Il paesaggio è una sorta di “palinsesto” che conserva i “segni” della storia e della sua formazione. Studiare il paesaggio umido dei territori del SIMBAS, leggerlo, scomporlo nelle sue componenti, significa quindi ricostruire la storia millenaria del complesso rapporto tra uomo e natura. Si individuano gli equilibri di volta in volta raggiunti, ma anche le cause della loro immediata rottura, vedendo come la presenza dell’uomo ha risposto alle provocazioni dell’ambiente fisico e, in ultima analisi, in che misura vi si è adattato e ha adattato ad essi la propria cultura, il proprio modo di vivere, e come in questa dialettica ha plasmato la propria identità. Si può dunque parlare, soprattutto per l’agro reatino, di un “instabile” paesaggio forgiato sulla continua e drammatica storia umana, dalla protostoria fino agli anni ’50 del secolo scorso, tesa a strappare la terra alle acque: un paesaggio “liquido”, in cui l’alternarsi di suoli umidi, trasformati poi in suoli asciutti e adatti all’agricoltura, ha determinato l’identità degli uomini delle paludi diventati magistrali bonificatori e portolani.
A questo paesaggio culturale delle acque ben si adatta la definizione data nel secolo scorso dal geografo americano Carl O. Sauer nel suo saggio “The Morphology of Landscape”: «Il paesaggio culturale è forgiato da un paesaggio naturale ad opera di un gruppo culturale. La cultura è l'agente, gli elementi naturali sono il mezzo, il paesaggio culturale è il risultato».
Questo concetto, oggi estremamente attuale nell’ambito delle strategie di conservazione del paesaggio, è stato adattato e sviluppato dall’UNESCO come parte di uno sforzo internazionale per riconciliare uno dei più pervasivi dualismi del pensiero occidentale quello tra natura e cultura.
