Il ventennio fascista può essere considerato uno dei periodi più attivi per le riforme compiute nel sistema educativo nell’Italia Unita. Sotto i nove ministri della Pubblica istruzione (dal 1929 dell’Educazioe nazionale) che si avvicendarono nel ventennio, furono varati 3500 decreti e leggi sulla scuola, di cui quasi 2500 dal 1922 al 1930. Alla vigilia dell’avvento del fascismo, l’Italia, contava circa 37 milioni di abitanti ed era un paese essenzialmente agricolo, con un altissimo numero di analfabeti. Nel 1921 il 25% dei giovani tra il tra i 21 e i 29 anni non sapeva leggere, e la percentuale delle ragazze analfabete toccava il 31%.: un dato straordinario in confronto alle altre nazioni europee, che metteva in luce una situazione a cui era necessario porre rimedio.
L’attenzione posta al tema dell’educazione non fu finalizzata esclusivamente ad affrontare la bassa scolarizzazione della popolazione, ma anche a creare un nuovo modello di scuola, che permettesse di educare la gioventù italiana a comprendere il fascismo e ad acquisirne i valori portanti. La scuola fu dunque considerata dal regime uno dei luoghi privilegiati per la formazione politica della società nel suo complesso, per la propaganda delle idee e dei principi del partito e per la creazione del consenso.
Tutte le riforme del sistema scolastico realizzate miravano a rendere il sistema scolastico maggiormente funzionale al regime; ma è interessante analizzare come le due principali riforme (Gentile e Bottai), pur svolgendo entrambe questo ruolo di servizio all’ideologia, ne hanno enfatizzato aspetti differenti.
Giovanni Gentile nel 1923 promosse la riforma della scuola che fu definita da Mussolini come “la più fascista delle riforme”, in quanto recepiva istanze proprie del fascismo, promuovendo lo spirito comunitario e infondendo alti valori etici con lo scopo di formare spiritualmente l’individuo.
La riforma si proponeva di creare una nuova classe dirigente moralmente e culturalmente all’altezza delle tradizioni nazionali e del ruolo rivendicato in Europa, inglobando nella pratica scolastica l’educazione fisica, l’istruzione militare e la partecipazione alle vicende e alle manifestazioni del regime.
I principi fondamentali della riforma erano: il controllo statale della scuola; l’istituzione di un albo professionale degli insegnanti; il rafforzamento della gerarchia all’interno degli istituti.
Gentile progetta una scuola aristocratica ed elitaria, pensata per "i migliori" e non per tutti e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo professionale per il popolo e la classe lavoratrice. Le scienze naturali e la matematica furono messe in secondo piano, mentre le discipline tecniche ad esse correlate avevano la loro importanza solo a livello professionale.
Il sistema scolastico ideato da Gentile comprendeva: le scuole primarie ed elementari, le scuole complementari per l’avviamento al lavoro e le scuole medie, distinte in tre indirizzi: 1) istituto tecnico professionale, 2) ginnasio/liceo classico o scientifico e 3) istituto magistrale. Il liceo classico era l’unica scuola secondaria a consentire l’ingresso a tutte le facoltà universitarie, mentre il liceo scientifico non permetteva l’accesso a Giurisprudenza e Lettere e Filosofia, e gli istituti tecnici preparavano solo per Economia e Commercio, Agraria e Scienze Statistiche. Vennero quindi istituiti due canali scolastici senza sbocco: la scuola complementare, destinata ai modesti cittadini, e il liceo femminile.
Questa riforma caratterizzava la scuola in senso antidemocratico e perciò, pur prevedendo l’innalzamento dell'obbligo scolastico sino al quattordicesimo anno di età, provocò un calo degli iscritti alle scuole secondarie e una diminuzione degli studenti provenienti dai ceti più poveri. La scuola complementare si rivelò dunque un fallimento: nel 1923/24 ebbe 83000 iscritti contro i 141000 della scuola tecnica dell’anno precedente. Gentile si dimise dal ministero nel 1924 e già nel 1928 il ministro Giuseppe Belluzzo sostituì la scuola complementare con la Scuola di avviamento professionale che permetteva a chi aveva conseguito la licenza elementare di continuare gli studi ottenendo una formazione verso il mondo del lavoro o le scuole professionali e tecniche.
Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936 al 1943, realizzò l’altra riforma fondamentale del sistema educativo durante il periodo fascista. A differenza della scuola aristocratica ed elitaria di Gentile, quella pensata da Bottai era una vera scuola fascista che mirava a formare il cittadino, il soldato, il lavoratore, del tutto inserito nella nazione.
Nel 1939 Bottai, con la prima dichiarazione della Carta della Scuola, che si richiamava nella forma alla Carta del Lavoro del 1927, delineava in 29 punti la struttura, le caratteristiche e le finalità della scuola italiana, che doveva diventare il “fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali, dalla famiglia alla Corporazione, al Partito”.
Elemento centrale della riforma di Bottai è il lavoro, che riteneva dovesse essere “il comune denominatore della scuola italiana”. Tra le novità della riforma possiamo annoverare la creazione di una Scuola Artigiana post-elementare di durata triennale in cui si apprendevano i lavori manuali, e la Scuola professionale, alternativa alla scuola media unica (poiché unificava i corsi inferiori del Liceo classico, dell’Istituto tecnico e dell’istituto magistrale), che era finalizzata alla formazione delle figure professionali richieste nel campo dei servizi e della grande industria, e che dava la possibilità di frequentare un ulteriore biennio di Scuola Tecnica.
Nella Carta il lavoro viene associato allo studio e all’addestramento sportivo nella formazione del carattere e dell’intelligenza. Sempre nella Carta si legge: “Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi. Speciali turni di lavoro, regolati e diretti dalle autorità scolastiche, nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare, educano la coscienza sociale e produttiva propria dell’ordine corporativo”.
Tuttavia, l’inserimento del lavoro nei programmi didattici non aveva solo scopi formativi, mirati alla trasmissione di competenze tecniche specifiche utili al mondo del lavoro, una sorta di antesignano del nostro sistema duale; piuttosto nell’ottica della Civiltà del Lavoro promossa dal fascismo, il lavoro stesso era considerato fondamentale per tutta la società e non poteva rimanere estraneo al processo educativo.
Bottai perseguiva dunque diversi scopi: creare una scuola organicamente connessa col sistema, orientare gli studenti verso situazioni consone alle esigenze economiche e politiche dell’Italia fascista e contemporaneamente garantirsi il consenso di massa. La riforma Bottai non venne mai attuata a causa dell’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, l’unica disposizione adottata fu la scuola media unica istituita nel 1940.
Alla luce di questi brevi accenni di storia della scuola italiana, appare evidente il motivo dei toni enfatici con cui la stampa di settore nel corso del ventennio descriveva il ruolo della scuola e dell’educazione tecnica: l’opera di propaganda e di creazione del consenso, attuata nella scuola, era realizzata anche attraverso i giornali e le pubblicazioni di regime.
di Daniela Carlini - INAPP