Il grido di Nembrod

immagine delle copertine dei libri 'Il grido di Nembrod: Rafel maì amèc zabì almi, nota del corrispondente Rodolfo Benini' e 'Il grido di Nembrod: La grande bellezza logica del verso dantesco'

 

Il grido di Nembrod: Rafel maì amèc zabì almi, nota del corrispondente Rodolfo Benini

Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei, 1912, 11 p., 25 cm. Estratto da: Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. 21, fasc. 5, seduta del 19 maggio 1912.       BENIN.2965/29      BENIN.533/9

Il grido di Nembrod: La grande bellezza logica del verso dantesco: Rafel mai amech zabi et almi

Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei, 1913, 23 p., 25 cm. Sul verso del frontespizio: Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche. Estratto dai Rendiconti, vol. 22, fasc. 4, seduta del 20 aprile 1913.      BENIN.533/10 Misc.36.10

Come l’invocazione di Pluto (Pape Satan, Pape Satan aleppe di Inf. VII,1), anche questo grido infernale, emesso dal gigante Nembrod e posto nel canto trentunesimo dell’Inferno (v. 67), ha suscitato molti tentativi di interpretazione e molte polemiche tra i dantisti. Benini conta almeno nove tentativi di traduzione, che cercano di ricondurre all’arabo, a una combinazione di lingua ebraica e caldea o solo all’ebraico i vocaboli ivi contenuti. Come suo solito, lo statistico cremonese accetta la sfida e dà una propria interpretazione. Il principio ispiratore per la soluzione non è dissimile da quello impiegato per l’enigma di Pluto: egli pensa, cioè, a un livello linguistico degradato, che ben si sposa all’ambiente in cui il grido viene pronunciato, l’inferno, e alla figura che pronuncia la frase, il gigante Nembrod (o Nembrot), il quale aveva ispirato la costruzione della biblica torre di Babele. La lingua utilizzata da Nembrod sarebbe comunque l’ebraico, ma un ebraico barbarico, pregrammaticale e corrotto; tanto diverso dall’ebraico biblico o da quello corrente che nessuno, neanche i suoi simili e tantomeno Virgilio, riescono a comprenderle (Lasciamlo stare e non parliamo a vòto / Che così è a lui ciascun linguaggio, / Come il suo ad altrui, che a nullo è noto). Del lessico ebraico la lingua del gigante conserva solo le radici, mantenendo soltanto il minimo indispensabile di suffissi e desinenze per distinguere il mio dal tuo, il passato dal presente. (p. 22-23). La frase, che getterebbe nuova luce sulla coltura filologica di chi lo scrisse, sarebbe un’invocazione rivolta a Lucifero in persona per farlo uscire a combattere col manipolo di giganti a guardia del pozzo di Cocito. La richiesta del gigante, se la traduzione fosse corretta, dimostrerebbe subito la sua paradossalità: Lucifero è bloccato al centro della terra e immerso nel lago ghiacciato di Cocito, mentre i giganti sono saldamente incatenati al bordo del burrone. Allo stesso tempo l’invocazione si adatterebbe benissimo alla stupida brutalità dei giganti, che non riescono neanche a percepire correttamente la propria situazione. Benini propone anche un recupero filologico di una lezione presente solo in alcuni testimoni manoscritti, costituito dalla particella “et” (=con) prima di “almi”: oltre a ristabilire il numero corretto di sillabe dell’endecasillabo, la particella renderebbe ancora più coerente il senso della frase.
Questa la traduzione proposta dal Benini: Gigante–dio di cento miei cubiti, esci a guerra col mio manipolo.
Dante, pur non conoscendo l’ebraico, aveva senz’altro a disposizione qualche liber radicum diffuso tra i dotti ebrei a lui contemporanei, oppure poteva agevolmente richiedere l’aiuto di monaci, mercanti greci, rabbini o esegeti delle Sacre Scritture esperti nella lingua dei Patriarchi.