La fâm a n’l’aven mai padida... Giuseppe Bellosi

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Emo Curugnani (Rimini 1883- Roma 1976) - Collezione privata, RiminiMia madre, nata nel 1920 e che apparteneva a una famiglia mezzadrile, ricordando gli anni dell’infanzia e della gioventù, era solita dire: «La fâm a n’l’aven mai padida, mo a n’la sen gnânch mai cavêda d’pösta» («La fame non l’abbiamo mai patita, ma non ce la siamo neanche mai cavata del tutto»). La vera fame aveva invece colpito a lungo la categoria dei poveri: penso in particolare alle famiglie bracciantili fra Otto e Novecento.

Nel mondo popolare certo non c’è più il ricordo diretto o indiretto delle carestie, come quella che colpì i paesi della bassa Romagna tra il 1592 e il 1594. Nel ricordo dei vecchi della generazione di mia madre non compare la parola fame, ne compare tuttavia spesso un’altra, che le sta vicino: ed è la miseria, che ha accomunato, pur con certe distinzioni, mezzadri e braccianti fino a non molti decenni or sono.

La scarsità alimentare ha caratterizzato per secoli il mondo popolare e questo ha avuto come conseguenza un comportamento di massimo rispetto nei confronti del cibo, l’attribuzione ad esso di un valore che nella nostra società dello spreco è difficilmente concepibile: sprecare il cibo diventava un atto quasi sacrilego.

E il cibo nel mondo popolare è un elemento centrale dell’universo culturale. Come ci ricorda Eraldo Baldini in un saggio intitolato I riti della tavola in Romagna (Cesena, Il Ponte Vecchio, 2014), «mangiare non è mai stato solo “nutrirsi”, cucinare non è mai stato solo “preparare il nutrimento”. Il cibo e l’alimentazione sono sempre stati, per motivi diversi, al centro delle attenzioni dell’uomo, e molte di queste attenzioni hanno travalicato l’obiettivo del sostentamento, per porsi su di un piano culturalmente più alto», dando origine a credenze e usanze, simboli e riti che hanno caratterizzato i cibi e il loro consumo e che si sono in gran parte perduti.

Dunque proprio per la loro vitale importanza il cibo e il mangiare sono stati caricati di valori simbolici. Ad esempio il cibo diventava inoltre il dono per eccellenza: i fidanzati si scambiavano doni alimentari, cibi si donavano ai cantori che la notte dell’Epifania o di Calendimaggio andavano di casa in casa per portare un augurio di prosperità.

Alla tavola erano legati i momenti fondamentali della vita umana. SiMichele Placucci, Usi e pregiudizi de' contadini di Romagna, p. 31 può ricordare anzitutto il pranzo dato dopo il parto, al primo alzarsi della puerpera, durante il quale anticamente si consumava una zuppa o la tardura (stracciatella). Nel 1818 Michele Placucci, nel suo Usi, e pregiudizj de’ contadini della Romagna (Forlì, Barbiani), che è il primo libro dedicato alle tradizioni popolari di una regione italiana, specificava: «In qualche villa ancora si costuma diversificare la minestra nel pranzo: cioè s’è maschio sarà di gnocchi, ossiano maccheroni, e s’è femmina, di lasagne».

Quanto ai pranzi nuziali possiamo ricordare una testimonianza del parroco di San Leonardo in Schiova (Forlimpopoli) nell’ambito dell’inchiesta effettuata nel 1811 dal governo napoleonico sulle usanze e credenze dei contadini del Regno Italico: «In occasione di nozze i genitori della nuova sposa danno un pranzo a tutta la propria parentela unitamente a quella dello sposo, le quali, pranzato che hanno, accompagnano la sposa a casa dello sposo, dove trovano preparata lauta rusticana cena. Quivi ancora i parenti solennemente ingurgitati passano la notte in balli, giuochi e canti tra frequentissimo sbevazzare […]. Fatto finalmente giorno, la parentela prende nuovamente cibo; indi ritornano alle proprie case, lasciando per lo più la famiglia dello sposo a fare lunghi digiuni per la mancanza dell’annuale sostentamento già scialacquato nella circostanza delle nozze» (Tradizioni popolari nella Romagna dell'Ottocento. Le inchieste del 1811 sui contadini del Dipartimento del Rubicone, a cura di Brunella Garavini, Imola, La Mandragora, 2007). L'abbondanza di cibo, che in occasione delle nozze interrompeva temporaneamente la penuria alimentare, era anche simbolo di prosperità e perciò propiziava il benessere, la prosperità della nuova coppia.

Michele Placucci, Usi e pregiudizi de' contadini di Romagna, p. 72Nei secoli scorsi era usanza che alla conclusione di un funerale venissero distribuite delle pagnotte a quanti avevano partecipato. Ce lo ricorda nel 1778 Giovanni Antonio Battarra nella sua Pratica agraria (Roma, Casaletti): «Quelli poi, che son comodi, e voglion fare la carità, fanno fare due sacchi di pagnotte da gente che non sia di casa, su cui non cada il sospetto che abbian toccato il morto, e in un sito della strada, uno di qua e uno di là, dispensano a tutto l’accompagnamento, siano quei delle confraternite, sieno i preti, una pagnotta a testa». E aggiunge: «Al ritorno a casa dei parenti, in capo alla scala tutti si lavan le mani, e poi vanno a tavola, e il pranzo consiste in una minestra di ceci e non v’è altro». Battarra ricorda cioè il pranzo funebre, che aveva luogo dopo la tumulazione del defunto, e che in alcune località romagnole è stato in uso ancora fino alla metà del Novecento.

E Placucci nel 1818 annotava: «consisterà detto pranzo, o cena in una minestra, che deve essere di così detti “manfrigoli”, ed in un lesso di carne grossa; costumandosi in alcune ville di ceci senza verun altro cibo». Ceci e i manfrigoli  hanno la dimensione e la forma dei semi e quindi simbolicamente rappresentano la possibilità di rinascita del defunto, così come i semi sotterrati danno vita a nuove piante. Placucci aggiungeva che si preparava un piatto anche per il morto, che poi veniva consumato da un mendicante, o comunque da uno esterno alla famiglia.

Alla convivialità rituale erano legati più di oggi le più importanti feste dell’anno, quando si esorcizzava la fame e, come nel caso della festa di nozze, si propiziava la prosperità con un’insolita abbondanza alimentare e con cibi ricchi, come ad esempio i cappelletti (in brodo, naturalmente), la minestra per eccellenza delle grandi feste.

Placucci agl’inizi dell’Ottocento assegna i cappelletti esclusivamente al Natale (e così è stato in alcune zone e presso alcuni ceti ancora per oltre un secolo). E, qualche anno prima, nell’ambito dell’inchiesta napoleonica sulle tradizioni popolari, il prefetto del Dipartimento del Rubicone scriveva nella sua relazione: «Il giorno di Natale presso ogni Famiglia si fa una Minestra di pasta col pieno di ricotta, che chiamasi, di Cappelletti. L’avidità di tale Minestra è così generale, che da tutti, e massime dai Preti si fanno delle scomesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al n° di 400 o 500; questo costume produce ogni anno la morte di qualche Individuo per forti indigestioni», un «costume», questo, che si spiega solo considerando che, all’epoca, i cappelletti venivano consumati esclusivamente in quel giorno.

I due cibi in cui si concentrava il massimo della sacralità, in Romagna come in gran parte delle culture, anche antiche, erano i due nutrimenti essenziali: il pane e il vino (che non a caso sono anche le specie eucaristiche), la cui produzione, nelle famiglie contadine era domestica.

Il sacrale rispetto per il pane è un elemento dell’educazione popolare che molti di noi hanno profondamente interiorizzato, anche se oggi per noi il pane non ha la stessa importanza che rivestiva nell’alimentazione popolare di un tempo.

Troviamo poi il pane come elemento rituale: pensiamo ai piccoli pani benedetti ancora oggi distribuiti in chiesa il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, a beneficio degli  animali domestici (e dei loro padroni); alle pagnotte pasquali di Sarsina; al pane che veniva dato a chi partecipava a un funerale, come ho già ricordato; alle pagnotte con cui la sera del venerdì santo a Montefiore, nella valle del Conca, vengono ricompensati i figuranti della processione del Gesù morto (ognuno ne riceve un numero adeguato al compito eseguito).

E ricordiamo che il vino nei rituali matrimoniali ottocenteschi suggellava la parentela tra la famiglia dello sposo e quella della sposa.

Al centro del sistema alimentare dell’età preindustriale si collocava – come ci ricorda Piero Camporesi – il focolare, dove avveniva il passaggio dal crudo al cotto, dall’incommestibile al commestibile: quel focolare che era il centro stesso della casa (non a caso la camera del focolare era la câmbra d’ca o la câmbra d’in ca, ed essere nella camera del focolare era essere in ca, tout court). E al focolare era legato un sistema di credenze e di riti che regolava il comportamento collettivo di popolazioni che trovavano in questi adempimenti tradizionali, fissati e stabili, la garanzia di un ordinato e sicuro svolgimento del ciclo della vita e del ciclo dell’anno.

Oggi quell’universo simbolico si è in gran parte dissolto: nei cultori della buona tavola prevale l’attenzione per l’aspetto culinario, qualitativo, non certo per gli aspetti simbolici. Tuttavia qualche traccia di esso rimane nei nostri comportamenti alimentari e conviviali.

Camporesi scriveva nel 1989: «generalmente codici e rituali alimentari sono saltati, le vivande hanno smarrito il loro valore di comunicazione simbolica, d’alfabeto muto e sotterraneo affidato ai sensi (il gusto e l’olfatto) che conducono nel profondo, all’anima odorosa delle cose. I cibi hanno perduto il loro indecifrabile conturbante potere di allacciare un dialogo non solo con i vivi (la tavola famigliare, il convito, la festa), non solo con i morti (i pranzi funebri, le minestre e i dolci dei defunti), non solo con i nuovi venuti alla luce (le minestre per festeggiare le nascite e i dolci per le puerpere), ma anche con le potenze nascoste e i loro intermediari, i “patroni” che governano la vita e la morte (i dolci rituali, i dolci-offerta, i pani propiziatori, i pani e i dolci dedicati al patrono, i piatti sacrificali). La società delle macchine ha frantumato tutti i riti di passaggio e le loro proiezioni alimentari, elaborate dalla civiltà agraria pagano-cristiana» (La terra e la luna, Milano, Il Saggiatore).

Passando all’ambito più propriamente gastronomico, si può osservare che, come in altri ambiti della vita e della cultura, si contrappongono due tendenze: da una parte i caratteri legati ai singoli territori, più o meno vasti, dall’altra la standardizzazione, che si manifesta di volta in volta a livello regionale, nazionale, internazionale.

Pulon matt [Paolone matto], frammento manoscritto di un poema inedito in dialetto romagnolo del XVI secolo - Biblioteca Malatestiana, Cesena

Io mi occupo di lingue e dialetti e ho pensato che si può instaurare una comparazione tra i cibi e le forme linguistiche. Prendiamo ad esempio la pasta: nelle due versioni, fresca e secca, è uno dei pilastri dell’identità italiana, così come lo è la lingua italiana. Bisogna considerare che la lingua italiana è affiancata da innumerevoli dialetti. E come esistono varietà dialettali quasi in ogni città e in ogni paese, analogamente la pasta acquista forme diverse non solo dal Trentino a Lampedusa, ma anche all’interno di una stessa regione.

Pensate ai cappelletti, dei quali ho illustrato il carattere simbolico: qualche tempo fa ho partecipato a una gara di assaggio di sette tipi di cappelletti prodotti da ristoratori provenienti dai diversi territori romagnoli, dall’imolese fino al riminese, cappelletti tutti eccellenti ma tutti diversi: non esiste una formula autentica del cappelletto romagnolo, così come non esiste un solo dialetto romagnolo, perché come ci ricorda Piero Meldini nelle sue Noterelle storiche sulla pasta fresca in Romagna (pubblicate nel libro di Graziano Pozzetto, Le minestre romagnole, Rimini, Panozzo, 2009), anzitutto esistono due versioni distinte, una di grasso (con la carne) e una di magro (senza carne), e un numero imprecisato di varianti municipali e familiari. «Proprio qui, nelle varianti – precisa Meldini – stanno la ricchezza e la vitalità delle cucine regionali, e chi pretende di fissare la formula “autentica”, esatta e immutabile di un piatto locale, depositandola magari dal notaio, ne ignora evidentemente il carattere e ne stravolge la natura».

E la piada (o piadina), di cui sono state codificate soltanto due varietà dal disciplinare IGP (che, tra l’altro si è appropriato dell’espressione comune «piadina romagnola», che non può più essere utilizzata se non da chi segue il disciplinare IGP), in realtà, prima che si diffondesse nella forma venduta dai chioschi o fosse prodotta industrialmente, era un semplice sostituto del pane in ambito domestico ed era diffusa in diverse versioni. Ad esempio nella Romagna estense non era conosciuta la sottile piada cotta sul testo, ma un altro tipo di piada, più grossa, cotta sulla graticola.

Studiosi delle nostre cucine locali come Pozzetto e Meldini combattono tenacemente contro l’omologazione, per affermare il valore delle diversità gastronomiche locali, dei sapori e dei profumi che la cultura locale ci ha trasmesso e che rischiano oggi di essere dimenticati, sostituiti da sapori e profumi standardizzati.

Ma la diversità non è data solo dai luoghi. Le ‘regole’ relative alla confezione dei cibi non cambiano solo a seconda del territorio ma anche della classe sociale, e perciò non è possibile parlare indistintamente di una cucina romagnola.

Ecco allora da una parte i cibi della tradizione contadina, della pianura e della montagna, e dall’altra quelli della tradizione marinara. E, ancora, da una parte i cibi  poveri dei contadini e dei braccianti (che testimoniano un mondo di patimenti e di fame) e dall’altra quelli della borghesia e delle famiglie nobili, che  troviamo codificati in ricettari e libri di casa, alcuni dei quali, straordinari, sono illustrati da Zita Zanardi in Agricoltura e alimentazione in Emilia Romagna (Modena, Artestampa, 2015).

Di grande interesse sarebbe inoltre la documentazione dei termini dialettali relativi al cibo, alle minestre, ai piatti di carne e di pesce, ai dolci: ci troviamo di fronte a una terminologia che varia non solo da regione a regione ma anche da città a città, da paese a paese.

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Per rimanere ai primi piatti: i caplet, i pasaden, al lisegn soti, i garganel, i stricheti, j urcion, i cvatarnen, i mafrìgval, al strazadël, i macaron d’patêta: per me, ma penso anche per molti romagnoli della mia e delle generazioni precedenti, le minestre e altri primi (come e’ ris imbraghê, e’ ris int e’ lat, la sopa mata) sono indissolubilmente legati al loro nome dialettale. Queste minestre mi hanno nutrito e allietato quando la mia lingua esclusiva era il dialetto e ancora oggi, dopo aver imparato l’italiano a scuola come una lingua straniera, io posso evocare quei sapori solo nominando quei piatti in dialetto.

Come dice Tonino Guerra nella postfazione al libro di Pozzetto che ho citato, continuando a mangiare di tanto in tanto quei piatti, si continua a “mangiare l’infanzia”, in una sorta di ricerca del tempo perduto.

E alcuni cibi in Romagna, ma anche nelle altre regioni, sono legati ancora di più al dialetto perché non esistono al di fuori del territorio d’appartenenza e quindi non hanno un corrispondente nome italiano.

Esiste anche il caso inverso, cioè di cibi differenti che in diverse località sono denominati con lo stesso vocabolo. A questo proposito ho trovato un esempio nel libro di Zita Zanardi: si tratta del modenese burlangh o burlengh che è una sottilissima schiacciata, una specie di crêpe, mentre in bassa Romagna e’ burlèngh  è il migliaccio.

Di grande interesse sarebbe anche la ricostruzione della storia dei nomi dei vari cibi e delle parole relative alla loro confezione.

Di alcune voci ci ha spiegato l’origine Gianfranco Casadio nel suo Vocabolario etimologico romagnolo (Imola, La Mandragora, 2008): ad esempio amurtê (corrispondente all’italiano «spegnere», cioè mescolare la farina con le uova o con l’acqua) deriva dal latino volgare admortare («far morire», «soffocare»), ricavato dall’aggettivo mortuu(m) («morto»); s-ciadur («matterello») viene da subtiliatoriu(m) («assottigliatoio») ed è collegato al verbo stijê o s-cê («assottigliare»), dal latino tardo subtiliare; tulir («spianatoia») viene da tabula(m) («asse di legno») con il suffisso -iere; bìgul («vermicelli», «spaghetti») deriva dal latino bombyculu(m) (diminutivo di bombyce(m), «verme», «baco»), mafrìgul o manfrìgul («malfattini») è voce composta da manu («con la mano») e «fricare, intensivo di friare, ‘sminuzzare’, con il suffisso -ulu»; tardura («stracciatella») viene dal latino tardo tritura(m) («atto del triturare, cosa triturata»).

Il volume di Zita Zanardi è pubblicato nella collana «Immagini e documenti» dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna. Viene da chiedersi se i cibi siano beni culturali. È evidente, da quanto ho esposto, che i cibi sono beni culturali, ma sono beni culturali particolari.

Ci sono beni culturali materiali (come i monumenti, gli edifici storici, i dipinti, le sculture, i libri) e beni culturali immateriali (come le lingue e i dialetti, la musica, beni evanescenti, costituiti di suoni che svaniscono appena sono stati prodotti). I beni materiali vengono fruiti attraverso la vista, il tatto; i beni immateriali attraverso l’udito.

I cibi sono beni culturali che vengono fruiti attraverso più di un senso: la vista, l’odorato, l’olfatto. Perché i cibi sono beni culturali fatti per essere consumati, non in senso figurato, ma in senso letterale. Mentre dei beni materiali “tradizionali” va garantita il più possibile l’integrità, i cibi invece, ovviamente, non devono essere conservati nelle vetrine di un museo, ma devono essere mangiati. Dei cibi invece va conservato, tutelato e tramandato l’elemento immateriale, cioè i saperi e le capacità e abilità pratiche che ne permettono la confezione.

Purtroppo i romagnoli (e gran parte degli italiani) hanno scelto di abbandonare le varietà dialettali per un’unica lingua, imparata scolasticamente, una lingua neutra che non ha il calore e il colore delle parlate dialettali. Mi auguro che per quando riguarda i cibi si comportino diversamente e salvaguardino quell’infinita varietà che è un valore che va trasmesso alle generazioni future.

Giulio Ruffini (Villanova di Bagnacavallo 1921 - Ravenna 2011)











Bibliografia

Eraldo Baldini, I riti della tavola in Romagna, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2014.
Giovanni Antonio Battarra, Pratica agraria, Roma, Casaletti.
Piero Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione, folclore, società, Milano, Il Saggiatore, 1989.
Gianfranco Casadio, Vocabolario etimologico romagnolo, Imola, La Mandragora, 2008.
Piero Meldini, Noterelle storiche sulla pasta fresca in Romagna, in Graziano Pozzetto, Le minestre romagnole, Rimini, Panozzo, 2009.
Michele Placucci, Usi, e pregiudizj de’ contadini della Romagna, Forlì, Barbiani.
Graziano Pozzetto, Le cucine di Romagna, Roma, Orme-Tarka, 2013.
Tradizioni popolari nella Romagna dell'Ottocento. Le inchieste del 1811 sui contadini nel Dipartimento del Rubicone, a cura di Brunella Garavini, Imola, La Mandragora, 2007.

Giuseppe Bellosi (Fusignano, 1954) si occupa della documentazione e dello studio dei dialetti, della letteratura dialettale e delle tradizioni popolari della Romagna. Dal 2015 fa parte del Consiglio Direttivo dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna. Nel 2000 gli è stato assegnato il Premio Guidarello per la sezione «Romagna. Studi e ricerche». Tra i suoi volumi ricordiamo Vi do la buonasera. Studi sul canto popolare in Romagna: il repertorio lirico (con T. Magrini, Clueb, 1982), Calendario e folklore in Romagna (con E. Baldini, Il Porto, 1989), Verificato per censura. Lettere e cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale (con M. Savini, Il Ponte Vecchio, 2002 e 2015), Halloween. Nei giorni che i morti ritornano (con E. Baldini, Einaudi, 2006), Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa (con E. Baldini, Laterza, 2012); Poets from Romagna (Cinnamon Press, 2013).