Alberti, Libri de re aedificatoria decem ... 1512

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Leonis Baptistae Alberti Florentini viri clarissimi Libri de re aedificatoria decem. Opus integrum et absolutum diligenter recognitum … Facta est etiam capitum ipsorum non inelegans tabula dicionum et ipsarum rerum scitu ignarum quae in margine sunt indice admodum luculento. Venumdatur Parrisijs: in sole aureo vici sancti Iacobi. E in intersignio trium coronatum e regione diui Benedicti (Parisius : in sole aureo vici diui Iacobi impressum : opera magistri Ramboldt & Ludouici Hornken, 1512).


Il De re aedificatoria, presentato a papa Niccolò V nel 1452 ma perfezionato anche in seguito, ebbe diffusione manoscritta fino al 1485, quando per iniziativa di Bernardo Alberti, cugino di Leon Battista, fu stampato a Firenze da Nicolò di Lorenzo Alemanno, con lettera accompagnatoria di Poliziano e dedica a Lorenzo il Magnifico. L’opera è suddivisa in dieci libri -come in Vitruvio, al quale Alberti s’ispira- ma gli argomenti non coincidono e l’ordine dei libri è diverso.

Il primo libro tratta dei “lineamenti” (il progetto generale): dove collocare l’edificio, tipi di pianta, muri, tetti, scale; il secondo esamina i materiali (qualità di legni, pietre, mattoni, calce, e anche tempo meteorologico più adatto alla messa in opera); il terzo considera come “mandare ad effetto la fabbrica”, dunque le modalità di costruzione (fondazioni, tecniche per muri, volte, tetti, pavimenti); il quarto libro ha per tema le opere pubbliche e l’urbanistica (“trattato universale” lo chiama Alberti); il quinto elenca gli edifici in rapporto ai vari tipi di committenti: dalla reggia, alla rocca, ai palazzi delle magistrature fino alle ville; il sesto libro verte sugli ornamenti; il settimo sull’ "ornare i sacri luoghi” (l’architettura templare); l’ottavo sugli ornamenti degli edifici pubblici profani; il nono sugli ornamenti degli edifici privati; il decimo sul restauro.

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La scelta del latino per il De re aedificatoria postula un pubblico selezionato di intenditori colti, e infatti sappiamo della circolazione manoscritta del trattato alla corte papale, in quella di Urbino, in quella d’Ungheria, presso i Medici. “Vorrei che quanto fusse possibile tu t’ingegnassi d’avere a fare con prencipi delle città splendidissimi e di fabbricare desiosi” (Libro IX), raccomanda Alberti al virtuale architetto. Da parte sua egli mise in pratica il proposito, lavorando per i Rucellai a Firenze, per Sigismondo Pandolfo Malatesta a Rimini, nella chiesa di San Francesco trasformata nel mausoleo del principe (il cosiddetto tempio malatestiano), a Ferrara per gli Este, a Mantova per i Gonzaga. È un atteggiamento che segna il passaggio dalla mentalità e dalle esigenze del mondo comunale a quello cortigiano. Tuttavia l’ideale estetico albertiano rifugge ogni ostentazione, aspirando a un ordine razionale, alla discrezione e alla mediocritas: “finalmente t’ ammonisco –scrive Alberti– che non ti metti a fare opera insolita, e non più veduta”. 

L’edizione esposta è la seconda latina, dopo quella fiorentina del 1485: fu pubblicata a Parigi nel 1512 dagli stampatori Berthold Rembolt e Ludwig Hornken e curata da Geoffroy Tory, letterato, editore e incisore francese, régent, allora, del collège de Coqueret dell’Università. Campeggia al centro del fastoso frontespizio in parte compromesso dal timbro della Biblioteca della Repubblica Veneta, proprio la marca tipografica di Rembolt sostenuta da due leoni rampanti, sotto ad una vite piena di grappoli maturi. Nella nota a penna al margine inferiore,, forse l'indicazione di un prezzo: "8.40"

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