San Venanzio di Galliera. Palazzo Bonora

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Palazzo Bonora, San Venanzio di Galliera

Martedì 5 aprile 2016, alle ore 20.45, nel salone d'ingresso di Palazzo Bonora è stato presentato il volume Agricoltura e alimentazione in Emilia Romagna. Antologia di antichi testi, a cura di Zita Zanardi. L'incontro era inserito  fra le iniziative della manifestazione "CondiMenti - Festival di cibo e letteratura", a cura dell'Unione Reno Galliera, in collaborazione con Proloco Galliera. Al termine è stata offerta una degustazione di prodotti tipici del territorio.

Nodo d'acque tra il fiume Reno, il Canale Emiliano Romagnolo e il Cavo Napoleonico, Galliera è immersa nella campagna racchiusa tra le linee sinuose degli argini. Nel suo nome sono tutta la storia e la bellezza di questa terra: "Gal" in celtico significa confine e "Lyr" acqua. Anticamente Galeria, secondo alcuni il nome potrebbe derivare dagli archi di trionfo eretti sulla via che la collegava a Bologna, a ricordo della vittoria sui Galli. Altri lo fanno risalire alla moglie dell'imperatore romano Antonino Pio - Anna Galeria Faustina - che istituì un beneficio per i fanciulli poveri del contado. Il suo territorio è costituito da tre paesi che insieme formano un unico comune: Galliera Località Antica, San Venanzio e San Vincenzo.

A San Venanzio, di fronte alla chiesa, sorge l'ottocenteco Palazzo Bonora: ai lati del portale i telamoni, le due statue di pietra che sorreggono il balcone. Sede degli uffici comunali dal 1948, il palazzo era originariamente residenza dei Bonora, imprenditori agrari che per decenni gestirono il patrimonio terriero del "Ducato di Galliera". (da turismoinpianura)

Sulla storia del territorio si legga anche Il Ducato di Galliera. Dalle terre della "bassa" all'Europa, di Franco Ardizzoni

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Archivio della Biblioteca comunale "Remo Dotti" di Bentivoglio 

Il riso: patrimonio alimentare e culturale 

Da cinque secoli il paesaggio italiano, pur se in minimaAldo Borgonzoni, Mondine, litografia su carta - Museo Cervi, Gattatico (immagine IBC Multimedia) parte rispetto all’area coltivata, vede la presenza di risaie concentrate nella pianura Padana e in aree bonificate nel corso del XX secolo.

L’Italia, maggior produttore di riso in Europa, offre più di cento varietà, oltre ad essere l’unico paese in cui trovano spazio la coltivazione del Carnaroli, del Vialone e dell’Arborio.

Chi frequenta le cucine in veste di cuoco e la buona tavola come commensale, sa bene che le varietà elencate sono le migliori per preparare il risotto, piatto tipicamente ed esclusivamente italiano.

Porre l’accento sull’originalità del risotto non è concedersi a nazionalismi culinari anacronistici, ma in epoca di globalizzazione dobbiamo cogliere e sottolineare il grido di allarme proveniente dai produttori che vedono minacciata la quota di mercato del cereale, indispensabile per confezionare un così prelibato piatto, ora  indirizzata soprattutto verso varietà economicamente più vantaggiose e diffuse in altri continenti.

Per preparare un buon risotto occorre calma, sapienza nell’individuare gli ingredienti, tempi giusti di cottura: una risposta alla frenesia dei nostri giorni.

Le nostre massaie, cui maggiormente era delegato il compito del cucinare quotidiano, conoscevano bene i tempi necessari per la cottura del riso e così, in alternativa al risotto, preparavano ricette che richiedevano un’attenzione meno costante.

Risparmiavano tempo, ed era soprattutto una necessità imposta quando, oltre alla cura della famiglia, le donne delle campagne erano impiegate nel lavoro extradomestico e, nel caso della coltivazione del riso, in grande numero.  

A piedi per chilometri, in bicicletta come documentano tante immagini, in treno per recarsi in risaie lontane, le donne irruppero attraverso la coltivazione del riso nel mondo del lavoro. Il salario, pur se inferiore a quello degli uomini, consentiva un minimo di autonomia, di un affrancamento dalla famiglia per soddisfare  talune loro esigenze.

Un lavoro duro quello della mondina, ma che favorì l’interscambio culturale e una presa di coscienza della loro condizione.

Aldo Borgonzoni, Mondine, 1951 - Università di Bologna. Archivio storico (immagine IBC Multimedia) Proverbiale, e registrata storicamente  in alcune zone, è la loro combattività per ottenere migliori condizioni di lavoro e maggiori attenzioni verso la famiglia.

Determinate e compatte in molte situazioni anche durante la brutale occupazione nazista.

Solidali nel designare mondine meno giovani cui affidavano i loro bambini durante le ore di lavoro realizzando così una sorta di asilo nido ante litteram.

I “caporali” che sovraintendevano al lavoro  imponevano il silenzio; era  invece  tollerato il canto che oltre a dare il ritmo a tutto il gruppo aumentando la produttività, era occasione per esprimere sentimenti in una gamma di testi, spesso composti utilizzando musiche conosciute, che denunciavano la situazione sociale e le loro passioni amorose.

Attraverso vari cori di mondine e i loro canti, diversi secondo la provenienza geografica, sopravvive una cultura che ci rimanda ai tempi in cui il lavoro della risaia comportava un uso massiccio di mano d’opera, prima che  la chimica rendesse superato il lavoro manuale e i moderni mezzi meccanici non semplificassero i vari procedimenti necessari per sistemare, allagare, prosciugare le vasche e organizzare le varie fasi della coltivazione.

L’assegnare alle  macchine e a pochi lavoratori il processo produttivo, ha comportato la perdita di un grande patrimonio lessicale, quasi esclusivamente espresso ricorrendo ai vernacoli, utilizzato per indicare  gli strumenti di lavoro e le varie fasi di coltivazione del riso.

Resta il compito di salvaguardare, attraverso vari strumenti culturali, il patrimonio legato al processo di coltivazione del riso che costituisce parte dell’identità di grandi porzioni del territorio della pianura Padana.

Tiberio Artioli

(Servizio Manifestazioni e Associazionismo
dell'Unione Reno Galliera)