L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Palumbo (1957)
«Era uno dei primi giorni di febbraio. [...] Da giorni non riuscivo ad andare avanti. Ogni sera tentavo di fare un passo avanti con Dante, ma non mi riusciva. Seduto al tavolo tondo che fungeva anche da tavola da pranzo per la mia famiglia, tentavo tutte le sere di leggere qualche canto della Divina Commedia, ancora dell'Inferno; ma tutte le volte, dopo una mezz'ora, mi davo per vinto. [...] Il commento era antico, mi rimandava sempre ad un "Anonimo" o ad un "Boccaccio", e soprattutto citava molto spesso "La vita nova", l'amore di Dante, la sua poesia amorosa. Così s'era andato maturando in me il convincimento che, prima della Commedia, dovessi leggere e studiare almeno questa vita.
Quella sera uscii fra la sorpresa dei miei. [...]
Camminai col desiderio d'arrivare a scoprire e conoscere questo romanzo di Dante, e con lo stato d'animo di dare alla vicenda d'amore una trama tutta mia particolare. [...] Piazza Castello. Da settimane rimuginavo quel pensiero. Avevo saputo da Gaetano, il meccanico, il primo amico di mio fratello a Milano, che lì c'era la biblioteca, e che era aperta anche di sera. Ci avevo pensato spesso, ma mai per decidermi ad andarvi. Credevo che fosse un palazzo vietato ai ragazzi, adatto solamente per i grandi, per gli istruiti, per i preparati.
Quella sera però, man mano che m'avvicinavo, sentivo crescermi dentro una decisione nuova, ferma.
Ma dove fosse, non sapevo con precisione. Gaetano m'aveva detto solamente: «Al Castello Sforzesco ci puoi trovare tutti i libri che vuoi». Arrivai all'ingresso e vidi tutto chiuso, buio. [...]
Stavo tentando di leggere alcuni cartelli in ferro appesi alle porte del Castello, quando mi sentii dietro dei passi. Era un signore, piuttosto piccolo, anziano. Lo abbordai subito.
«Scusi, sa dov'è la biblioteca del Castello?» Mi guardò piuttosto sorpreso. Fece: «Qui». Ed aspettò che dicessi qualche altra cosa. Ma io lo guardavo e gli facevo comprendere che non avevo capito.
«Apre alle nove. Fra qualche minuto». [...]
Volevo arrivare a biblioteca aperta. Domandare m'aveva già dato fastidio, anche farmi vedere in attesa m'avrebbe dato fastidio. Poi quell'essere guardato con curiosità. Va bene che avevo un cappotto, striminzito, stretto di spalle, corto sulle gambe, che non avevo niente in testa, che insomma non ero un ragazzo molto indicato per una biblioteca, pure la curiosità di quel signore m'aveva dato un po' fastidio.
Tornai indietro che erano le nove e cinque. Sulla porta, nessuno. [...] Solamente nel fondo a destra tre grandi finestroni da cui usciva una luce schermata da tende. Pensai che dovesse essere lì. Una porticina su cui era scritto "Biblioteca", e l'orario per il giorno e per la sera. Aprii piano piano. Mi consideravo un intruso. Temevo che fra qualche sarei stato messo alla porta. Non ricordavo neppure più perché c'ero venuto, che libro avrei desiderato vedere, guardare, leggere, conoscere. Il Dante della mia "Divina Commedia", da lontano, m'invitava a tornare nella mia cucina [...].
«Avanti. Chi è?» sentii una voce. voce. Mi affacciai. Richiusi. Un tepore, ma ancora estraneo, mi arrivò in faccia. Un uomo magro, con grosse lenti, era dietro uno scrittoio, alto. Un altro uomo era in piedi, un poco più in là, quasi vicino ad una porta grande, sotto una lampada. M'avvicinai all'uomo seduto, che m'aspettava. L'altro continuava a sfogliare un libro aperto fin quasi sotto gli occhi.
«Desidera?» mi fece l'uomo seduto. Mi si dava del lei, là dentro. Che strano! Pensavo d'essere trattato come un ragazzo. «Forse non ha visto ancora come sono vestito», conclusi.
M'avvicinai lo guardai e riuscii a dire: «Vorrei leggere la "Vita Nova" di Dante».
L'uomo seduto mi guardò incuriosito. Ma io sentii su di me anche gli occhi dell'uomo in piedi. Lo guardai anch'io un momento. In lui c'era la sorpresa. Ritornò subito con gli occhi sul libro.
«Ma quale "Vita Nova"?» mi domandò il bibliotecario.
«Ma non so, quella di Dante», dissi io, e mi sbigottii, credendo che di "vita nova" ce ne fosse più d'una.
«Sì, siamo d'accordo», fece l'uomo, buono, gentile, «ma commentata da chi?»
«Ma non so», dissi di nuovo io. Mi pentivo d'essere lì, d'essere venuto; avrei voluto girare sui tacchi e di corsa uscire, scomparire. Che ne sapevo io di commenti e di commentatori?
Per fortuna sentii di nuovo su di me gli occhi del signore in piedi. Mi pareva che mi sorridesse. Disse: «Gli dia quella del... » (e mi sfuggì il nome).
L'uomo si alzò, uscì. Io guardai un momento il signore e non fui capace di dirgli neppure grazie. Lui riportò di nuovo gli occhi sul libro, aperto, quasi fin sotto il mento. Dopo qualche secondo mi fece: «Vada dentro. Aspetti lì». Questa volta riuscii a dirglielo il grazie.
Entrai. Un salone grandissimo, a malapena da intravvedersi il fondo. Pieno di scaffali tutt'intorno fino al soffitto. E silenzio, ma accogliente, religioso, di quello che avevo sentito quando qualche volta al mattino presto (ancora prima dell'alba) ero entrato nella chiesa dei cappuccini al mio paese. [...]
Lunghi tavoli rotti solamente da un corridoio al centro, e sedie allineate ai due lati di ogni tavolo. E luci riverberate proprio sui tavoli, in modo da lasciare la testa e il busto di chi leggeva nell'ombra. Ora ero contento d'essere lì dentro. Mi sentivo tranquillo, in pace con me stesso e con gli uomini. Forse perché lì non c'era nessuno, forse perché pareva un angolo di terra dimenticato dagli uomini, o forse perché finalmente dopo mesi scoprivo nella mia nuova città un angolo di pace, in cui non sentissi intorno a me il senso del vago, del provvisorio. Era finalmente il luogo che avevo cercato, che avevo desiderato, quello che m'avrebbe disancorato dal ricordo della città che avevo lasciato [...].
C'era al secondo tavolo il signore piccolo. Non alzò neppure la testa. Ma forse perché camminai in punta di piedi. L'oltrepassai. Nessun banco mi pareva che facesse per me. Camminai nel corridoio fino in fondo. Volevo non essere visto, dimenticato. Temevo d'essere ancora un intruso, un importuno. Credevo che sarebbero arrivati altri lettori, ormai di casa, e che m'avrebbero rimproverato d'essere venuto ad introdurmi nel loro ambiente, nel loro mondo.
Mi sedetti all'ultimo banco ed aspettai. Da lì in fondo la sala pareva più piccola, ma ancora più accogliente. Intorno a me le luci erano tutte spente. Vidi affacciarsi il bibliotecario con un libro in mano. Guardò in giro. Mi cercava. Cominciò a venire avanti. Io non facevo niente per farmi notare. Avevo paura che mi rimproverasse perché ero andato a finire là in fondo. Mi vide, mi fu vicino, alzò la mano all'interruttore sulla mìa testa e l'accese.
«Non la vedevo più», disse, e mi mise il libro davanti.
«Grazie e scusi», feci e lo guardai.
«Prego. Chiudiamo alle undici e mezzo. Ma la restituzione va fatta qualche minuto prima». Disse le ultime parole mentre già tornava indietro.
Aprii il libro a caso. Prosa e versi. Poi provai a leggere. Ebbi paura. No, non era libro per me. Non capivo niente. Avrei dovuto leggere quel libro almeno venti volte prima di sapermi raccapezzare. [...]
Mi sentii sfiduciato, avvilito. Se non fosse stato per il disturbo che avevo arrecato al bibliotecario, se non fosse stato perché lui e l'altro signore m'avevano visto, ora me ne sarei andato, di soppiatto, come un ladro. Non era luogo per me, benché sentissi il silenzio, la penombra aderire al mio spirito, al mio bisogno di pace e di tranquillità.
«Ora dico che non ci capisco niente, ringrazio e vado via», mi dissi. «E chiedo scusa per il disturbo».
Ma non mi decidevo ad alzarmi. Guardavo in giro i libri allineati, la spalla del signore, molte file avanti a me, sentivo il silenzio e non mi decidevo.
«Ci sto qualche minuto. Almeno faccio capire che l'ho guardato il libro». Ma questo sotterfugio mi dava già fastidio.
Alzai gli occhi. A due passi da me vidi venirmi incontro il signore alto. Forse mi osservava già da prima. Continuò a venire avanti ed a guardarmi. Aveva un sorriso delicato, affettuoso, che disarmava. Mi fu vicino e rimase in piedi.
«Te la cavi?» mi domandò, senz'ombra di presunzione. Lo guardai. Aveva un occhio vivo, dietro le lenti cerchiate di nero. Il mento affusolato, le labbra sottili. Si vedevano solamente quando parlava e sorrideva. Le mani da lungo i fianchi le portava dietro la schiena e poi le riportava lungo i fianchi.
«Ma, veramente, non molto», dissi. Ma avrei voluto scoppiare a piangere. [...].
«Ho capito», fece. Si guardò in giro e poi venne a sedersi alla sedia vicino alla mia. «Vediamo. Forse ti posso aiutare io», fece.
Lo guardavo e mi pareva di non capire.
«Cosa fai? Studi?» mi domandò, e s'avvicinò il libro. Ascoltò senza alzare la testa.
«Faccio il fattorino, di giorno», dissi. «Ma voglio studiare. Ho incominciato da due mesi la "Divina Commedia", ma nelle note ci sono sempre i richiami alla "Vita nova". Per questo sono venuto».
Continuava a sfogliare il libro. Pensai che volesse che dicessi qualche altra cosa della mia vita.
«A metà del secondo ginnasio dovetti lasciare la scuola e andare a lavorare. Da allora ho cercato sempre di leggere, quando ho potuto. Mi piace studiare. È una cosa più forte di me».
Alzò la testa e mi guardò. Mi sorrideva, ancora affettuoso, comprensivo. «Quanti anni hai?» mi domandò.
«Sedici».
«E puoi venire la sera?»
«Sì», mi uscì come un fiotto, improvviso.
«Allora forse ti potrò aiutare io. Sono il direttore qui dentro», fece, ma senza voler dare molta importanza alla cosa. «Vediamo. Cominciamo dalla prima pagina».
Avvicinò di più la sedia alla mia. Allungò fino a me il libro e lesse [...].
Sentivo il suo petto quasi sulla mia spalla, il suo alito sul mio collo. Ma non mi dava fastidio. Mi pareva di aver trovato un altro padre, quello che da anni cercavo. Lo ascoltai fino alle undici e un quarto.
Da quella sera cominciò la mia università.»
(Nino Palumbo, La mia università, nel volume con lo stesso titolo, p. 145-155: 147-155. Il racconto, pubblicato per la prima volta nel primo numero del giornale di Rapallo «Il Tigullio» (7 aprile 1957) e poi uscito anche altrove, è stato inserito dall'autore nel volume Oggi è sabato e domani è domenica (Roma, Canesi, 1964) e poi in quello del 1981 a cui dà il titolo. La scena si può collocare intorno al 1937 e il bibliotecario descritto richiama Giovanni Bellini, allora vicedirettore e probabilmente responsabile del servizio serale).
Palumbo (1960)
«Figlio di artigiano e maggiore di molti fratelli, cominciai a lavorare all'età di undici anni, interrompendo al secondo anno il ginnasio. A sedici anni passai a Milano con tutta la famiglia, dove continuai a lavorare e cominciai a frequentare le biblioteche e le scuole serali. Nel 1939 conseguii il titolo di ragioniere e mi iscrissi alla facoltà di Scienze Economiche e Finanziarie, riuscendo a trovare finalmente un impiego presso un ente parastatale. Nel 1941 fui chiamato alle armi come «volontario universitario». Nel 1946 mi laureai alla Bocconi e, per potermi iscrivere alla facoltà di Giurisprudenza, mi preparai per la maturità classica, che conseguii nel 1947. Dopo due anni di studi giuridici passai alla facoltà di Lettere e Filosofia.
Dal 1951 ha inizio, con difficoltà, la mia attività letteraria e il «recupero» di letture e di scoperte di autori italiani e stranieri, senza trascurare tuttavia gli studi filologici e, in particolare, quelli di storia della lingua italiana.»
(Nino Palumbo, testimonianza per Ritratti su misura, p. 314-315).
Pancrazi (1947-1952)
«Come può capire, ho accolto con molta festa la sua idea di ripubblicare nella collezione in ventiquattresimo l'Aristodemo di Carlo Dottori. Metteremo il testo in composizione appena Lei ce l'avrà mandato o indicato, e provvederemo noi con ogni cura alla revisione delle bozze. Intanto faccio cercare alla Nazionale di Firenze se c'è l'edizione del 1657, o quella del 1725: ma, ripeto, aspettiamo istruzioni.»
(Pietro Pancrazi, lettera a Benedetto Croce, Camucia (Cortona) 17 giugno 1947, in Caro senatore, p. 180. Croce possedeva la prima edizione).
«Caro Senatore,
Le mando un saluto dalla biblioteca di Giosuè Carducci. Vedo tra i libri l'Intermezzo di Heine, tradotto dal Del Re, donato da Lei il 15 agosto 1897.»
(Pancrazi, cartolina a Croce, Bologna 15 ottobre 1952, ivi, p. 203).
Pancrazi-Croce (1925)
«Eccellenza,
Mi permetto d'importunarla per un'informazione napoletana che soltanto da Lei potrei avere.
Venendo a Napoli, mi sarebbe consentito consultare le carte leopardiane? e all'occorrenza prendere appunti o copiare qualche brano?
L'origine di questa curiosità, come Ella immagina, è nelle voci contraddittorie che da qualche tempo si sentono sull'importanza degli scritti o appunti ancora inediti. Come giornalista e informatore letterario, ho pensato che sarebbe opportuno render conto chiaramente dello stato delle questioni, e dirlo al pubblico.
Ma esistono veti? A chi bisogna rivolgersi per superarli, se sono superabili?»
(Pietro Pancrazi, lettera a Benedetto Croce, Camucia (Cortona) 6 febbraio 1925, in Caro senatore, p. 31).
«Gentilissimo Pancrazi,
Nessuna difficoltà a vedere quei manoscritti e a prenderne appunti. Io tra giorni vado a Milano e a Torino, e non tornerò qui prima del 23 o 24. Ma, in ogni caso, Ella può far capo alla bibliotecaria dott. Maria Ortiz, che è stata informata da me, o (come si dice in Puglia) sta parlata.»
(Croce, lettera a Pancrazi, Napoli 9 marzo 1925, ivi, p. 32).
Pannella (2016)
«Giacinto è un nome che mi fu dato perché i miei volevano rendere omaggio a zio Giacinto, monsignore e zio di mio padre. [...] Persona colta, zio Giacinto. Stampava e diffondeva addirittura una rivista, della quale si occupava personalmente. Era distribuita a Teramo, forse pure in qualche paesino della provincia. Ma molti anni dopo scopro, quasi per caso, in una biblioteca di Parigi, e successivamente in una di Vienna, che sono conservate copie di quella vecchia rivista di mio zio. Sarà stata la nostalgia, sarà stato un pizzico di orgoglio familiare, ma confesso che da quelle biblioteche sono uscito commosso.
Quindi, dovevo per forza chiamarmi Giacinto, non poteva che andare così.»
(Marco Pannella, Una libertà felice: la mia vita. Lo zio omonimo Giacinto Pannella (Teramo 20 febbraio 1847-Teramo 15 dicembre 1927) diresse per molti anni «La rivista abruzzese di scienze e lettere»).
Panzini (1906)
«Nella Biblioteca di Brera in Milano è il volumetto dei Versi, l'edizione del 1892, tutt'altro che «illuminata di eleganze tipografiche», anzi ben umile stampa. Ora questa copia mi offrì materia di molto diletto, perchè un ignoto lettore, ben oculato e dotto di grammatica, lo ha segnato qua e là di postille, di ammirativi, di interrogativi, come dire: «ma si scrive così?». In verità l'ignoto pedante (grande è il numero dei malvagi in un paese sia pur così liberale come l'Italia nostra) si era sentito offeso a tutte le vivezze, gli scorci, le arditezze del parlar popolare, e le avea giudicate imperfezioni gravissime, se pur non errori.»
(Alfredo Panzini, Severino Ferrari poeta, 1906, in Per amore di Biancofiore, p. 177-194: 191).
Panzini (1924)
«Io non so bene dove mi fossi, se nella Biblioteca Classense di Ravenna, o nella Malatestiana di Cesena. Le finestrine sono in alto, lassù, e di giorno c'è una gran quiete conventuale nella Biblioteca di Cesena! A Ravenna è la stessa cosa, perchè tranne Sante Muratori che vigila con la lampada viva della sua anima, non si incontrava mai nessuno.
Ma quella linea bruna della rocca malatestiana, che si disegnava nell'azzurro lunare, sopra la collina, mi fece certo che io non ero nella città di San Vitale e di San Massimiano, ma nella città diletta al cuore di Cesare Borgia.
Senonchè una figura bianca, che apparve, io la credetti quella del vice-bibliotecario della Classense di Ravenna: lui, per delicatezza verso i libri, porta sempre un camice bianco, come un dottore dell'ospedale. Ma il detto vice-bibliotecario della Classense ha un volto sbarbato con un sorriso prelatizio, di magnifico papa del Cinquecento: la figura bianca che invece io vedevo, era assai più esile; era giovane; sbarbata pure in volto, ma sigillato di signorile amarezza.
Era Renato Serra!
Io era, dunque, nella Malatestiana di Cesena!
Renato Serra lentamente movendo fra le due file degli alti neri leggii, ove posano i codici alluminati, si avvicinava a me.
– Come – gli domandai – sei ancora bibliotecario qui? Tanti ragazzi hanno fatto così bella carriera, e tu sei ancora qui?
Ma ebbi appena detto questo, che mi ricordai che Renato era morto, e sono ormai nove anni [...].
[...]
La colpa di tutto è Sante Muratori, che dice che è la notte che la sua biblioteca classense rivive: si destano strani rumori: sembra che siano i bianchi frati antichi a risorgere, e sono i barbagianni!
I barbagianni, bianchi e solenni, escono dalle torri di Ravenna e vengono a vedere come vanno le cose; e col volo senza rumore volando per quelle sale fantastiche della biblioteca, inseguono e mangiano i topi vilissimi che si permettono di profanare nel loro sonno i libri e i poeti.»
(Alfredo Panzini, Poeti di Romagna, 1924, in Per amore di Biancofiore, p. 235-240).
Panzini (1938)
«La biblioteca civica della vetusta città di Rimini era come un diploma di nobiltà. Questa città non si dava pensiero, allora, di apparire vetusta, e così la biblioteca.
Governatore della biblioteca era il dottor Carlo Tonini, e dicendo il dottore, si intendeva lui. [...]
Seduto e quasi sepolto giù fra vecchi libri e codici, in fondo, nell’ultima sala col ballatoio settecentesco, il dottore continuava la paterna storia della sua cara città [...].
Apriva lo scrigno della sua dottrina a chiunque lo avesse richiesto, così come alle due del pomeriggio, quando chiudeva con tanta precauzione di grosse chiavi la biblioteca, apriva il borsellino a cerniera per fare la carità ai poveri che in lunga fila aspettavano il «signor dottore».
Impiegato, distributore, e bidello insieme della biblioteca, era un vecchietto dalla schiena curva e una barba prolissa come quella di San Girolamo. [...] Aveva anche, nei mesi freddi, l’ufficio di tenere acceso un braciere di carbonella, di nocchi d’ulivo, nella sala di lettura. [...]
Il parroco forese, di San Lorenzino in Strade, capitava ogni tanto, tondo e infiammato, con un cartafaccio da sottoporre al dottore per i casi dubbii di lingua e anche di teologia. Da anni, stava componendo un’opera sul Purgatorio.
Capitava anche il conte Battaglini. Veramente erano due questi patrizii; ma così somiglianti che si confondevano. Signorili, scarni, barba grigia, passavano oltre senza guardare. [...]
Confabulavano a lungo di cimelii, di quadri, di codici, di cui era ricco l’avito palazzo: di solennità religiose che essi facevano celebrare a tutto loro dispendio.
Veniva anche un certo Renzetti, tipografo, che ostentava la virtù repubblicana con un invariabile vestito di rigatino l’estate, e di mezza lana l’inverno. Era stato con Garibaldi fra quei monti. Lui voleva dire il Trentino.
Veniva per far sentire al dottore le sue poesie. [...]
Capitavano anche gli studenti che venivano da Bologna. La più parte della facoltà di medicina, terribili adoratori del santo vero e perciò molto scalmanati. Discutevano forte con un linguaggio da Convenzione francese, e facevano venir fuori dal fondo della biblioteca il dottor Tonini. – Andate là, ragazzi, non fate chiasso, parlate piano. C’è qualcuno laggiù che studia.
E veramente fra gli strombi, nelle sale recondite, sedeva su gli sgabelli antichi qualche dotto straniero a consultar codici e stampe rare. Questi stranieri venivano per la più parte da quella che era chiamata allora la dotta Germania; parlavano riguardosi, studiavano dall’apertura alla chiusura della biblioteca: senonchè questi biondi discendenti di Arminio avevano l’abitudine di farsi ogni giorno meno frequenti. Avevano scoperto, nelle fumose trattorie sotto la peschiera, bottiglie di Sangiovese, sogliole e calamaretti fritti.
Fra le teste più calde che entravano in biblioteca, era un Alfredo Mazzotti. La sua povertà era estrema. [...] Dentro quella fronte, battagliavano tutti i filosofi, i sociologi, gli scienziati, russi, francesi tedeschi, che avevano scoperto il santo vero, e lui, Mazzotti, ne reclamava le opere. [...]
Solenne veniva ogni giorno il dottore e medico Enrico Bilancioni.
– Dov’è Tonini?
– Laggiù in fondo.
Entrando in biblioteca (veramente lui diceva libreria), si toglieva il cappellaccio nero, e allora veramente la fronte dava al suo volto l’aspetto di antico Giove. [...]
Il dottor Bilancioni veniva in libreria per leggere a Tonini le sue epigrafi latine. [...]
Fu un grande avvenimento e trepidazione in tutta Italia quando si seppe che Re Umberto avrebbe visitato le Romagne. Ciò avvenne nell’agosto del 1888. Sua Maestà visitò Forlì, visitò Rimini, dove allora era ritornato Amilcare Cipriani.
Trattandosi di una città come Rimini, che siede tra l’arco di Augusto e il ponte di Tiberio, e in mezzo è il suggesto di Cesare, ci voleva bene un dichiaratore. Questi non poteva essere se non il dottor Tonini. Che pena, povero dottore! Che batticuore!
Non già per parlare con il Re; a tanti re, papi, imperatori, egli aveva parlato nelle sue storie, ma per uscire dai suoi vecchi cenci, metter su la palandrana nera, e al collo una cravatta con un fiocco fatto bene.
Ora, tutto è rinnovato nella già vetusta città di Rimini. Vie, piazze, arco, ponti, e anche la biblioteca chi la riconoscerebbe più?
Rimangono soltanto queste memorie.».
(Alfredo Panzini, Figurine di biblioteca, p. 3).
Paolucci (1995)
«Il suo rapporto di studioso con le biblioteche?
Quando penso ad una biblioteca penso a quella che è la mia biblioteca, la Biblioteca del Kunsthistorisches Institut di Firenze. Quella è per me la Biblioteca, perché uno entra e sa che al numero tale c'è la sezione "Firenze", e poi "Roma", "Venezia", "Fiamminghi", "Iconografia", "Donatello" e prende i libri da sé, li prende in mano, ne sente l'odore, li sfoglia.»
(Roberto Maini, Un tecnico nella "stanza dei bottoni": qualche domanda al ministro per i beni culturali e ambientali Antonio Paolucci, «Biblioteche oggi», 13 (1995), n. 6, p. 6-7: 7).
Papini (1909-1911)
«Carissimo, non t'ho risposto fino a oggi perché ho dovuto lavorare dalla mattina alla sera per una conferenza che ho fatto qui alla Biblioteca Filosofica sulla parte che la Toscana ha avuto nel pensiero italiano.»
(Giovanni Papini, lettera a Giovanni Boine, Firenze 14 dicembre 1909, in: Lettere inedite di Papini a Boine..., n. 14, p. 6).
«Quel libro che mi chiedevi non c'è ma lo farò comprare alla B. F. [Biblioteca filosofica] e te lo manderò.»
(Papini, lettera a Boine, Firenze 20 gennaio 1910, ivi, p. 7).
«Tu sai della rivista e delle incertezze e delle decisioni. Io ci sto. Ci metto il corso che devo fare alla Biblioteca Filosofica e se tu per i primi mesi darai le recensioni promesse (ma davvero e ben fatte) la cosa va. [...] Qui a Firenze ho trovato 4 volumi di opere mistiche di Diego de Estella (Meditaciones de l'amor de Dios ecc. Alcalà de Henares, fine del 500). Vogliono 5 lire al volume. Casati mi disse di comprarli per te. T'interessano? So che piacevano a S. François de Sales. Se le vuoi le mando a te, altrimenti le prendo per la Biblioteca [filosofica].»
(Papini, lettera a Boine, Firenze 23 settembre 1910, ivi, p. 9).
«La preparazione del corso alla B. F. mi porta via molto tempo perchè quando si tratta di stringere i conti le ricerche e le letture non bastano mai.»
(Papini, lettera a Boine, Firenze 15 gennaio 1911, in: Lettere inedite di Papini a Boine..., n. 16, p. 6).
Papini (1913a)
«Un milione di libri
Dopo qualche anno di letture furiose e disordinate mi accorsi che i pochi libri ch’erano in casa e quegli altri pochi che potevo avere o ricorrendo alle scarse librerie di parenti e conoscenti o comprandone qualcuno usato coi centesimi risparmiati sul companatico o coi soldi rubati alla mamma, non bastavano. Seppi da un ragazzo un po’ più grande di me che c’erano in città grandissime e ricchissime librerie aperte a tutti, dove in date ore si poteva andare, chiedere qualunque libro si volesse, e, quel che più conta, senza spender nulla. Decisi di andarci subito. C’era però una difficoltà: per entrare in que’ paradisi bisognava aver per lo meno sedici anni. Io ne avevo dodici o tredici ma per l’età mia ero anche troppo alto. Una mattina di luglio mi provai. Salii uno scalone, che a me parve largo e solenne, tremando. Dopo due o tre minuti di incertezza e di batticuore infilai nella saletta delle richieste, scrissi alla peggio la mia scheda e la presentai con l’aria impacciata e sospettosa di chi sa d’essere in fallo. L’impiegato – lo ricordo ancora: sia maledetto! era un omicciuolo con tanto di pancetta e due occhietti cilestri di pesce morto e una piegaccia maligna a’ due lati della bocca – mi squadrò con aria di compatimento e colla sua esosa voce strascicata mi chiese: Scusi, quanti anni ha lei?
Io feci il viso rosso più per la rabbia che per la vergogna e risposi, facendomi più vecchio di tre anni:
– Quindici.
– Non bastano. Mi dispiace. Legga il regolamento. Torni fra un anno.
Uscii di là umiliato, indispettito, abbattuto e tutto gonfio di odio fanciullesco contro quell’orribile uomo che impediva a me, povero e affamato di sapere, il libero uso di un milione di libri e così mi rubava vigliaccamente, in nome d’un numero scritto, un anno intero di luce e di gioia. Avevo intravisto, entrando laggiù, una sala lunga e vasta, con venerabili seggioloni ad alta spalliera coperti di panno verde, e tutto intorno libri libri e libri, libri vecchi grossi e massicci, colle costole di pergamena e di pelle, scritte e fregiate d’oro: una meraviglia! E ognuno di que’ libri chiudeva quel che cercavo, offriva quel cibo ch’era fatto per me: storie d’imperatori e poemi di battaglia, vite di uomini semidivini, libri santi di popoli morti, e le scienze di tutte le cose e i versi di tutti i poeti e i sistemi di tutti i filosofi. E quelle migliaia di promesse in lettere d’oro eran per me: a un mio comando i volumi che aspettavano sotto la polvere, dietro la rete fitta degli scaffali, sarebbero scesi verso di me, e l’avrei squadernati e sfogliati e divorati a mio piacere!
Non aspettai neppur un anno per tentar la seconda prova. Anche questa riuscì male. Dovetti arrivare ad una altra estate per vincere. Avevo poco più di tredici anni – forse tredici anni e mezzo.
Insieme a un altro ragazzo più grande di me, che da un pezzo entrava là senz’inciampo, finalmente passai. Per non dar nell’occhio e non passar da bambino in cerca di passatempo chiesi un libro serio, un libro di scienza – quello del Canestrini su Darwin.
C’era questa volta al di là della parete di legno e di vetro un altro impiegato – un tipo alto e secco come un uccellaccio pelato, sgarbato nelle mosse e che non stava mai fermo. Prese la mia richiesta senza guardarmi, ci fece su un segnaccio con un lapis blù e la passò ad un ragazzotto ch’era lì presso senza far parola.
Aspettai mezz’ora, rodendomi dentro dalla paura che il libro non ci fosse o che non volessero portarmelo. Quando venne me lo strinsi sotto il braccio ed entrai tutto vergognoso e in punta di piedi nella gran sala di lettura. Non avevo provato mai un tal senso di riverenza – neppure in chiesa da piccino. Come spaventato dal mio ardire e dal trovarmi là dentro, dopo tanto, in mezzo a quel gigantesco reliquiario della sapienza dei secoli, andai a sedermi sul primo seggiolone libero che mi si parò dinanzi. Era tale lo smarrimento e il piacere e lo stupore e il senso d’esser divenuto ad un tratto come più grande e più uomo che per quasi un’ora non riuscii a capir nulla nel libro che avevo dinanzi.
Tutto là dentro mi pareva santo e maestoso come il ritrovo di una nazione. Quei seggioloni sudici e stinti, coperti di stoffa dove lo scolorito verde finiva nel giallo o si nascondeva sotto l’untume nero, sembravano a’ miei occhi colossali e fastosi come troni e il vasto silenzio mi pesava sull’anima più grave e solenne di quello d’una cattedrale.
Dopo quel giorno ci tornai tutti i giorni, per tutto il tempo che la tediosissima scuola mi lasciava libero. A poco a poco feci l’abitudine a quel silenzio, a quella stanzona così alta sopra la mia testa arruffata di adolescente trascurato, a quella ricchezza sterminata di volumi antichi e nuovi, di giornali, di riviste, di opuscoli, di atlanti, di codici e di manoscritti. Diventai presto come di casa, imparai le faccie dei distributori, scopersi i segreti delle segnature, penetrai nei cataloghi, conobbi i visi dei fedeli e degli appassionati che venivano come me, tutti i giorni, precisi e impazienti come a un ritrovo di voluttà.
E mi gettai a capofitto in tutte le letture che mi suggerivano le mie pullulanti curiosità o i titoli de’ libri che trovavo in altri libri visti nelle vetrine e sui barroccini e intrapresi allora, senza esperienza, senza guida, e senza un qualsiasi disegno, ma con tutto il furore e l'impeto della passione, la vita dura e magnifica dell’onnisapiente.»
(Giovanni Papini, Un uomo finito, p. 13-16; la testimonianza si riferisce alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)
Papini (1913b)
«Abbandonato a me stesso, coll’appetito sregolato e capriccioso dell’adolescenza, cercavo qua e là i libri che mi potessero illuminare e saziare. A volte frugavo nei grandi cataloghi manoscritti della biblioteca, chiedendo poi, a caso, libri bizzarri, inutili, inintelligibili o cercavo con avidità manuali che dessero titoli di altri libri, e ricopiavo con gioiosa impazienza le liste di libri che spesso son dietro alle copertine oppure i frontispizi e i titoli di quelli esposti nelle vetrine o rammentati nelle riviste.
Un nuovo titolo di libro era per me, più che una scoperta, una vera conquista, e ne facevo collezioni enormi e li copiavo e ricopiavo su tanti libriccini bislunghi, tentando di ordinarli come meglio potevo. Se il titolo mi piaceva chiedevo subito il libro in biblioteca e da quello spigolavo e raccoglievo altri titoli di libri sconosciuti per me e via sempre innanzi. Ma tutta questa caccia e raccolta non bastava: spesso mi veniva voglia o bisogno d’imparar qualcosa e non sapevo a che porta battere. In quei casi le divine enciclopedie mi soccorrevano e allora, dopo aver trovato quel che cercavo, seguitavo a sfogliare il magico volume e leggevo qua e là con la sempre nuova contentezza di trovar sempre parole e notizie ancora ignote poco prima. [...]
Mi proposi dunque di fare un’enciclopedia che non solo contenesse la materia di tutte le enciclopedie di tutti i paesi e di tutte le lingue, ma le superasse e le sorpassasse; dove ci fosse tutto quel che in loro era disperso e sparpagliato e più ancora; e che non fosse solamente una ricopiatura e un rimpasticciamento di enciclopedie vecchie, ma un lavoro nuovo, fatto su dizionari, manuali e libri recenti e speciali, di tutte quante le scienze, storie e letterature.
Decisa la cosa non stetti con le mani in mano: la mia vita aveva una direzione; le lunghe ore di biblioteca avevano ormai un fine più grave e determinato. Mi posi al lavoro con focosa pazienza. Da quel giorno – era di luglio, in estate, nella stagione della libertà – ogni parola che cominciasse per a mi attrasse come il viso d’un amico. Tutte le massiccie enciclopedie, i voluminosi dizionari, i repertori usati e consunti, i vocabolari speciali furon tirati giù dalle assi degli scaffali per me, per me che copiavo e riassumevo e traducevo e sfogliavo con più lena e furia di prima. Oh quanto mi detter da fare tutti quei fiumiciattoli germanici che cominciavano per Aa – e quanti mai titoli di libri dovetti registrare per render conto di una dinastia di dotti olandesi, dei von der Aa – e come fu lunga e tediosa la lista delle abbreviazioni latine che comincian con A! In quei giorni fui preso da tenerezza per la città di Abila, lontana città sul mare; e vidi per la prima volta opere di legge per parlare con aria d’intenditore dell’abigeato. Risfogliai il vecchio testamento per ritrovare la pietosa Abigail e il profeta Abacuc; snidai ne’ commentatori di Dante la vita e le gesta dell’incendiario Bocca degli Abati; feci conoscenza con tutte le varietà dell’abete; mi erudii nella storia di Abbiategrasso e nella geografia dell’Abissinia.
Dapprincipio ricopiavo alla rinfusa su quaderni o pezzi di carta scompagnati e diversi – poi mettevo ogni cosa al pulito, in ordine, su carta ben rigata e levigata. Di giorno, in biblioteca, scrittura brutta, sformata, frettolosa, macchie, scarabocchi, e abbreviature – la sera, alla tremante fiamma della candela, la più bella calligrafia di cui ero capace, inglese e rotonda, con inchiostro nero e rosso; e la carta sugante sotto la mano sinistra… Che divertimento! Per star lì, gobbo e con poco lume, a scriver la mia enciclopedia avrei lasciato qualunque gioco e qualunque teatro – e anche, scommetto, un serraglio di bestie feroci che nelle fiere, era quel che mi tirava il cuore più d’ogni cosa.
Eppure anche quella impresa che magnificava me stesso, povero ragazzo ignorante, ai miei occhi e perfino a quelli de’ distributori di biblioteca che mi guardavano con una compassione venata d’ironia e di rispetto, mi venne a noia o, per dir meglio, mi spaventò per la perfezione che volevo raggiungere. Già lavoravo da un paio di mesi, e di mattina e nel pomeriggio sotto i finestroni infuocati e di sera sotto le lampade ad arco in un’altra biblioteca o al lume di candela in camera mia, eppure scrivi e riscrivi non ero riuscito a oltrepassare le parole che cominciavano per Ad. Un lunghissimo articolo sul furente Achille mi seccò. Costeggiavo la questione omerica; ero sull’orlo della filologia classica; parecchie parole greche (che non capivo) mi arenarono e mi umiliarono.
La ragione corse in aiuto alla stanchezza. Cominciavo allora a fiutare un po’ di filosofia, chissà in quali perfidi libri!, e cominciavo alla peggio a ragionare colle regole e a riflettere men grossamente che non s’addicesse alla mia età. Vidi dunque che la sapienza vera non consisteva nè poteva consistere in un accozzo alfabetico di notizie borseggiate qua e là da ogni parte; in un ammonticchiamento di raccattaticci e di copiature, ordinato meccanicamente ma senza soffio di vita nè anima di pensiero.
Abbandonai l’enciclopedia ma nello specialismo non volevo cascare: il mio dongiovannismo cerebrale mi tirava sempre indietro quando stavo per gettarmi in un solo amore. Ci voleva per me lo sterminato, il grandioso, la totalità delle cose, l’ampiezza dei tempi – la processione dei secoli e dei volumi.
Mi parve che la storia dovesse fare al caso mio. [...]
Ma nella mia storia ci doveva esser tutto: e passai allora dalle scienze alle cosmogonie. Codesto scrupolo di storico (non già storia dei soli fatti ma anche delle credenze sui fatti) ebbe grande effetto sui miei studi.
La mia curiosità si biforcò: cascai da una parte nella letteratura comparata e dall’altra nella religione. Nella religione prima di tutto. Non ci fu teogonia o mito cosmico ch’io non ricercassi e non riassumessi o ricopiassi per inzepparne il principio della mia storia.
Su nessuna però mi fermai come su quella degli ebrei. Avevo in casa una di quelle bibbie nere che trent’anni fa i protestanti inglesi vendevano in Italia per mezzalira (e nessuno le voleva): rilessi lì tutta la Genesi. Ma non bastava. Cercai in biblioteca i commenti più lodati, le sbrosce erudite più autorevoli sull’opera dei sette giorni, e concordisti cattolici ed eretici in combutta. Leggevo e sfogliavo libellacci spiritosi del settecento e apologie ristuccate alla moderna per dar soddisfazione ai seminaristi meno cretini; saggi francesi chiari e mussanti come la sciampagna e sodi panettoni filosofici ed esegetici alla tedesca, e articoli di dizionari e glosse lunghe e variolingue di bibbie poliglotte, senza saper discernere il sicuro dal sofistico e l’accertato dal supposto. Rifrugai anche negli zibaldoni verdi che avevo trovato nella cesta-libreria e persi a poco a poco il ricordo della causa prima delle mie ricerche per sperdermi nel dedalo, nel pelago e nel pruneto delle questioni bibliche.
Presi una cotta, ad esempio, per il tentativo concordatario: ebbi la pazienza di leggere il grosso libro di un tal Pianciani, eppoi il colossale Esamerone dello Stoppani e varie altre esercitazioni biologiche e scolastiche di gesuiti darwiniani o quasi. E mi venne allora un pensiero: tutti i commenti della Bibbia che si conoscono son fatti da preti, da vescovi, da teologi, da credenti – da credenti anche se son luterani o quaccheri o valdesi o sociniani. Manca invece, – cioè: credevo che mancasse – un commentario della Bibbia fatto da un razionalista, da un uomo positivo, da un miscredente disinteressato, da uno spirito libero che segua versetto per versetto tutti i libri del Testamento vecchio e nuovo e metta sotto gli occhi di tutti, senza eufemismi, gli errori, le contraddizioni, le bugie, le ridicolaggini, le prove di ferocia, di furfanteria e di balordaggine di cui son piene quelle pagine che dicono ispirate da Dio. Un simile commento, pensavo, farebbe assai più male alla fede che non le sfuriate ateistiche e le seccantissime controversie che sono il più dell’antiteologia moderna.
«Questo commento non c’è: lo farò io!»
Ormai le imprese grandi non mi facevan battere il cuore e questo, rispetto all’enciclopedia suprema, era un lavoretto da nulla, che potevo finire comodamente, pensavo, in un paio d’anni.
Cominciai seriamente: presi una grammatica ebraica e in capo a pochi giorni scrivevo già i grossi e contorti caratteri semitici ed ero capace di ricopiare i versetti del Pentateuco dall’originale. Raccolsi un materiale che a me pareva grandissimo e ammonticchiai ogni mattina e ogni pomeriggio roba nuova finchè un giorno mi parve abbastanza. Mi sentivo sazio e quasi nauseato da tanta arruffata erudizione: sentivo che se non riuscivo a darle una forma purchessia avrei lasciato ogni cosa lì – e per sempre.»
(Giovanni Papini, Un uomo finito, p. 18-25; la testimonianza si riferisce alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)
Papini (1913c)
«Caro Giuliano: noi siamo oggi due uomini e non più due ragazzi. Abbiamo moglie e figlioli; abbiamo parecchi doveri; abbiamo, in un certo senso, cura d’anime. Eppure io credo che se qualcosa di meno falso è uscito mai dall’anime nostre; se qualcosa di noi resterà, dopo la morte, nelle anime altrui, lo dovemmo e lo dovremo a quelle fredde feste d’inverno, a quelle fughe in due verso la terra ignuda e l’altezza pura. [...]
Noi siamo accosto e lontani, amico mio, ed io non so nulla di te e tu non sai più niente di me.
Ma se ti rivedo seduto dinanzi ai banconi immensi e scarabocchiati della biblioteca, nelle mattinate e nei pomeriggi del lavoro appassionato, chino sui libri aperti, sulla carta apparecchiata, e risento la tua voce che mi chiedeva o mi rispondeva qualcosa (e si guardava intorno colla coda dell’occhio perchè l’uomo severo che gira su e giù non si avvedesse del nostro cicaleccio illegale) allora capisco ogni cosa e tu ridiventi mio, tutto mio, come in quei giorni lontani della nostra impaziente vigilia.»
(Giovanni Papini, Un uomo finito, p. 66-68; Giuliano va identificato con Giuseppe Prezzolini, che era solito firmare i suoi articoli pubblicati su «Leonardo» con lo pseudonimo di Giuliano il Sofista; la descrizione della biblioteca è verosimilmente da riferirisi alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)
Parks (2015)
«I arrived in Italy in 1981 with barely a word of Italian. My strategy for learning the language was simple. Each afternoon, between my morning and evening teaching, I spent three or four hours in Verona’s main public library reading novels and writing down every word I didn’t know, every syntactical structure I wasn’t familiar with, then trying out what I had learned in conversations with my long-suffering wife.
Since the task was arduous at first, I began with contemporary writers who used a fairly simple style – Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, Carlo Cassola – then began to look at the more difficult writers of the day, Elsa Morante, Italo Calvino and the young Aldo Busi. Later, as my Italian improved, I went backward in time: the war years – Pavese, Fenoglio, Brancati – the early 20th century – Svevo, D’Annunzio, Pirandello – the 19th century with its extraordinary riches, Verga, Manzoni, Nievo, Foscolo and for the first time a poet, Giacomo Leopardi.»
(Tim Parks, A literary tour of Italy, p. VII).
Pascoli (1898-1899)
«Il Pascoli attendeva allora, per l'editore Sandron di Palermo, a un'antologia scolastica, il Sul limitare, che uscì difatti nel 1899; e per questa antologia aveva bisogno di libri. E i libri chi poteva pensare il Pascoli glieli cercasse nella Biblioteca Governativa di Lucca, fornitissima, e glieli prendesse a prestito, e glieli mandasse o addirittura glieli portasse a Castelvecchio, più sollecitamente del ventenne Manarino scolaro? Le prime di queste lettere a me che qui si pubblicano riguardano appunto queste ricerche e richieste e questi pronti soccorsi.
Né a Lucca di giovani affezionati e devoti al Pascoli c'ero io soltanto; c'era anche, e proprio della Biblioteca Governativa, Gabriele Briganti, mio coetaneo e amicissimo. «Gabriele è il nostro arcangelo», mi diceva il Pascoli, pronto sempre a giocare e scherzare di nomi e soprannomi. Era di Ripafratta Gabriele, e tutte le sante mattine arrivava. «Questo libro, quest'altro» dicevo io; e se a Lucca il libro non c'era, si faceva venire di fuori. Un pascoliano più «attaccato» di lui al Pascoli (devo proprio dire così), credo non ci sia mai stato. [...]
La prima venuta del Pascoli in biblioteca, a Lucca, e il suo primo incontro con Gabriele furono il 19 dicembre 1896. Questa data deriva da un trafiletto di cronaca del giornale lucchese «Il progresso», scoperto da quell'infaticabile e sicuro ricercatore che è Felice Del Beccaro. Ricordo benissimo che il trafiletto («È stato qui in Lucca per ragioni di studio Giovanni Pascoli» ecc. ecc. Perciò la data va forse anticipata di qualche giorno: anche perché «Il progresso» era settimanale) lo scrivemmo al giornale, e quasi lo componemmo e imprimemmo sul torchio, io e Gabriele insieme.»
(Manara Valgimigli, Lettere di Giovanni Pascoli (1898-1906), in Uomini e scrittori del mio tempo, p. 253-268: 253-254)
«Caro Manara, affretta la copia e mandala con la nota delle spese di copiatura e di posta. Per carità! Se intanto hai trovato qualche cosa di bello o in versi o in prosa comunicamelo. Dì la stessa cosa al gentil Gabriele [Briganti]. Al quale dì pure che mi prepari allo stesso modo qualche poesia breve dello Shelley.»
(Giovanni Pascoli, lettera a Manara Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 17 agosto 1898, ivi, p. 254)
«Ho bisogno di dirozzare l'antologia. Perciò prendi dal cav. [Eugenio] Boselli i libri che mi ha fatto venire, più da Gabriele ciò che ti darà avvertendolo che dia l'indicazione anche dell'opera donde sono estratte le singole poesie. Anche di questa già tradotta dello Shelley non so nulla. Più prendi, se c'è, una edizione del Romancero del Cid, con traduzione, o almeno un'edizione del Berchet che abbia anche le traduzioni dallo spagnolo. Più prendi di che commentare un passo o due delle Storie Fiorentine del Machiavello (Congiura dei Pazzi - Tumulto dei Ciompi - Battaglia d'Anghiari) e specialmente lo studio dell'Alvisi sul Maramaldo e altro che tu trovi sulla battaglia di Gavinana. E tutto ciò che credi conveniente. Ma sopra tutto prendi i libri dal cav. Boselli, al quale presenterai questo biglietto. [...]
Per venire, [...] avvisami della tua venuta e io in queste belle notti di luna sarò a Campia a prenderti, con un ragazzo che porterà i libri e così in casa troverai preparata la cena opipara.
Saluta affettuosamente il nostro Gabriele. [...] A proposito, scrissi subito al Sandron che mandasse al tuo indirizzo i quattrini per il copista.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 31 agosto 1898, ivi, p. 255-256).
«Caro Manarino,
Fammi mandare qualche cosa, sopra tutto il David Lazzaretti di Giacomo Barzellotti. Ringrazia Gabriele e il cav. Boselli.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 19 settembre 1898, ivi, p. 256).
«Carissimo Manarino, avrei bisogno dell'Aleardi! Poverino, non mi mandare al diavolo!
Abbi un po' di quella pazienza che a me abbonda. [...]
Tante cose al nostro Gabriel e al cav. Boselli e al tuo caro babbo. Come faccio a commentare Curradino!
Dimmi subito subito che capitolo è in Villani il primo trascritto: Come il giovane Curradino a sommossa etc.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 25 settembre 1898, ivi, p. 257).
«Intanto procurami e mandami il Chiarini sulle Odi barbare e qualche altro libro analogo. Ma basta quello, a ogni modo. Ma subito.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 8 agosto 1899, ivi, p. 259).
«Ho bisogno urgente delle opere di Aristotele, con la trad. latina. Capisci perché. Se hanno a Lucca l'ed. Didot, quella; se no ingègnati; sopra tutto mi occorrono le opere di fil. morale. Se vuoi, vienmele a portar tu stesso; ma ricordati! siamo stanchi e puliti; sicché potremo farci poco onore.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 23 agosto 1899, ivi, p. 259).
«Ho ricevuto i libri. Li rimanderò presto. Aspettavo che tu dessi una capatina anche te, quassù.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 28 agosto 1899, ivi, p. 260).
«Caro Manarèn, se questa cartolina ti arriva in tempo, prima della tua partenza, fa di portarmi non un libro ma una libra... di parmigiano. [...] Ti aspetto con impazienza.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 31 agosto 1899, ivi, p. 260).