Donne: lavoro, politica, famiglia

Le donne e la Prima guerra mondiale

Con l’evento della Prima Guerra Mondiale e gli uomini al fronte, il lavoro delle donne e la loro presenza nelle fabbriche diventa essenziale per supportare l’economia di guerra e non solo. Anche l’impegno di sussistenza e cura nella società civile le vide attivarsi con successo, tenuto conto che in questo periodo storico non esisteva un modello di welfare-state. Le donne si mettono in gioco, non solo per la propria famiglia (il marito, il fratello o il padre al fronte), dimostrando la loro capacità di agire in diversi settori economici e di cura. La guerra divenne un momento storico nel quale si rese evidente come il lavoro delle donne nei diversi ambiti della produzione industriale e agricola fosse fondamentale per il Paese stesso evitando maggiori sofferenze alla popolazione civile, militare e all’economia intera: un significativo aiuto fu quello delle maestre che, se ben poche, riuscirono in tempo di guerra a continuare ad alfabetizzare il Paese, anche se forti erano le connotazioni patriottiche dell’insegnamento. Ma durante la guerra le donne non si attivarono solo sui fabbisogni di cura o di insegnamento (infermiere e crocerossine) divennero tramviere, operaie, spazzine, barbieri, sarte, lavorando alle stazioni dei treni, nelle botteghe e negli studi professionali. Molte di loro si specializzarono nella fabbricazione di bombe, detonatori, fucili, proiettili, lavoravano alle macchine industriali, realizzavano divise e scarpe per gli uomini al fronte e, altre ancora, lavorarono nelle istituzioni a contatto con le famiglie che chiedevano notizie dei loro cari in guerra. L’evento bellico, dunque, aveva aperto dei varchi culturali non indifferenti sulla possibilità di attivare: processi di uguaglianza tra uomini a donne; commistioni dei diversi ceti sociali tra donne stesse mettendo in discussioni gerarchie e, al medesimo tempo, le donne e le singole associazioni femminile acquisirono consapevolezza della potenziale indipendenza e delle capacità individuali e collettive. Con la fine della guerra, i sogni delle donne si infrangono sulla scia del ritorno degli uomini alle loro occupazioni e mansioni. Il tempo sembrò tornare indietro per molte donne che ripresero a svolgere il ruolo di madri, sorelle, mogli. Tuttavia, dall’esperienza bellica (oltre a scatenare qualche protesta delle donne lavoratrici a causa dei licenziamenti) si rafforzò il principio della parità tra uomini e donne con la richiesta di queste ultime al diritto di voto.

Il Fascismo

Nel regime i ruoli di genere culturalmente e storicamente definiti ebbero un ruolo prioritario per la promozione sia dell’ideologia fascista che dell’etica cattolica a sfavore della donna. La vita sociale e amministrativa era attraversata da simbolismi che modificavamo i valori della vita comune. In primo luogo, quelli afferenti al servizio della patria e al rafforzamento del partito e dell’idea del fascismo come progetto salvifico ed elettivo di un popolo e di una razza superiore. Durante il regime si eliminò ogni riferimento ai diritti civili delle donne. “L’ideologia fascista era formata da un sistema di quattro miti: il mito della razza, il mito della maternità, il mito dell’eroe e il mito del Leader, tramite i quali si trasformò la dottrina fascista in religione” [1]. In questo contesto, gli uomini venivano educati al valore rappresentato dalla forza, dalla virilità, dall’eroismo e dall’ordine; le donne, invece, allo spirito di sacrificio per la patria, per l’uomo di casa e alla necessità di far crescere popolazione della razza italica. Con il mito della maternità, infatti, il fascismo rafforza l’idea della razza affermando che l’origine della storia dell’uomo italico è nell’idea di madre che perde la sua connotazione biologica per divenire una entità spirituale superiore che fa nascere soldati ed eroi. Se l’uomo era educato a suon di libro e moschetto, alle donne si insegnava ad essere madri prolifiche e curatrici della casa con lo scopo di “prevenire il decadimento della razza.

“Le bambine, a partire dalla prima elementare, venivano iscritte fra i “figli della lupa”. Dagli 8 ai 14 anni erano inquadrate nelle “piccole italiane” e poi, fino ai 17 anni, nelle “giovani italiane”. Dai 18 ai 21 anni si diventava “giovani fasciste”. Successivamente si poteva aderire ai “fasci femminili”, il cui statuto prevedeva fra l’altro l’educazione fisica della donna”. [2]

Tale attenzione al mondo femminile servì ad accrescere consensi nel paese, i fasci femminili furono strumento privilegiato per tale obiettivo. La sfera di vita della donna doveva essere incentrata nel mondo femminile (così come il fascismo la interpreta) e mai entrare in quella maschile. Alle donne fasciste non era permesso fare la politica perché il loro mondo di azione era solo quello che non prevede nessuna espressione maschile. La politica e l’educazione era solo appannaggio dell’uomo-politico e del maschio-eroico. Il lavoro educativo delle organizzazioni dei fasci femminili era quello, dunque, di tener ben distanti i due generi e gli ambiti di azione reprimendo ogni spirito di pari opportunità e di uguaglianza. Nel dicembre 1926 le donne sono escluse dall’insegnamento dalle cattedre dei licei ed è era già vietato assumere incarichi dirigenziali si veda in proposito la Riforma Gentile [3]. Si istituiscono licei femminili nei quali l’indirizzo principale è quello di rafforzare il più possibile il sentimento di vincolo delle donne con la famiglia. Le principali figure professionali a cui una donna poteva ambire erano le attività di insegnamento e di assistenza: la maestra (anche nelle zone rurali), l’infermiera, la segreteria, la collaboratrice domestica. Se da una parte il fascismo utilizzò le donne anche come controllo della società, molte videro in queste nuovi lavori e professioni la possibilità di usciere dallo stretto ambito famigliare; tuttavia, esse rimasero intrappolate in una cultura sempre più stringente anche per l’ingerenza della chiesa cattolica che contribuisce a promuovere e rafforzare la visione della donna sottomessa, stringendo con il fascismo un patto educativo, politico e sociale che consolida l’educazione e la cultura delle donne mogli e “fattrici” per il bene della Chiesa e della Patria. La stessa Enciclica “Quadragesimo anno” (1931) di Pio XI, infatti, condanna il lavoro delle donne al di fuori degli impegni della famiglia: ”Le madri di famiglia prestino l'opera loro in casa sopra tutto o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un'arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri, e particolarmente la cura e l'educazione dei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare” [4].

Per rafforzare ed istituzionalizzare il ruolo della donna fascista, il regime istituisce per il 24 dicembre (notte delle natività) la giornata della madre e del fanciullo e le madri più feconde con i loro figli al seguito vengono premiate in denaro e ricevute dal Papa e dal Duce. Lo stesso ideologo fascista Fernando Loffredo, studioso della famiglia, sottolinea nei suoi scritti la vocazione naturale delle donne al lavoro domestico e alla maternità. La cultura della donna, nel ruolo e nella funzione di sposa e madre, è il nucleo centrale con il quale il regime impone la lotta contro una costruzione più moderna del genere femminile. Il pensiero del Duce rimarca infatti con tutta la sua forza di dittatore l’idea di una donna sottomessa: "La donna deve obbedire. [...] Essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto dell'architettura in tutti questi secoli? Le dica di costruirmi una capanna, non dico un tempio! Non lo può! Essa è estranea all'architettura, che è la sintesi di tutte le arti, e ciò è un simbolo del suo destino. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo. Naturalmente essa non dev'essere una schiava, ma se io le concedessi il diritto elettorale, mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare".[5] 


[1] Graziosi, Mariolina, La donna e la storia. Identità di genere e identità collettiva nell’Italia liberale e fascista, Napoli, Ed Liguori, 2000 [2] Archivio deli Iblei [3] Art. 7. La scuola professionale femminile ha lo scopo di preparare le giovinette all'esercizio delle professioni proprie della donna e al buon governo della casa. Nella scuola professionale femminile si insegnano: cultura generale (italiano, storia, geografia, cultura fascista), matematica, nozioni di contabilità, scienze naturali, merceologia, disegno, nozioni di storia dell'arte, economia domestica, igiene, lavori donneschi, lingua straniera, religione. Art. 8. La scuola di magistero professionale per la donna ha lo scopo di dare la preparazione teorica e pratica necessaria per l'insegnamento dei lavori femminili o della economia domestica. In essa si insegnano: italiano, storia, geografia, pedagogia, scienze naturali, merceologia, disegno, storia dell'arte, economia domestica, igiene, lavori femminili, nozioni di agraria, lingua straniera, religione [4] Lettera enciclica quadragesimo anno del Sommo Pontefice Pio XI [5] Susmel, Edoardo; Susmel, Duilio, Opera omnia di Benito Mussolini. 36 volumi, Firenze, La Fenice, 1956-1963.

di Rosario Murdica - INAPP