE PRIGlONI DI BOSTON
ovvero
LA DONNA SOLDATO
(…)
I Capo Co;n~ci, onde mostatsj gmti ai suhh:r:i Artisti
I Capo Comici, onde mostrarsi grati ai sublimi Artisti e rendere più brillante il trattenimento, daranno in detta sera
IL TEATRO ILLUMINATO A GIORNO
Ingresso Bajocchi 10
Mercoledì 16 maggio 1849
Serata a beneficio dello Stenterello
C. NERI
IL MEDICO E LA MORTE
ovvero
LE CINQUE MEMORABILI GIORNATE DI
MASTRO STENTERELLO CIABATTINO
(di P. Generali?)
Al termine preghiera di Stenterello al pubblico
Mercoledì 23 maggio 1849
Sempre a favore della Drammatica Compagnia che
tutti i mezzi adopera onde riuscire nel suo impegno contratto con questo squisito Pubblico, il Cittadino Borsi dilettante, qui di passaggio, in unione ai Cittadini Maestro Selli, e Bonaventura Valletti accetteranno l'invito fattoli dalla Compagnia di agire in una Commedia, e generosamente si prestano a favore di quella onde vedere esaudite le sue speranze …
IL BARBIERE DI GHELDRIA
(di F. A. Avelloni)
Se le attuali circostanze politiche tolgono il concorso al Teatro, non però la filantropia di anime generose abbandona questa Compagnia la quale tutta in voi si affida onde la proteggiate giacché la sorte li accordò la grazia di rimanere tra voi o figli della grande nazione; e quando a questa povera Compagnia sarà dato portarsi altrove, farà noto dovunque che in Viterbo come nel vostro stato alberga ogni nobile sentimento, basato su di una salda, vera ed incontrollabile fratellanza.
Sabato 26 maggio 1849
A beneficio del primo attore
GIUSEPPE B. VIELLI
… triplice trattenimento COMICO, DRAMMATICO,
E DI CANTO ...
parte l° - Uno scherzo comico tutto da ridere il quale
verrà recitato dal Palco scenico a Sipario calato, dai
Palchetti, e dalla Platea
UNO SCHERZO CARNEVALESCO
ovvero
UNA VECCHIA CHE CERCA MARITO IN TEATRO
parte 2 La mia letizia infondere
«I Lombardi alla prima Crociata»
di VERDI
parte 3 - Dramma di M. Burgeois
IL BRAVO
DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA
1) Il Ritorno dell'Esule
2) Il pugnale e la Maschera del Bravo
3) L'incognito sollevatore dell'Orfana
4) L'amor materno alla prova
5) Il patto di Sangue
6) L'incendio alla Festa di Ballo Mascherata
7) L 'incontro dei due bravi
8) La fuga degli Amanti e l'ordine del Consiglio dei X
Sabato 2 giugno 1849
LA VEDOVA
CHE PIANGE IL MORTO,
E SOSPIRA PER IL VIVO
CON STENTERELLO
CONFUSO FRA I MEDICI E LE MEDICINE
intramezzato da musiche eseguite dal Cittadino A. BARTELLONI e dal Cittadino Maestro SELLI
Domenica 3 giugno 1849
Commedia
UN RICCO TESTAMENTO
A FAVORE DI UN POPOLANO
seguito da una
TOMBOLA
Certamente fu un ritorno alla prassi più usuale dello spettacolo. Dinanzi a questi documenti, che furono capaci di tradurre nel quotidiano dei programmi ancora ideali, il giudizio storico può trarre interessanti conclusioni. All'interno d'una prospettiva esclusivamente teatrale si può constatare la coerente realizzazione delle idee romantiche intorno al dramma Storico e più in generale alla concretizzazione d'un teatro politico; si può riscoprire il fine sociale e demagogico dell'evento spettacolare, esemplificato dalla nascita del problema della donna nel corso d'un rinnovamento sociale e da una cultura nascente dalla collettività come nel caso del drammaturgo viterbese (13). Ma quei documenti sono sufficientemente eloquenti anche intorno ad una situazione politica più ampia lasciando intravedere un pubblico che, timoroso di compromettersi, cominciava a disertare la sala del Teatro Genio, nonostante i richiami ideali e spettacolari che la Compagnia proponeva. Tutto ciò Verrebbe a confermare il senso del programma mazziniano, che poteva essenzialmente interessare la piccola e media borghesia urbana; e pertanto scarsi entusiasmi poteva, forse, suscitare in un centro basato interamente sugli schemi secolari d'una economia agraria, dominata dal latifondo e dai privilegi ecclesiastici, e nel quale il 20% della popolazione era costituito da sacerdoti e suore.
I pochi «eroi», spesso solo modestamente democratici, e i disordini popolari anticurialisti del 6 giugno, non sono ancora sufficienti ad avvalorare la tesi d'un moto cittadino di adesione alla Repubblica Romana e attraverso essa all'idea d'una nazione laica.