Lavoro

Nessuno di noi si sottoporrebbe ai medicamenti dei primi del ‘900. Nessuno affronterebbe un viaggio con le automobili di allora. Nessuno sano di mente crederebbe ai deliri sulla razza di allora. Nessuno prenderebbe un tram con un cappello a cilindro. Eppure, molti di noi hanno parlato con nonni e conoscenti che hanno creduto in quelle idee, vissuto quelle proposte, sperimentato quelle soluzioni. Poi le hanno riviste, abbandonate, ripudiate perfino. Il lavoro non fa eccezione. Il contesto produce pressioni da cui è difficile ripararsi, le idee hanno una inerzia che non possiamo frenare facilmente, le mode si impongono contro la nostra volontà. Ma leggere i presocratici e giudicarli avendo visto le foto satellitari sarebbe ingiusto. Ridere del clamore per la minigonna nella swinging London degli anni ’70 è ingeneroso. Non dobbiamo scandalizzarci per gli errori del passato frutto di scarsa conoscenza ma di quelli che continuiamo a fare oggi, nonostante consolidate evidenze.

La Storia non giudica: racconta il processo con cui si formano idee, posizioni, costumi, leggi, sentimenti.

Il lavoro è un elemento fondante della nostra società: la nostra Costituzione Repubblicana ha scelto il lavoro come minimo comun denominatore della comunità, come base su cui costruire il sistema sociale, il punto d’ancoraggio tra l’uno e il tutto. Il cittadino della Repubblica è soprattutto un lavoratore. Presto o tardi, bene o male, il lavoro gli dirà quale posto gli spetta nella società, gli dirà quali consumi potrà fare e che costumi dovrà tenere. Il lavoro dà il senso di appartenenza, più del voto, più dei diritti, più della bandiera. Il lavoro sta progressivamente perdendo questa funzione e la democrazia ne risente.

Nella raccolta delle riviste dello IAS vediamo come veniva raccontato il lavoro e la società del lavoro a partire dai primi del Novecento e possiamo ravvisare gli embrioni di molti costumi economici, delle nostre organizzazioni lavorative e, pure, gli strumenti editoriali oggi diffusamente in uso.

Ad esempio, i manifesti esplicativi di nuovi Istituzioni, le dettagliate illustrazioni meccaniche, le didascalie degli oggetti o le pitture evocative di sentimenti e valori italici (patria, progresso, industria) sono un interessante esempio di comunicazione mediatica e offrono già i limiti della comunicazione massiva che oggi sperimentiamo quotidianamente. Ad esempio, una foto digitale scambiata sui social è una grande quantità di dati con basso contenuto, viceversa la Bibbia o il Capitale sono piccole quantità di dati ma con un grande messaggio. Le immagini del ‘900 sono cariche di significati, facili da recepire (si parla anche a chi non sa leggere) insomma delle perfette infografiche ante litteram. Ma sono comunicazioni elementari, superficiali, il messaggio è ideologico, appaiono più propaganda che informazione. Forse ai posteri pure le nostre comunicazioni sembreranno intrise di sovrastrutture, contradditorie e magari errate. Scripta manent, imagines quoque.

E veniamo alla seconda impressione che si ricava scorrendo queste raccolte. Emerge l’a-scientificità degli scritti. In quelle Riviste - ovvero raccolte di valutazioni di analisti di provata fama (almeno è quello che intendiamo noi) - oggi recuperiamo scritti alieni. Nessun metodo scientifico, nessun processo di selezione, nessuna validazione delle osservazioni. Opinioni in libertà, anzi illiberali il più delle volte. La scienza come arma della propaganda (come si diceva): si giustificano con dati dubbi comportamenti ancor più dubbi. Ritroviamo in nuce la disinformazione come arma di eccitazione delle folle, della comunicazione come indottrinamento, distantissimi dal principio di confutazione di Popper.

Una sorta di metodo scientifico inverso. Il dato allora era usato come sintesi, il numero come fine della discussione. Oggi è l’inizio dell’analisi e viene prima della interpretazione, della teoria, dell’intuizione. Spesso il dato era considerato auto-esplicativo come se gli errori nella raccolta, nella misura o nella stima non esistessero.

Molto interessante è l’estetica del carattere tipografico. Si passa dalla Bella Époque con allegri ghirigori ai monumentali caratteri neoclassici, dalle scritte moderniste alle grafiche imperialiste. La dimensione del carattere come gerarchia dell’importanza del testo: maiuscolo è il titolo, è il programma, è la soluzione, è la questione … quasi ci fosse una pre-lettura che selezioni le cose salienti da apprendere.

Un altro tratto comune, ora superato, è il registro didattico. Il tono è didascalico, perentorio, paternalistico di chi sa e vuole rivelarti la verità. Direi lirico, spesso per parabole o esempi si cerca di introdurre la questione e portare il lettore sulle proprie posizioni, giustificate sommariamente da evidenze non ben documentate o riflessioni sovente prive di fondamento tecnico. Indottrinamento o persuasione, nessun dubbio socratico. Anche le riviste britanniche erano inclini ad un registro più persuasivo che informativo, senza però arrivare ai torni melodrammatici delle nostre riviste.

Un'altra interessante e stridula evidenza sono i connotati del lavoro, in termini di quantità e qualità dell’occupazione. Oggi si parla di lavoro da remoto, di settimana corta, di part-time ovvero di riduzione dell’impegno lavorativa e modulazione più agile dell’erogazione delle prestazioni. Ieri, invece, si descriveva un lavoro pesante, estenuante, insicuro. Si lavorava tanto (il sabato fascista, le 10-12 ore al giorno erano la normalità) e spesso in condizioni di pericolo (ai nostri occhi) sebbene allora non fosse percepito il rischio come tale, o meglio, era mistificato dal concetto di sacrificio (per sé, per la famiglia, per la patria) e ammantato di coraggio, sfida, progresso. L’attività lavorativa in sé era molto diversa: molto più manuale, meno aiutata dalle macchine, le organizzazioni erano massive - grandi numeri per grandi opere - e il sistema era molto gerarchico sebbene la divisione del lavoro fosse ancora primitiva, con economie di scala inefficienti e bassi livelli di implementazione delle tecnologie, emanazione di politiche tipicamente labour intensive e quindi a bassa produttività unitaria.

Il lavoro è maschile. Possiamo far risalire a quel periodo il cliché della famiglia tipicizzata nello schema uomo occupato fonte di reddito, donna che si dedica alla cura della prole e della casa. Questa visione duale e arcaica, propagandata come foriera di un assetto sociale stabile e felice sopravvive ancora come disvalore culturale. Se ne apprezza la pervasività distillata in stereotipi cinici e banali, mortificatori delle donne e del buon senso, con cui dobbiamo ancora confrontarci ai giorni nostri.

Quando ci sono innovazioni tecniche od organizzative ci sono sempre manipoli di conservatori, ostili al cambiamento, e avanguardie di progressisti, favorevoli. Portatori di istanze corporative e di rendite di posizione fronteggiano chi vuole cambiare, sedersi al banchetto, partecipare ed elevarsi dai propri natali. Il lavoro, per il ruolo che ha assunto nelle democrazie occidentali nell’ultimo secolo, è stato così spesso l’oggetto di accese dispute, il laboratorio della società, in cui si mischiavano gli elementi freddi e caldi, gli stessi fronti che poi ritroviamo nelle scelte politiche.

Sostanzialmente il suo alter ego è stato nel ‘900 il capitale (economico, finanziario, fondiario) che ha svolto la funzione di “nemico” ufficiale del lavoro e del lavoratore. In realtà, come sempre, la questione è più articolata e la dinamica complessa. Molte altre questioni si sono inserite in questa dialettica, che nel tempo hanno modificato il ruolo del lavoratore, la capacità del lavoro di emancipare le persone, la possibilità dello Stato di garantire e creare lavoro per tutti.  Si sono creati schieramenti che hanno indossato le maglie del lavoro per distinguersi. Oggi assistiamo al tramonto del diritto al lavoro, vediamo il superamento del ruolo del lavoro di fondamento dello Stato, alla sua funzione identitaria. È stato sostituito di fatto dal consumo, dall’appartenenza, dall’apparire. Per cui non solo il cittadino è tale indipendentemente dal suo status occupazionale ma sovente il lavoro non garantisce più uno status. Non è né più necessario né sufficiente.

 

di Emiliano Mandrone - INAPP