Bologna. Archivio di Stato
print this pageDomenica 18 ottobre 2015, alle 10.00, nell'ambito della XIII edizione della "Festa internazionale della storia", si è svolta all'Archivio di Stato di Bologna la presentazione del volume Agricoltura e alimentazione in Emilia Romagna - Antologia di antichi testi a cura di Zita Zanardi.
L'incontro è stato organizzato dalla "Deputazione di storia patria per le province della Romagna", presidente Angela Donati (Alma Mater - Università degli studi di Bologna).
Le Deputazioni di storia patria sono istituti a carattere locale, sorti nelle regioni italiane nel XIX secolo, in massima parte dopo l'annessione al Regno d'Italia. Il loro compito principale è quello di promuovere studi storici relativi ai territori degli Stati italiani preunitari e di pubblicare opere storiche e periodici.
La prima "Regia Deputazione sopra gli studi di Storia Patria" fu fondata nel 1833 a Torino dal re Carlo Alberto. Dal 1836 al 1860 pubblicò dieci volumi degli Historiae patriae monumenta dedicati allo studio della storia del Regno di Sardegna.
Con l'unità d'Italia, Vittorio Emanuele II estese l'istituzione alla Lombardia ("Deputazione di storia patria per le antiche provincie della Lombardia"). Contemporaneamente, Luigi Carlo Farini, dittatore di Romagna ed Emilia, ne costituì altre tre ("Deputazione di storia patria per le province di Romagna", "Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi" e "Deputazione di storia patria per le province parmensi"). Nel 1862 vennero istituite quelle per la Toscana e via via le altre per lo più come trasformazione di preesistenti società storiche.
Nel 1883 venne creato l’“Istituto storico italiano”, con il compito di coordinare le attività delle diverse deputazioni esistenti, sostituito nel 1934 dalla "Giunta centrale per gli studi storici", della quale le deputazioni divennero organi periferici. Dopo la seconda guerra mondiale fu restituita autonomia alle diverse deputazioni regionali.
Allegati
Si legga anche Seguendo la via Aemilia di Beatrice Orsini
E si parla anche di ...
Cibo ed economia fra terra e mare
Quella dei Romani è una società fondamentalmente rurale, che vive dei prodotti della terra, senza ignorare quelli del mare, dettati dalla situazione geografica della penisola, prodotti che provvede a diffondere capillarmente; è, in pratica, una economia di mercato, meglio di mercati. Naturalmente bisogna tener conto di alcuni grandi fenomeni che rispondono a regole dettate dalla politica, quali il rifornimento, soprattutto di grano, che da alcune terre provinciali affluiscono a Roma per le distribuzioni pubbliche periodiche, le frumentationes; ma si tratta, di fenomeni che nascono da esigenze sociopolitiche, non di mercato, anche se i grandi imprenditori –soprattutto quelli navali- vi sono coinvolti, affrontando le bufere del mare con la conseguente perdita di tutto il carico, come avvenne a Trimalcione, il “nuovo ricco” ricordato da Petronio nella sua opera.
Ma sono i mercati locali quelli che meglio fanno comprendere la profonda integrazione fra prodotto in vendita e sistema economico; sono mercati di tutti i generi, non solo di cibi, nei quali si vende di tutto: così avviene a Pompei, nel foro, forse non quotidianamente, ma in occasione di un mercato “nundinario”. Conosciamo diverse testimonianze di questi mercati settimanali, dall’Italia ma anche da altre aree, e vale la pena segnalare la particolare frequenza delle testimonianze nelle province africane, in particolare nelle zone di confine fra le aree fertili e quelle desertiche, dove questi mercati periodici si svolgevano non solo nei centri abitati, ma anche all’interno di proprietà private, e dove a volte era registrata l’immunitas fiscale (richiesta o concessa) sulle vendite, autorizzata dal Senato (in età repubblicana) o dall’imperatore. Va segnalato che nelle province del nord Africa è molto diffuso, nel sistema onomastico, l’uso di un cognomen particolarmente significativo: Nundinarius.
I mercati nei centri rurali offrivano diversi vantaggi, primo fra tutti quello di vendere il surplus agricolo senza sostenere spese di trasporto, qualcosa di simile al nostro mercato a chilometro zero. D’altra parte proprio per il trasporto dei prodotti vegetali dal podere al vicus (borgata) dove si tiene il mercato si utilizzavano semplicemente carri trainati da buoi: il bue è adatto ad altri tipi di lavoro e non regge alla fatica quando deve compiere lunghi tragitti, per i quali vengono utilizzati altri animali, come muli, cavalli, cammelli. Varrone ci informa che i buoi venivano preparati proprio per portare i prodotti dal campo al mercato: per abituarli al rumore e alla confusione del traffico lungo le strade che portano all’abitato venivano condotti per qualche tempo lungo quelle vie senza carico.
Ma come si conoscevano questi mercati periodici? Le date erano, naturalmente, stabilite dall’autorità locale, ma ne troviamo gli elenchi, con le date, meglio con l’indicazione dei giorni della settimana in cui si svolgevano, anche graffiti sugli intonaci delle strade, o registrati su supporti diversi, dal marmo al semplice coccio ceramico. Sono calendari che danno conto dell’importanza di questi mercati periodici cittadini nei quali non si trattavano solo i prodotti dei campi, ma anche affari economici che richiedevano l’intervento di banchieri; ogni calendario dei mercati ha caratteristiche diverse, ma in genere non si elencano i prodotti, quasi fossero mercati di carattere generale, come avviene in quello rinvenuto a Santarcangelo di Romagna.
Notevole è anche l’attenzione posta al tipo di coltivazione, in particolare da parte di quei proprietari che riponevano gran parte delle loro fortune economiche sulla proprietà agricola e sui suoi prodotti: sono numerose le avvertenze in questo ambito da parte degli scrittori di cose naturalistiche, dai Saserna (probabilmente originari del piacentino), a Varrone, Columella, Plinio: diversificare la propria produzione rispetto a quella del vicino, fare attenzione a certe “incompatibilità” fra prodotti, ai benefici che accrescono il valore di una proprietà (ad es. la vicinanza di una strada o di un corso d’acqua), alle caratteristiche del terreno: in quello sabbioso del ravennate erano particolarmente coltivati gli asparagi, e non è un caso che le tavole in bronzo da Veleia (un vero e proprio catasto agrario, anche se collegato alla concessione di prestiti da parte dell’imperatore) ricordino spesso un fiume o una strada come elemento di confine di una proprietà. Ma queste informazioni si incontrano anche in scrittori non specialisti, perché riguardano la loro stessa vita e la loro fortuna: chi non si stupisce all’idea che Cicerone (ad fam., 16,18,2) si preoccupasse della coltivazione dei fiori nelle sue proprietà e del guadagno che ne avrebbe tratto?
In una regione in parte montuosa come l’Emilia Romagna era sviluppato l’allevamento del bestiame e la conseguente lavorazione della carne: dall’alta Val Marecchia fino al piacentino erano frequenti i pascoli. Conosciamo così a Bologna la stele di un macellaio, raffigurato mentre compie il suo lavoro di tagliare la carne che dovrà mettere in vendita; due stele “gemelle” riferite l’una alla pastorizia e l’altra, secondo una suggestiva ipotesi, alla trasformazione della carne, tritata per farla divenire una mortadella ante litteram ce lo attestano.
Nel mondo romano è ben nota una realtà abitativa ed economica che unisce la terra al mare, le c.d. villae maritimae, che non sono solo luoghi di ozio riservati a pochi privilegiati, ma anche luoghi di produzione economica. Il mare, secondo la giurisprudenza romana, è res communis, proprietà di tutti, e i suoi frutti, i pesci, sono res nullius, proprietà di nessuno fino a che il pescatore non se ne appropria, come afferma il giurista Celso nel Digesto (L, 39). Accanto al pescatore solitario, va ricordato che molte delle coste alte dell’Italia sono ricche di siti con peschiere create apposta per l’allevamento dei pesci, comprese le ostriche. Un vero e proprio affare, tanto è vero che, a stare alle fonti (Columella, Plinio), imprenditori come C. Sergius Orata o Licinius Murena [con cognomi significativi] vi si dedicarono non gulae causa, sed avaritia (Plinio, Storia Naturale, 9,168). Il pesce, si sa, va venduto fresco, forse direttamente dal pescatore, o va conservato col sale, o ridotto a salse, come il garum per la cui produzione si creano vere e proprie industrie di trasformazione e di esportazione del prodotto.
La costa adriatica dell’Emilia Romagna si prestava piuttosto ad insediamenti militari (la base della flotta di Ravenna ne è la testimonianza più evidente), ma ciò non toglie che fossero di uso comune piatti e stoviglie appositamente predisposti per il pesce.
Angela Donati
(Alma Mater Università degli studi di Bologna)
Si veda anche