L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Gabrieli (1960)
«Leggo il Saluto alla Classense del vecchio amico [Manara Valgimigli], che per alcuni anni ne è stato il numen loci, prima di far ritorno alla sua Padova; e figlio qual sono di un bibliotecario, e amico di libri dalla prima infanzia, sento ancora una volta con commozione nella pagina di Valgimigli quella «religione delle lettere», che par così bene di casa in Romagna, tra la Malatestiana e la Classense, tra giovani pensosi e vecchi saggi. Di Renato Serra, io non ho fatto in tempo che a raccogliere l’eco, a contemplare la scia della luminosa meteora leggendo qualcosa di lui (tra cui quell’indimenticabile Dell’arte di leggere i Greci) e raccogliendo le testimonianze di chi lo conobbe e lo amò. Ma Valgimigli, grazie al cielo, ho fatto in tempo a conoscerlo di persona, dopo averne desiderata la conoscenza per anni, dagli ormai lontani anni di giovinezza.
Un pomeriggio di età preistorica, nell’oscura saletta della biblioteca della Facoltà di lettere romana a Palazzo Carpegna (oggi è scomparso, quel caro palazzo che tante cose ricordava di noi, e c’è al suo posto una rimessa di macchine senatoriali), passai più ore a divorare La mia scuola, i ricordi e le esperienze di quell’antico professore di liceo, rimasto educatore nell’anima anche dopo che fu salito alla cattedra universitaria.».
(Francesco Gabrieli, Valgimigli, in Abbozzi e profili, p. 111-113: 111; tra il 1919 e il 1926 la Facoltà di lettere ebbe sede a Palazzo Carpegna, che era stato unito all’adiacente palazzo della Sapienza con un cavalcavia provvisorio).
Gadda (1918)
«Francoforte sul Meno, 28 marzo 1918. [...] Intanto la nostra vicenda di schiavi senza conforto ha avuto un nuovo brusco mutamento. Il giorno 26, improvvisamente, si sparse la voce che noi avremmo dovuto lasciare Rastatt, per far posto ai prigionieri Inglesi. [...] E poi il campo era ora quasi sistemato; le camere del Ridotto 16, del Rid. 15, della Friedenscaserne imbiancate: i letti venivano portati, i pagliericci e gli armadi preparati. Ancora erano stati acquistati dei giochi (crocquet, tamburelli, bocce) e doveva esser messo un bigliardo, un pianoforte, altri strumenti musicali, e si doveva aprire tra di noi una biblioteca. A dirigere questi servizî s’erano eletti tra noi dei commissarî. Insomma ci avvicinavamo a una sistemazione discreta e definitiva del campo Friedrichsfestung, e i martirî della Caponiera stavano per ascendere ad abitudini di vita meno atroci. La partenza improvvisa ci priva di queste speranze.»
(Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, p. 327-328. Questi diari sono stati pubblicati per la prima volta, in parte, nel 1955; la prima edizione integrale uscì nel 1992).
«Celle-Lager. Offiziergefangenlager, Blocco C; Baracca 15 B. – Note del 21 aprile 1918 (Natale di Roma). [...]
Alla biblioteca si trova qualcosetta di interessante; è una biblioteca per modo di dire: quattro libri accozzati come si poteva. Ma è già un bello sforzo, se si pensa che i tedeschi impiegano dai tre ai cinque mesi per farci avere i libri che ordiniamo. L’organizzazione e la direzione della biblioteca sono dovute a benemeriti ufficiali italiani. [...]
Ogni blocco ha la sua biblioteca e la sua baracca di musica.»
(ivi, p. 335-336).
«Cellelager, 21 maggio 1918. [...] I due scorsi giorni 19 e 20 passarono, la mattina, nel calmo studio del tedesco; nel pomeriggio, parte tra il sonno, durante le ore più calde, e parte nella lettura. Ho per le mani un libro filosofico di Troilo: Il positivismo e i diritti dello spirito, opera di cui non posso ancor dare un giudizio. [...]
Cellelager; Blocco C. Venerdì 31 maggio 1918. [...] Lessi anche un po’ (Correnti di filosofia contemporanea; pubblicazione di conferenze di filosofia teoretica, morale, ecc. e di vario argomento, a cura di un circolo d’alta cultura genovese.) Trascuro invece il libro del Troilo. Lessi anche novelle e sciocchezze, per distrarmi. Giocai poco o nulla agli scacchi.
Studio del tedesco e attività intellettuale specifica. Lo studio è saltuario e irrazionale: leggo traducendo il giornale e un romanzetto, noto i vocaboli ignoti per studiarmeli, ma poi non li studio: quei che rimangono, rimangono. Causa: il mal dei nervi. Leggo e rileggo qualche poesia, il che mi riesce un buon sussidio per imparare e ritenere vocaboli. Non studio più matematica, ma forse riprenderò, in un tempo non lontano.»
(ivi, p. 356, 360-361).
Gadda (1932)
«A fine giugno (1914) un altro avvenimento quasi marinaresco anche quello suscitò in Luigi delle preoccupazioni umanitarie [...] e nella stampa italiana tutto un fermento di congetture scientifiche e di speranze radioelettriche [...].
Predisposta a Firenze tutta una cerimonia radioelettrica ed infrarossa, seminarono non so che campo o che ansia del fiume d'una cinquantina di torpedini, rigonfie de' più malvagi esplosivi.
Un sole splendido, una mattinata indimenticabile di prima estate, con sogno di trasvolanti nuvole nel cielo più azzurro d'Italia, con dei tenenti di vascello, delle ragazze stupende, delle signore inglesi, bruttissime, ma regolarmente abbonate al Vieusseux; con dei commendatori, dei funzionari postali per il controllo, degli ingegneri de' telefoni.».
(Carlo Emilio Gadda, Le novissime armi, in Accoppiamenti giudiziosi, Milano, Garzanti, 1983, p. 55-60: 57, 59. Il breve racconto fu pubblicato per la prima volta in «Solaria», 7 (1932), n. 7/8, p. 17-20).
Gadda (1944)
«Il positivismo non ha creduto di accattar miti qua e là. [...]
Noi possiamo oggi irridere alle concrezioni e alle superfetazioni retoriche che quelle idee direttrici hanno comportato – calami e sterpi fluitati dalla piena d'un fiume generoso. Possiamo farci beffe (oh, quanto facili beffe nella impossibilità d'una emulazione 1922-1944) del tempo nobilmente consunto: delle sue università popolari, delle sue biblioteche circolanti, delle sue pubblicazioni a dispense, dei circoli di cultura e di ricreazione, degli onesti baffi de' suoi molteplici e «brillanti» conferenzieri: noi che abbiamo assaporato il conferenziere unico e funerario con tibie in croce sul fez: noi che abbiamo riconosciuto la spia, e lo sgherro travestito, in ogni biblioteca e in ogni fabbrica.»
(Carlo Emilio Gadda, I miti del somaro, p. 47-49. Il manoscritto, pubblicato postumo, è datato "Roma 1944").
Galante Garrone (1998)
«[Adolfo] Omodeo mi propose, prima di tutto, un’ampia ricerca sulla stampa subalpina (oltre ai giornali liguri e savoiardi) del decennio cavouriano, attingendo a una copiosa e quasi completa raccolta esistente nella Biblioteca Nazionale di Torino, e poi andata purtroppo distrutta nel primo gravissimo bombardamento aereo del 20 novembre 1942, che troncò le mie ricerche. (Ricordo di aver visto la mattina dopo, in via Po, bruciacchiati e ancora fumanti, non pochi frammenti di queste gazzette, sul selciato). E naturalmente tale distruzione mandò in fumo anche la mia ricerca.»
(Alessandro Galante Garrone, Testimonianza su Franco Venturi, in: Il coraggio della ragione: Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita..., p. 415-424: 418).
Gallino (2001)
«l’istituzione fondamentale dell’azienda di Adriano è stata il Centro culturale Olivetti, ch'era parte integrante – va evidenziato – della sua struttura organizzativa. Aveva esordito nel 1950 organizzando a Ivrea una grande mostra dedicata a 25 anni di pittura italiana. Formalmente faceva parte dei Servizi sociali, che a loro volta erano alle dipendenze del direttore del personale. [...]
Tutte le sue manifestazioni erano in genere gratuite e aperte a tutti, con l’eccezione del prestito della biblioteca di letteratura contemporanea (che peraltro comprendeva anche classici e testi di storia e saggistica varia) che era riservato ai dipendenti della fabbrica.
La biblioteca aziendale, istituita nel 1940 e cresciuta senza posa negli anni di Adriano, quale parte integrante del Centro culturale, era collocata nella fascia dei Servizi sociali, dove si trovava anche il mio ufficio. Comprendeva, nella seconda metà degli anni Cinquanta, tre principali sezioni. La sezione di narrativa già citata, la sezione di scienze sociali che io stesso avevo contribuito a sviluppare, e una sezione di alta saggistica, forte di circa 30 000 volumi. Per dare un’idea di quale livello fosse quest’ultima, pur sempre parte di una biblioteca di fabbrica, basterà dire che giusto dinanzi al mio ufficio c’era uno scaffale contenente un’edizione imperiale completa delle opere di Kant (la Koeniglich-Reichliche Gesamtausgabe) dei primi del Novecento. Non lontano era collocata l’edizione critica del 1956 di Wirtschaft und Gesellschaft di Max Weber. Un’opera intimidente – due volumi di un migliaio di pagine – la cui traduzione, dottamente curata da Pietro Rossi con una fatica di anni, avrebbe inaugurato nel 1961 la magnifica collana dei classici della sociologia pubblicata dalle Edizioni di Comunità. Una collana che per l’impegno anche finanziario richiesto era stata programmata evidentemente quando l’ingegner Adriano ne era ancora il direttore.
Alla sezione di saggistica della biblioteca potevano accedere, su presentazione, anche persone che venivano da fuori. Tra gli altri era regolarmente frequentata da giovani studiosi dell’Università di Torino, dato che, soprattutto per quanto riguardava le nascenti scienze sociali, sociologia e antropologia, soltanto a Ivrea si trovavano i libri cercati. Credo che all’epoca non vi fosse nulla di paragonabile a tale istituzione posta letteralmente e simbolicamente all’ombra di un grande stabilimento industriale.»
(Luciano Gallino, L'impresa responsabile, p. 101-103).
«la fabbrica era davvero una parte della comunità, una fabbrica profondamente radicata nel territorio, dove il tecnico, l’operaio, l’impiegato e il dirigente abitavano spesso a pochi isolati di distanza e si ritrovavano alla mensa, alla biblioteca per prendere un libro in prestito, al cinema, alle conferenze del Centro culturale. [...]
Questo ha probabilmente contribuito ad alimentare la situazione che ricordavo prima, di un'azienda dove l'operaio che veniva a prendere un libro in biblioteca, o che si incontrava nella Commissione interna, con cui si scambiava qualche parola durante la mensa, si dimostrasse singolarmente bene informato su come andava la fabbrica, su quali erano i problemi di fondo e le situazioni contingenti da affrontare.»
(ivi, p. 75 e 77).
Gargiulo (1955)
«Passavo a quel tempo le mie intere mattinate in biblioteca, e non infrequente era il caso che mi trovassi là troppo presto; rimanevo con altri ad aspettare che la porta si aprisse al pubblico.
I miei compagni in questo zelo, gli «studiosi» fin dalla primissima ora! Non so come facesse a raggiungere la monumentale altezza di quel secondo piano, un tale, tremante d’inverno in un chiaro vestitino d’estate, tanto affannava e tossiva. E un giorno infatti scomparve. Immancabile v’era uno, noto a tutti gli assidui, che da un tempo non definito veniva ad immergersi nella lettura dello stesso libro; e sarebbe poco: alla stessa pagina.
Mi domando se la crudeltà dei vent’anni, essa sola, faceva apparirmi anche vecchi, in genere, i componenti la miserevole compagnia. Ma forse intuivo giusto, almeno in un certo senso: spirava da coloro, indistintamente, qualcosa che vorrei chiamare la «disoccupazione definitiva».
Né poi i vecchi d’anni mancavano. Due ne ho presenti, dalla cui attenzione io ero preso di mira; ed oggi sono in grado d’intendere il penoso significato di quegli sguardi che, partendo da un così lontano fondo, cercavan di raggiungere la mia gioventù. Negli occhietti sbiancati dell’uno, l’ammirazione nostalgica si traduceva in pura, sconfinata umiltà; in quell’altro, che mi risalutava quasi ogni volta che lo guardassi, l’umiltà torbida invece, voleva farsi lusinga, strumento d’approccio.
Attendere i libri, prenderli, e leggerli in una sala in comune, in presenza di altri, costituiva per me un punto alquanto difficile da superare. La ringhiera di legno della distribuzione, che ci riuniva tutti, mi diventava una specie di traguardo; e di essere fra tali «concorrenti», – con quell’urgenza ogni giorno di riattaccarmi ai vecchi libri, – mi pungeva una sottile vergogna.
Di fronte a chi? I benedetti scontrosi vent’anni non spiegano abbastanza quel senso di mortificato pudore. Contribuiva non poco al mio confuso disagio, questo è certo, la presenza dell’uomo dietro la ringhiera. Era soltanto l’usciere addetto al materiale passaggio da una mano all’altra, delle schede e dei libri. I miei compagni lo sogguardavano appena, con una soggezione sconfinante nella paura; io, sebbene potessi sorridere della paura, quanto capivo quella soggezione!
Penso a quando l’uomo veniva sostituito da un compagno: risento l’effetto assurdo che mi faceva il cambio. Il sopravvenuto si mostrava cacciato lì, misero anche nell’aspetto, a compiere una funzione scaduta da ogni dignità. O che forse tanto alta era la funzione? Una domanda simile, allora, mi avrebbe sorpreso prima che infastidito.
Subentrava nel posto uno qualunque: ebbene, per me era come quando non si tollera, perché neanche lo si «raffigura», il nuovo designato a rivestire l’autorevole carica di chi ci era sembrato personificare la carica stessa fino all’altezza del simbolo, legato a quella senza vincolo di tempo.
Talvolta pure mi accadde di vedere il nostro addetto alla distribuzione, fuori, per la strada, nel suo vestito privato e in cappello: una rimpicciolita figura tra l’agente di forza pubblica e il contadino; e sfuggente, perché tutto raccolto in se stesso, egli andava lestissimo. Ma nella memoria questa impressione è inerte; invece il personaggio vi resta vivo nella sua uniforme color tabacco sporco, filettata di giallo: inseparabile da essa nella misura della nobile naturalezza con cui la portava e, starei per soggiungere, la «superava».
Se è ovvio che talora io incontrassi l’uomo anche in altre sale o nei corridoi della biblioteca, ciò non toglie che la sua immagine mi si ripresenti, con la maggiore spontaneità, sempre al posto indicato. Anzi in un particolare momento: nelle soste; allorché egli, quasi sull’attenti, una mano appena poggiata al tavolo delle sue operazioni, lo sguardo fisso un po’ in alto, appariva come assorto unicamente nell’attesa di essere di nuovo richiesto del suo lavoro. Tale atteggiamento, provvisorio quanto mai, assume invece per me carattere permanente.
Non è meraviglia, del resto. Avevo allora l’ingenua, perfetta illusione che in quella immobile figura di profilo, «tutto l’interno» fosse palese alla vista come in un quadro: intendo appunto, senz’altro, «tutto» quello che qui ora vuole un così lungo discorso.
Ma intanto noto: una cosa essenziale certamente sfuggiva alla fervida attenzione del riguardante, data la sua età felice: cioè la condizione del pover’uomo, in quanto si guadagnava così il suo pane. Il pover’uomo intravisto per la strada; che avrà avuto moglie, figli; le cui corse preoccupate saranno state verso casa.
Ora un usciere, ora anche qualcuno degli impiegati circolanti per la distribuzione, un superiore quindi, si avvicinava al nostro personaggio per sussurrargli all’orecchio qualcosa; non prima peraltro che egli facesse cenno di poter dar loro ascolto. Evidentemente, nella consuetudine, colui doveva suscitare un bisogno di confidarglisi pari al rispetto. Lo volevano giudice a sfogo dei reciproci risentimenti, e non gli risparmiavano il racconto di un solo incidente increscioso o ridicolo del servizio. Tutto quel che avveniva nelle sale interne, credo, gli avrebbero volentieri riferito; quasi con l’inconscio desiderio di averlo in un modo qualsiasi onnipresente. Non chiedevano che di essere sentiti, per tornar via soddisfatti; o sentirsi, nel caso, più sicuri di sè e delle proprie ragioni. L’ascoltatore di solito rimaneva muto: che importa? Bastava ai ricorrenti quella sua pronta attenzione, proporzionata ogni volta, si sarebbe detto, al peso che ciascun di loro dava alla comunicazione propria. Sicché nessuno mostrava di avvertire, nel lieve commento mimico che teneva luogo di risposta, ciò che pure apertamente si leggeva. Erano le sfumature, appena, di una disposizione indulgente sempre eguale, e distaccata quanto più comprensiva.
Certo, da paragonarsi alla forza di chiusura degli uomini l’un contro l’altro, c’è solo, a questo mondo, l’intensità del loro fondamentale bisogno di spezzare la chiusura e aprirsi, affidarsi a qualcuno. Fate che ne intravedano la possibilità: vi si precipiteranno con lo slancio dell’assoluta fede. Ma se io non ero in grado, allora, di cogliere tutta la profondità d’un tale rapporto, non perciò l’eroe del mio giovanile ricordo grandeggiava meno nella mia ammirazione. Quella sua umanità! L’idea di «umanità multanime»: ecco appunto quale era, al tempo di cui parlo, fra le mie vergini idee la più alta e gelosa.
Se cerco di definire il senso che allora avevo di quel mio frequentare la biblioteca e dello studio e delle letture, non posso se non scrivere, così, con la maiuscola, la parola: Vita. Nei libri non perseguivo altro: trovarla, era ogni volta un rapimento; non importa se soltanto qualche rara opera, alla fine, sapesse darmi espressioni di vita alla profondità cui, oh, come ne ero sicuro! le avrei poi fermate io stesso. Era questo, anzi, il maggior motivo dello slancio e della gioia; e restava ancora al di là di tutto questo, ultimo magnifico termine di conquista, per se stessa, fuori dai libri, la vita, nella sua realtà; e, in essa, le persone vive con le loro qualità essenziali. Come quel mio personaggio, ch’io andavo così intensamente osservando.
A noi del pubblico, l’uomo dietro la ringhiera non dava intanto che rapidissime occhiate. Non di più gli occorreva per conoscere i frequentatori ad uno ad uno; né intendo solo per associare alle persone i nomi e i libri abituali.
L’«umore» degli assidui non gli restava ignoto di sicuro. E a me sembrava perfino che il suo tratto fosse, verso quelli, sempre opportunamente diverso.
Soprattutto avevo l’impressione che, porgendo i libri a qualcuno dei lettori «eccentrici», egli accompagnasse l’atto, in modo appena percettibile, con un sorriso: il sorriso dosato o più di benevola ironia o più di compassione, che quegli precisamente si meritava.
Ma la memoria, la pratica, che doveva posseder colui di tutta la biblioteca e del servizio, il suo prezioso intuito nelle varie ricerche: su ciò non credo davvero che potessi ingannarmi. Gli era sufficiente quella medesima attenzione, fuggevole in apparenza, alle schede, ai libri; ed ogni sbaglio dei distributori veniva chiarito davanti al suo tavolo, prima che avesse a riscontrarlo l’interessato. Alle difficoltà che i distributori gli comunicavano, egli rispondeva con indicazioni, suggerimenti; o infine cedeva il suo posto, nei casi più complicati, per intervenir di persona.
Non so da parte di chi, anche s’invocasse il suo aiuto nelle sale interne, allorché ve lo chiamavano con tanta premura, a volte un po’ misteriosamente; e non poteva comunque trattarsi che di questioni attinenti ad altri rami di servizio. Rammento una curiosa scena: un alto funzionario della biblioteca si affida urgentemente per una ricerca al nostro uomo; e rimane lui stesso frattanto, con una scherzosa bonarietà, tranquillamente in attesa, a sostituirlo.
Spesso risuonava poi l’allarmato appello: il Signor Direttore! L’usciere della distribuzione accorreva: l’appello era per lui. Ben giustificata, da quel che dirò appresso, era la mia certezza che il Direttore, il vecchio Abate, dovesse in molte occasioni desiderare di averlo almeno presente, là, sottomano. O allora, perché non gli lasciava addirittura la direzione della biblioteca? Sebbene non ricordi quando, fantasticando, ebbi a formularlo, mi restò fisso in mente questo allegro paradosso.
Eppure le meraviglie della capacità e attività di colui in tale campo, tutte alla fine per me rientravano, come naturali manifestazioni secondarie, nell’ordine stabilito dalla grandezza del mio eroe in quell’altro campo ch’io esploravo: l’umano.
Quasi tutti i giorni, verso le dieci, squillando non so dove, una campanella annunziava l’arrivo dell’Abate. Seguiva un movimento, o uno scappare, tra il personale; qualche voce ammoniva bassa, dava ordini in fretta. Afferrato uno sgabelletto pieghevole che teneva lì a portata di mano, l’uomo della ringhiera abbandonava il posto al compagno già sopraggiunto, e si precipitava per le scale. Soltanto a lui il vecchio si affidava, per la faticosa salita.
Quanto tardava quell’avvenimento sempre solenne: l’ingresso dell’insigne Abate, il suo lento passaggio attraverso la prima sala dei lettori! Non v’era certo da sbagliarsi, immaginando che il vecchio, aggrappato al suo sostegno, sostasse scalino per scalino, e lunghissimi fossero i suoi riposi sullo sgabelletto, ad ogni ripiano.
Finalmente la coppia appariva. Lo sguardo e il sorriso tremanti si sforzavano a significare una specie di luminosa bontà benedicente tutti noi; mentre solo riflettevano la soddisfazione, ancora un po’ incerta, della superata fatica. Perciò, quand’essi si rivolgevano alla persona dell’accompagnatore, si facevan più chiari nella espressione d’una elementare, quasi animale riconoscenza.
Ma anche nelle mani il vecchio tremava: tutto, veramente, pareva che in lui tremasse; sicché mi domandavo se le «idee» almeno, in tali momenti egli riuscisse a tener ferme. Non era ignota la sua irosa volubilità nei riguardi del servizio; e così, quale ora appariva su quella soglia, e sapendolo angusto, tormentato da manie, capace d’ogni animosità e ingiustizia, il «venerando uomo», il dotto di gran fama, lo «studioso all’antica», non suscitava soprattutto, un senso di commiserazione?
A contrasto, io consideravo l’altra figura. E non potevo dubitare: il «sapiente» Religioso, il «saggio» Abate si faceva reggere dal braccio di quell’ultimo fra i suoi dipendenti, vi si teneva così stretto, per ragioni in realtà a lui stesso oscurissime.
Saggezza, sapienza: grosse parole; e tuttavia si sarà inteso che le assorbiva e giustificava quel mio infervorato culto dell’«umanità». Ad esso sottostava, del resto, – e dirlo mi par quasi superfluo, – una più larga fede, non meno esclusiva: la fede, in generale, nelle qualità native e «sintetiche» degli uomini; col suo rovescio: una insofferente disistima dell’acquisto, dell’«analitico». Richiamo la vergogna, notata in principio, che mi dava la frequentazione dei libri tra la gente. Rievoco l’ex-compagno di scuola, che di solito in biblioteca mi sedeva accanto: perso sui libri intere giornate a tutto indifferentemente imparare, all’unico scopo di imparare. Il suo triste impegno mi faceva pena e ripugnanza insieme; e quale sollevazione d’orgoglio, se pensavo di poter essere paragonato a lui! Nessuno avrebbe mai sospettato, che là dentro io stessi ben altrimenti che da semplice «studioso»; e che i libri fossero per me, – o addirittura, Dio mi perdoni, per me solo? – un’«altra cosa». Ma ecco, prima, la necessità di una confessione. Mi piacque fantasticare, talvolta, intorno alla specie privilegiata degli eventi che sembrano in qualche modo legittimar l’idea di preordinazione ad un fine. E dico dunque che a ciò mi dette occasione anche il ricordo, sempre vivo negli anni, dell’uomo la cui figura mi son deciso infine a tracciare. Colui non mi si era presentato a testimoniare, personificandole meravigliosamente, alcune disposizioni fondamentali del mio spirito? e proprio nel tempo che di esse io prendevo un’inebriante coscienza, in condizioni favorevoli al loro imperioso risalto? Questo è certo: da una parte stava la genialità del mio umile eroe: dall’altra tutto quel mondo della faticata cultura.
Là intanto io creavo tutto un altro mio mondo da scoprire e conoscere con appassionato fervore. Stato di effettiva beatitudine, se ve n’è uno sulla terra, tale avidità intatta: non è essa la «gioventù assoluta»? Gli uomini esistiti ovunque e in ogni tempo, e forse quanto più accesi da passioni e lacerati da contrasti nelle pagine della storia; figure d’uomini, passioni, contrasti creati dal genio umano nei secoli; e l’umanità presente, viva e operante nella immensità e bellezza del mondo: tutto ciò, alla pari, perdeva ogni senso che non fosse di spettacolo, predisposto unicamente perché se ne esaltasse quest’ultimo venuto. Il quale credeva d’aver tanta ragione di riconoscersi fuori serie, fuori causa. Avesse potuto parlare; non glielo avesse impedito quel suo feroce pudore; sapremmo da lui stesso, anche da quale missione egli si sentiva fatalmente investito.
L’assiduità che posi nel frequentare la biblioteca, quella che mi si doveva poi imprimere nella memoria come la biblioteca per eccellenza, fu quindi una specie di sistemata frenesia. L’èmpito che ogni mattina me la faceva ricercare; l’èmpito che me la faceva lasciare!
Eccomi al mio posto. Davanti alle possibilità infinite, folgoranti in un unico momento, talvolta mi sentivo soffocare; e smarrito mi guardavo intorno. Pareva che la stessa sontuosità dell’immenso salone volesse sopraffarmi; attraverso le vetrate del balcone lì presso, al di là della via larga come fiumana, vedevo donne affacciarsi indifferenti a balconi e finestre, scomparire, ricomparire.
Ma sarebbe un bel raccontare, se potessero assumere forma comunicabile le mie occupazioni di allora, nel resto della giornata: i miei vagabondaggi, gli svagati itinerari. Fuori, dico, e dentro di me: slanci, stanchezze, cadute. E sempre quell’insostenibile struggimento a vuoto, verso sera, nell’ora che precede i lumi: d’estate, d’inverno; poiché le stagioni, infatti, m’era crudeli ciascuna a suo modo. E quel ritrovarmi poi d’un tratto con la mia felicità non solo ricostituita, ma ancor più splendida; dato che tutta l’affidavo, ormai, alle magnifiche «soluzioni» dell’indomani. La biblioteca entrava nel giuoco, e quanto. In me veniva addirittura a provarsi, che uno può pensare anche ad una biblioteca, dall’oggi al domani, come si pensa all’innamorata nell’attesa del prossimo incontro.»
(Alfredo Gargiulo, In biblioteca, a vent’anni, in Tempo di ricordi, p. 29-40)
Gariboldi (1944)
«Arriviamo così alla fine dell’inverno del ‘44: ultima fase della prigionia. Sapevamo dalle notizie provenienti ormai anche dai tedeschi stessi che il fronte si avvicinava. Seguivamo questo movimento sulle cartine che ci eravamo fatti noi stessi traendole da libri. S’era costituita una bella biblioteca nel campo con tutto quello che queste 15.000 persone si erano portate dietro, c’erano le cose più strane, dai classici ai fumetti, da trattati di archeologia o di astronomia a libri in varie lingue, si era messo tutto insieme e si poteva andare a prendere qualcosa da leggere quando si voleva.»
(Intervista a Mario Gariboldi sull’internamento subito nei campi di concentramento in Polonia e Germania, pubblicata in Deportazione e internamento militare in Germania, p. 127-138: 136. Il passo si riferisce alla permanenza nel campo XB di Sandbostel).
Garin (1996)
«Nella memoria, ed è ormai memoria di un periodo lungo e travagliato, il ricordo del Gabinetto Vieusseux si intreccia a tutte le vicende culturali che ho vissuto a Firenze dal '25 in poi. Ricordo che, poco dopo essermi iscritto alla Facoltà di lettere e filosofia dell'Università fiorentina, che da poco aveva preso il posto dell'Istituto di Studi Superiori pratici e di perfezionamento, ottenni di essere ammesso alla Biblioteca Filosofica allora diretta da Arrigo Levasti che conobbi così, e di cui rimasi amico fino alla morte, e, contemporaneamente, mi abbonai al Gabinetto Vieusseux. Mi pareva quasi un atto obbligato. Si era fra la fine del '25 e il principio del '26, in un momento cupo della vita nazionale. A Firenze, agli inizi di ottobre, le squadre fasciste avevano devastato studi di avvocati, bastonato e ucciso. Col '25 alla stampa era stato messo il bavaglio. Al principio del '26 la Biblioteca Filosofica, che allora aveva la sede in Piazza del Duomo, fu chiusa – e restò chiusa a lungo per una conferenza sulla libertà della cultura di Francesco De Sarlo, uno dei professori di filosofia dell'Università.
Per un ragazzo fresco di una 'maturità' faticosamente conquistata in anticipo, e ben deciso a laurearsi in filosofia, abbonarsi allora al Vieusseux non significava solo aprirsi alla possibilità di attingere a una biblioteca circolante d'eccezione, con la prospettiva di avere a casa e leggere in pace ogni sorta di libri. Era assicurarsi l'accesso, nei limiti del possibile, alla stampa europea: non solo alla consultazione di un deposito eccezionale di opere d'ogni genere uscite da più di un secolo in Italia e in Europa, ma alle 'novità' via via pubblicate dovunque. Era la possibilità di sfogarsi con un romanzo poliziesco inglese (ancora non erano 'gialli') come con una raccolta di versi francesi o tedeschi, col romanzo del giorno come con la biografia, col saggio o il libro di memorie di cui si parlava, con l'opera fresca di stampa come con gli autori di un secolo prima, italiani e no, che si scoprivano e che ci aiutavano a familiarizzarci con le lingue, che non imparavamo a parlare, ma alla cui lettura ci abituavamo.
Non so ricordare il Vieusseux senza ripensare alla 'biblioteca' di cui gli sono debitore, ai viaggi nel tempo e nello spazio che mi ha fatto fare, ai 'mondi' che mi ha reso familiari. La visita, prima al Palagio di Parte Guelfa e poi a Palazzo Strozzi, divenne quasi d'obbligo nel passare degli anni.
Certo il Gabinetto Vieusseux non fu solo questo. Col tempo scoprii sempre meglio il posto che nella cultura fiorentina dell'Ottocento, attraverso Firenze in tutta Italia, ebbe il Vieusseux. Capii come attraverso quei libri, quelle riviste che ancora potevo consultare, attraverso la circolazione di quelle carte, si era costruita una rete di rapporti e di interessi che aveva alimentato collaborazioni e ricerche altrimenti impensabili. Scoprii nelle mie ricerche curiose fra le carte della Biblioteca Nazionale dei grandi amici e collaboratori di Vieusseux un dialogo singolare che rendeva ragione della funzione di Firenze nella cultura e nel dibattito europeo fra Ottocento e Novecento.».
(Eugenio Garin, Ricordi di ieri, un invito per oggi, p. 5-7).
Garin (1999)
«Non erano, per l'Italia, anni sereni. Le ripercussioni politiche, nella scuola, si sentivano non poco. Le lezioni di filosofia erano spesso già trasparenti nella scelta dei testi classici (della riforma Gentile) che poi si leggevano e si chiosavano. Le lezioni di storia parlavano da sole. Maria [Soro] incontrò subito non poca simpatia nel liceo medesimo in cui insegnavo io. La collega di filosofia dell'altra sezione non si adattava – come molti, soprattutto anziani – alla 'rivoluzionaria' riforma Gentile, per cui prendeva spesso lunghi congedi per motivi salute, e Maria la suppliva con molto successo. D'altra parte in città aveva preso subito a frequentare molto, anche per me, le eccellenti biblioteche pubbliche, per non dire della Biblioteca Filosofica a Palazzo Reale, col suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero, l'amico di Gentile e primo editore dell’Atto Puro, il bizzarro 'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto. Da lui andavano tutti, nel solenne Palazzo, dai membri della Real Casa, quando venivano a Palermo, al Cardinale Arcivescovo in occasione degli scambi di visite per le grandi festività.».
(Eugenio Garin, Una collaborazione lunga una vita, p. 732. Garin sposò Maria Soro, con rito civile, il 17 luglio 1930).
Ghirelli (1945)
«E' nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli [...] che i figli della piccola e media borghesia rurali, affluiti dalla provincia, si avviano allo studio dei codici. [...] Venuti in città con poco danaro, con molto desiderio di non tornare indietro, ossessionati dalle sordide condizioni di vita delle loro contrade d'origine, i giovani provinciali si buttano ad uno studio matto e disperatissimo. [...] In periodo fascista si recavano al Guf, con impegno, con una stupita serietà, per constatare che cosa ci fosse di vero in quello che dicevano i giornali, e quasi sempre vi si attaccavano, adibiti ai lavori più noiosi, più puntuali. [...] Vanno vestiti male, e non usciranno mai, prima della laurea, dal quartiere in cui hanno trovato la stanzetta sempre in generale intorno all'Università, nella vecchia Napoli greca dei notai, dei librai, dei negozi musicali, la Napoli di Giambattista Vico. Le ore migliori le passano alla Biblioteca Nazionale, accanto al Palazzo Reale, o in quella dell'Università. Là, nei libri che studiano e meditano con la serietà dei contadini, si sentono l'aristocrazia del mondo, non più ridicoli come nei loro abiti, o gretti e affamati come nei loro ammezzati. Alla laurea costellata di trenta si trovano spauriti, ormai fuori dall'Università, fuori spesso dal sussidio del padre dal paese, sbattuti in un mondo di gente furba e maligna che si prende gioco del loro accento e dei loro pantaloni troppo corti.»
(Antonio Ghirelli, Gli avvocati a Napoli, «Il Politecnico», n. 6 (3 nov. 1945), p. [6]).
Ginzburg - Prosperi (1975)
«Ma al Crispoldi in questo momento B. [A. e B. sono i due autori del libro] non pensava affatto. Cercava testi sull’ampiezza della misericordia di Dio. Il De amplitudine beati regni Dei del Curione lo portò al Trattato... della divina misericordia (1542) del carmelitano Marsilio Andreasi, che dello scritto del Curione era stato in un certo senso l’ispiratore. Trovò il libretto dell’Andreasi nella Biblioteca Casanatense di Roma, legato con altri due scritti anonimi: una Pratica de li sacramenti (1534) e un testo mutilo del frontespizio, il cui titolo corrente suonava Del perdonare (1537). Una rapida scorsa a quest’ultimo gli diede l’impressione di trovarsi di fronte a uno scritto importante. Chi ne era l’autore? qual era il titolo completo? quale il suo significato?»
(Carlo Ginzburg - Adriano Prosperi, Giochi di pazienza, pp. 14-15)
«Andammo nella biblioteca dell’Archiginnasio a ricontrollare le due edizioni del Compendio (marzo e giugno 1544). Risultò che la scrupolosità del Catarino era grandissima. Ogni volta che la citazione era introdotta dalle parole «dice che...», il testo confutato era citato letteralmente. Tanto più significative erano qui le diversità tra le citazioni del Compendio e i passi corrispondenti del Beneficio. A quella già emersa nella relazione se ne aggiunsero altre minori.»
(Ivi, p. 35)
«Continuammo dunque a battere archivi e biblioteche alla ricerca del proto-Beneficio. L’ipotesi era che, se questo testo era mai esistito, ne fosse rimasta una copia manoscritta. Il Kristeller segnalava nel suo Iter italicum un esemplare manoscritto del Beneficio conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze: si trattava del testo dato alle stampe o del proto-Beneficio? Un controllo eseguito da A. mostrò che la prima alternativa era quella giusta. C’era poi un misterioso accenno di C. Cantù all’«originale» del Beneficio, che sarebbe stato conservato presso la Biblioteca della Minerva di Roma. Ma una ricerca compiuta da B., di questo fantomatico «originale» non diede frutto.
Provammo alla Biblioteca Palatina di Parma: i manoscritti di Ludovico Beccadelli qui conservati avevano già fornito al Bozza notizie importanti sulla prima circolazione del Beneficio. Ma non trovammo niente di rilevante al di là delle testimonianze già note. Una di queste era la lettera di un corrispondente del Beccadelli, Scipione Bianchini, datata Bologna 28 ottobre 1543, in cui si diceva: «Ho ritrovato il Beneficio di Christo stampato già la seconda volta, ma non senza qualche rumore e suspicione di novità: ve ne mando uno». Tornando stanchi e delusi da un ennesimo infruttuoso viaggio a Parma, cominciammo a discutere su come dovesse intendersi questo passo.»
(Ivi, pp. 66-67)
«Tornammo a Bologna e ci mettemmo in caccia di benedettini – e di pelagiani. Non partivamo da zero. Nel corso dell’estate A. aveva raccolto una serie di testi sul tema dell’ampiezza della misericordia di Dio; un paio d’anni prima B. aveva radunato testimonianze di un ancora fantomatico «pelagianesimo» cinquecentesco. Unificammo gli incartamenti e cercammo di estendere la ricerca, spartendoci il lavoro. A. si incaricò di fare uno spoglio dei repertori benedettini (Armellini, Ziegelbauer...); B., dello Short-Title Catalogue dei libri italiani stampati prima del 1600, conservati al British Museum di Londra. Elaborammo a tavolino una rete a maglie fitte, in grado di trattenere il maggior numero possibile di scritti apparsi in Italia tra la fine del Quattrocento e il 1570 in materia di misericordia di Dio, libero arbitrio, predestinazione e temi affini. [...]
Ancora una volta lavoravamo con strumenti estremamente grossolani. Ma in questo caso si trattava di una scelta deliberata. La natura stessa del terreno ce l’imponeva. Cataloghi adeguati mancavano nella maggior parte delle biblioteche italiane. Il materiale di cui andavamo in cerca era disperso e non studiato. L’Introduzione di don Giuseppe De Luca all’«Archivio italiano per la storia della pietà», discutibile finché si vuole, era rimasta un libro dei sogni. In questa situazione di fatto non ci rimaneva che riconoscere la nostra totale ignoranza – a patto però di rifiutare nello stesso tempo la selezione del materiale precostituita dalla storiografia che ci aveva preceduto. Anziché partire dall’idealistica «storia del problema», bisognava rifarsi alla documentazione nella sua disordinata casualità. [...]
Passando davanti ai palchetti delle cinquecentine possedute dalla biblioteca arcivescovile di Bologna, un giorno A. estrasse a caso un gruppetto di volumi, e si mise a sfogliarne uno in volgare stampato a Venezia nel 1494. S’intitolava El nobile tractato de la patientia, utilissimo ad ogni stato. [...] L’anonimo autore era il francescano Domenico Cavalca, e il Nobile tractato de la patientia era uno dei suoi scritti più noti e diffusi. Se fosse partito dal vecchio (e ancora non sostituito) catalogo ottocentesco della biblioteca, dove il testo era debitamente registrato sotto il nome del Cavalca, A. non sarebbe caduto in questo grossolano errore. [...]
In una miscellanea di catechismi della Biblioteca Vaticana, B. trovò legato un Ricordo di fare il transito felice della morte, che concludeva il confessionale del minorita milanese Francesco da Mozzanica (1510). Anche qui si parlava di disperazione, di misericordia di Dio: [...]
Ma un testo come il Libro devotissimo della misericordia de Dio (1525) andava ancora più in là». B. aveva trovato anche questo nella Biblioteca Vaticana, frugando il catalogo alla voce «Libro» – ovvia per una ricerca su testi anonimi di pietà in volgare.»
(Ivi, pp. 124-126)
«Ma insomma, era significativo che di predestinazione si parlasse in quegli anni, non solo in ambito filosofico tecnico, ma anche in testi volgari di carattere letterario o addirittura edificante. Era il caso di uno scritto come L’heremita, overo della predestinatione, di Marco Mantova Benavides. B. ci arrivò attraverso un errore del catalogo della biblioteca dell’Archiginnasio. Stava passando in rassegna tutti i «Marco» per rintracciare un Marco da Brescia benedettino saltato fuori dal repertorio dell’Armellini. L’heremita figurava come opera di «Marco da Mantova» – mentre tutti gli altri scritti del Mantova Benavides erano catalogati correttamente sotto «Benavides».»
(Ivi, p. 129)
«In confronto a questo linguaggio e a queste preoccupazioni umanistiche in tema di predestinazione, un testo come Uno libretto volgare con la dechiaratione de li dieci comandamenti, del Credo, del Pater Noster, con una breve annotatione del vivere christiano... (1525), segnava uno stacco nettissimo. A. lo aveva trovato, qualche anno prima, nel fondo Guicciardini della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, durante una ricerca sui catechismi cinquecenteschi.»
(Ivi, p. 131)
«Le complicate vicende che portarono alla stampa del De libero hominis arbitrio del benedettino bresciano Gregorio Bornato sembravano confermare l’ipotesi di un clima misto di censura e autocensura all’interno della congregazione cassinese. Il titolo, insieme al mero nome dell’autore, erano saltati fuori dalla lettura dello Short-Title Catalogue, con una data di stampa (1571) che esorbitava, sia pure di poco, dai limiti cronologici che ci eravamo prefissi. Un controllo diretto dell’opera, sulla copia conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio, riservò due sorprese: lo scritto risaliva a una generazione prima, e il suo autore era un benedettino bresciano.»
(Ivi, p. 143)
«Ma il tentativo di delineare un filone benedettino nell’ambito delle discussioni sulla grazia e il libero arbitrio non deve nascondere il fatto che a questa data – 1540 – esse coinvolgevano ambienti molto più ampi. L’anno prima, per esempio, era stato stampato a Genova un Dyalogo del maestro e del discepolo del cappuccino Antonio da Pinerolo, ristampato a Firenze nel 1543. Sfogliando il catalogo della Biblioteca Universitaria di Bologna alla voce «dialogo», A. trovò per l’appunto questa seconda edizione (la prima risultò irreperibile). [...]
Cercavamo il bosco, e c’eravamo dentro, proprio nel fitto. Di tutti gli alberi in cui ci eravamo imbattuti, il Dyalogo del maestro e del discepolo era – al di là delle differenze, riconducibili ai rispettivi generi letterari – quello più simile al Beneficio. Ma quanti altri ce n’erano, nascosti nelle biblioteche?»
(Ivi, pp. 153-155)
«Per tutto l’autunno avevamo continuato a lavorare in biblioteca raccogliendo testi; nel gennaio (1973) decidemmo di fare un’ulteriore spedizione archivistica. Il punto di partenza era questo. Un paio d’anni prima B. aveva trovato, sfogliando il catalogo della Biblioteca Nazionale di Roma alla voce «trattato», un Tratatto (!) della elettione et degli eletti di Dio mandato al Rev.mo Carl di Mantova alli XXIII di genaro 1546 (segnatura: 71.2.E.17[2]). Si trattava di un manoscritto anonimo, legato con una Corona beate Marie Virginis a stampa, priva di indicazione di luogo e di data.»
(Ivi, p. 164)
«La stesura dell’articolo era ormai quasi finita. Tuttavia, l’esito positivo del viaggio a Mantova ci indusse a tentare qualche ulteriore sondaggio in archivi e biblioteche. A Milano, tra le carte di Carlo Borromeo conservate alla Biblioteca Ambrosiana, cercammo altre testimonianze sulla repressione (già studiata da D. Maselli) della «setta giorgiana» nella congregazione cassinese attorno al 1568. Ma non emerse niente di nuovo [...] A questo punto B. tornò alla carica con il Trattato della elettione, il cui autore rimaneva nonostante tutto anonimo. B. tentò il colpo grosso: e se fosse stato Benedetto Fontanini? [...] Ancora una volta, si poteva far leva sulle aggiunte marginali, presumibilmente di pugno dell’autore, del Trattato della elettione, e confrontarle con gli autografi rimasti di Don Benedetto. Il Caponetto, nella raccolta di documenti posta in appendice alla sua edizione del Beneficio, ne elencava tre, tutti dell’anno 1545, tratti da un registro di atti amministrativi di Santa Maria di Pomposa conservato alla Biblioteca Ariostea di Ferrara. Il Menegazzo, che li aveva scoperti, notava che, rispetto alle altre pagine del fascicolo, queste apparivano vergate da una persona di cultura. L’edizione del Caponetto non comprendeva una riproduzione in facsimile di questi autografi, ma la prospettiva di recuperare all’autore del Beneficio uno scritto tutto e soltanto suo valeva bene un viaggio a Ferrara. Qui il direttore dell’Ariostea, Luciano Capra, distrusse con molta gentilezza le avventate speranze di B. Le due mani apparivano diverse: il Trattato della elettione continuava a rimanere senza autore e don Benedetto l’autore di un unico (o meglio di mezzo) libro.»
(Ivi, pp. 176-177)
Ginzburg, Carlo (1995)
«Ricordi il tuo primo incontro con la biblioteca?
Vengo da una famiglia che per mestiere, per lavoro, aveva a che fare con i libri. In realtà mi sono trovato a crescere in mezzo ai libri. La mia familiarità con i libri affonda [le] sue radici nell'infanzia, quasi. Anche quando eravamo al confino, quindi nel periodo al quale risalgono i miei ricordi primi – eravamo vicino all'Aquila –, avevamo a disposizione un nucleo di libri, probabilmente non molti. Poi, della casa di Torino, ricordo i libri di mio padre, che adesso sono in parte nella mia biblioteca, e quelli di mia madre; quindi c'è questo elemento, diciamo, di continuità familiare, come uno che fa il falegname in un ambiente di falegnami. Cercando di ricordare invece la prima biblioteca pubblica in cui sono entrato, probabilmente al liceo mi sarà capitato di andare una volta, ma per un momento, alla Biblioteca nazionale, a Roma. Ma il momento in cui ho veramente cominciato a usare i libri non è stato al liceo, bensì all'università. Diciamo la verità, una volta non si usava tanto fare ricerche in biblioteca, io credo di non averne mai fatte, quindi è stato proprio all'università, cioè a Pisa, che ho cominciato a frequentare le biblioteche e si trattava pertanto di biblioteche pisane, la Biblioteca della Scuola normale, e la Biblioteca universitaria.
[...] Che cosa si aspetta Carlo Ginzburg dalle biblioteche e in particolare da quelle di ricerca?
Devo dire che ho una esperienza varia di biblioteche, come è abbastanza ovvio per uno che fa il mio mestiere e, dato che negli ultimi anni ho insegnato per sei mesi all'anno a Los Angeles, e già prima, da alcuni anni, mi era capitato di recarmi in America, ho un'esperienza abbastanza continuata anche di biblioteche americane. In fatto di biblioteche i miei gusti sono estremamente larghi, nel senso che, ad esempio, io che pure ho grande riluttanza nei confronti di tutto quel che è tecnologia – sono, per dirne una, un pessimo guidatore di automobili – ho imparato ad apprezzare le delizie del catalogo computerizzato di Ucla, un sistema che si chiama Orion. Nello stesso tempo mi sono battuto, perdendo la mia battaglia, per la conservazione del catalogo a schede: vi si trovano delle informazioni che pare siano andate distrutte. Una volta uno studente mi ha spiegato, cosa magari banalissima, che un catalogo computerizzato, specialmente se usato in modo improprio, permette di ottenere dal computer risposte che in teoria esso non sarebbe in grado di dare, e allora trovo che la combinazione di catalogo computerizzato e accesso diretto ai libri ("open stacks library") sia formidabile: è una cosa che fa progredire la ricerca con una velocità straordinaria, è come avere lo stivale delle sette leghe. Nello stesso tempo io amo moltissimo una biblioteca come l'Angelica, in cui c'è, perché lì per fortuna l'han tenuto, quel magnifico catalogo settecentesco e una classificazione per materie di per sé straordinaria, che indubbiamente non potrebbe essere sostituita se non con un danno, cioè con una perdita di informazioni, da una sistemazione di carattere diverso. Io in qualche modo sarei per conservare tutte le sistemazioni, nel senso che conserverei tutti gli stadi storici della catalogazione e della classificazione dei libri nelle biblioteche, trovando, beninteso, dei compromessi a livello pratico. Qualche volta ho l'impressione che il progresso tecnologico tenda a far fare dei passi avanti, ma anche a perdere delle informazioni. Vorrei far osservare una cosa curiosa: da tempo, direi da sempre, o forse dai tempi di Aristotele, che pure padroneggiava apparentemente tutto lo scibile, c'è una sproporzione fra il singolo ricercatore e la massa delle informazioni. All'entrata di ogni biblioteca dovrebbe essere scritto: "Ars longa, vita brevis". Si tratta di una sproporzione necessaria. [...]
Esiste la biblioteca "ideale" di Carlo Ginzburg?
La biblioteca ideale per me rimane la British Library, certo nella sua forma attuale destinata a scomparire, quella forma straordinaria – è un peccato che si perda – la cui forza è rappresentata dai suoi cataloghi straordinari. In America, una biblioteca che amo particolarmente, che ha, tra l'altro, il vantaggio degli "open stacks", è una biblioteca dell'Università di Chicago, la "Joseph Regenstein". Anche quella di Ucla, dove sono abituato a lavorare, è una biblioteca eccellente.
Sbaglio, o ti piacciono le biblioteche di grandi dimensioni?
[...] Ho una visione, starei per dire dongiovannesca delle biblioteche, perché in fondo, come a Don Giovanni piacevano tutte le donne, a me piacciono tutte le biblioteche, nel senso che anche la biblioteca più brutta ha degli elementi di fascino e può riserbare una prospettiva di ricerca imprevedibile, un incontro con un libro che non si conosce.
Quali sono gli elementi che ti creano disturbo, delusione nelle biblioteche italiane?
Molto semplice: la maleducazione dei lettori, molto diffusa, e la maleducazione, certo molto più rara, o la scarsa collaborazione dei bibliotecari. Capita ancora di incontrare dei bibliotecari che vedono i lettori come scocciatori; mi pare di poter dire che negli archivi italiani questo non succede.
Cosa ti piace di più nelle biblioteche americane?
Gli scaffali aperti sono una grande risorsa, solo in parte sostituiti in Italia dalle sale di consultazione, che sono un'altra cosa. Ad esempio la Biblioteca Vaticana aveva una bellissima sala di consultazione, ce l'ha ancora, ma gli eccessivi "svecchiamenti", secondo l'idea in parte erronea che i libri più recenti sostituiscano i vecchi, purtroppo tendono a peggiorare la qualità dei vecchi apparati di consultazione. Maggior rispetto per i libri, scaffale aperto e cataloghi computerizzati, questi tre elementi combinati insieme in parte giustificano la buona fama delle biblioteche americane.»
(Rino Pensato, "E v’han libri d'ogni grado / D'ogni forma, d'ogni età", p. 42-45).
Carlo Ginzburg ha approfondito l'esperienza di utente della UCLA Library di Los Angeles e del suo catalogo nel saggio: Conversare con Orion, «Quaderni storici», 36, n. 3 (dicembre 2001), p. 905-913.
Ginzburg, Carlo (2001)
«Orion (pronunciato all’inglese, Oraion) è il nome del programma su cui si basa il catalogo on-line della Research Library della University of California at Los Angeles (UCLA). Per estensione, Orion – oggi sostituito da una versione che pretende di essere più progredita, Orion 2 – ha finito col designare il catalogo stesso. In fatto d’informatica sono purtroppo un analfabeta. L’uso di Orion di cui parlerò si basa su pochi comandi elementari, forse usati in maniera impropria. Dico «forse», perché ho l’impressione che i cataloghi di una biblioteca (e quelli elettronici non fanno eccezione) siano stati pensati, da sempre, per permettere a coloro che li usano di trovare quello che cercano. Anch’io li uso così. Ma li uso anche molto spesso per uno scopo diverso, se non opposto: trovare ciò che non cerco affatto, anzi ciò di cui non sospetto nemmeno l’esistenza.
[...] Ignoro quanti studiosi passino una parte considerevole del loro tempo girovagando a caso nei cataloghi, elettronici o cartacei, delle biblioteche. Ma dato che faccio parte di questo gruppo, piccolo o grande che sia, proverò a spiegare le implicazioni e i possibili vantaggi di questo modo di procedere. [...]
Tre anni fa ho scritto un saggio su Voltaire che sarà presto pubblicato (Blacks, Jews, and Animals: Voltaire and the Eighteenth-Century Origins of Multiculturalism). Nel corso della ricerca provai a fare un piccolo esperimento. Scelsi un passo a caso, collocato quasi all’inizio del Traité de métaphysique di Voltaire. [...]
Per Voltaire e per i suoi lettori ogni parola di questo passo s’inseriva in una rete di riferimenti e di associazioni che ci è nota solo imperfettamente. Forse – pensai – il catalogo on-line della biblioteca di UCLA avrebbe potuto aiutarmi a identificare, per lo meno in via congetturale, qualche elemento meno noto di questa rete. Decisi di circoscrivere la ricerca partendo da un nome proprio, più precisamente dal nome proprio meno banale tra quelli ricorrenti nel passo: Cafrerie [...] Chiesi a Orion «fnt Cafrerie» e «fkw Cafrerie», ossia: cerca quali libri nel catalogo di UCLA presentino la parola «Cafrerie», sia nel titolo sia come nome d’autore (le sigle significano «find name and title», «find keywords»). In entrambi i casi la risposta fu: nessuno. Riprovai con la parola «Cafres». Sullo schermo apparvero 13 risultati. Quello più antico dal punto di vista cronologico era Jean-Pierre Purry, Mémoire sur le Pais des Cafres, et la Terre de Nuyts, par raport à l’utilité que la Compagnie des Indes Orientales en pourroit retirer pour son Commerce, Amsterdam 1718. Il titolo m’incuriosì, l’autore mi era perfettamente sconosciuto. Cercai il libro tra gli scaffali: si trattava di una fotocopia dell’edizione originale, legata con un altro testo, anch’esso in fotocopia, dello stesso autore, intitolato Second Mémoire sur le Pais des Cafres, et la Terre de Nuyts, Amsterdam 1718. Scorrendo le pagine del libro pensai che l’autore, senza dubbio un fautore dell’espansione coloniale europea, e quasi certamente un protestante, sarebbe stato un test ideale per la tesi di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Dalla comparsa del titolo del primo Mémoire sullo schermo di Orion saranno passati sì e no dieci minuti. Sono tornato a Voltaire. La possibilità che Voltaire potesse aver letto Purry mi era passata di mente. Non vedevo l’ora di mettermi a lavorare su Purry. La ricerca su di lui è andata avanti: un primo resoconto è uscito da poco, negli atti di un convegno sulla globalizzazione tenutosi a Istanbul. Sto lavorando a una versione più ampia, che spero diventi un breve libro.
[...] Il vagabondaggio dello storico attraverso i cataloghi (elettronici o cartacei) non è troppo diverso da quello di un fotografo che cammini per una città pronto ad afferrare in un’istantanea una realtà contingente e fuggevole. [...] E in ogni caso al riconoscimento di un tema di ricerca promettente (l’istantanea) deve necessariamente seguire il film: fuor di metafora, la ricerca.»
(Carlo Ginzburg, Conversare con Orion, pp. 905-908, 912)
Ginzburg, Natalia (1961)
«La zia Ottavia aveva una guancia rossa e l'altra pallida, come sempre quando s'addormenta in poltrona vicino alla stufa, con un libro della biblioteca «Selecta». [...] [p. 5]
Vado in città circa due volte la settimana, con una scusa o con l'altra: cambiare i libri alla biblioteca «Selecta», per la zia Ottavia; comprare, per mia madre, le matassine da ricamo e i biscotti d'avena; comprare, per mio padre, uno speciale tabacco da pipa di marca inglese.
Vado, di solito, con l'autobus, che parte a mezzogiorno e mezzo dalla piazza; e scendo in città a corso Piacenza, a due passi da via dello Statuto, dove c'è la biblioteca «Selecta». [...] [p. 16-17]
Ci incontriamo, il Tommasino e io, tutti i mercoledì in città.
Mi aspetta davanti alla biblioteca «Selecta». È là, col suo cappotto vecchio, un po' liso, con le mani in tasca, appoggiato al muro.
Mi saluta, portandosi la mano alla fronte e staccandola, con molle sussiego.
Ci vediamo solo in città. Al paese, evitiamo d'incontrarci. Lui vuole così.
E sono ormai mesi e mesi che ci incontriamo così, il mercoledì, sovente anche il sabato, a quell'angolo di strada; e facciamo sempre le stesse cose, cambiamo i libri alla biblioteca «Selecta», compriamo i biscotti d'avena, compriamo, per mia madre, quindici centimetri di gros-grain nero.
E andiamo in una stanza, che lui affitta, in via Gorizia, all'ultimo piano. [...] [p. 64]
Ora camminavamo giù per il sentiero. Reggevo nella rete i libri della biblioteca «Selecta», rilegati in azzurro. [...] [p. 70]
Camminavo, e mi veniva dietro; camminavo a caso, dondolando la rete coi libri.
– Dammi la rete, – disse, – te la porto io. Almeno potevamo lasciarla dal portiere di via Gorizia, questa maledetta rete. Non è stufa di leggere tanti romanzi, tua nonna?
– Non è mia nonna, – dissi, – è mia zia.
– Zia o nonna, – disse, – quello che è.
– Sai benissimo che è mia zia, – dissi. – Sei preciso come un impiegato del catasto, e hai una diabolica memoria. Hai detto così per farmi male.
– È vero, – disse, e rise. – Lo so che non è tua nonna, è tua zia. L'ho detto per rabbia, perché ho aspettato, e non mi piace aspettare.
– L'ho preso in odio, quel portoncino della biblioteca «Selecta», mentre ti aspettavo, – disse.
– Avevo paura, – disse, – che ti fosse successo qualcosa. Che stessi male, o che si fosse rovesciato l'autobus. [...] [p. 72]
Ero rientrata appena; e mangiavo, seduta al tavolo di cucina. Mia madre vuotava la rete sul tavolo, tirava fuori uno per uno i libri della «Selecta», guardava il frontespizio increspando le labbra.
– «La gatta sul tetto che scotta», – lesse. – Oh, povera bestia.
– E dov'è il lievito di birra? – disse. – Te ne sei scordata? [...] [p. 73]
– Anche la Schiuma d'Angelo, – disse la zia Ottavia, – non è altro che lievito di birra.
Era entrata, e s'era seduta in un angolo, sulle ginocchia i libri rilegati in azzurro.
– Lievito di birra, la Schiuma d'Angelo? ma sei matta, – disse mia madre.
– Andavano bene i libri che abbiamo preso? – disse il Tommasino.
– Ah ma siete stati insieme anche alla «Selecta»? – disse mia madre. – È una buona biblioteca, la «Selecta», si trova di tutto, anche romanzi stranieri. Mia sorella legge tanto, io non posso, non ne ho il tempo, sono troppo occupata con la casa, non sto mai ferma un minuto. E poi ho troppi pensieri, troppi dispiaceri, non riesco a perdermi in un romanzo. [...]
Disse: – Ci sono tante cose tristi nella vita. Perché leggere romanzi? Non è un romanzo, la vita? [...] [p. 75]
– Che bel giovane, – disse la zia Ottavia.
– Bello, sì. Dei figli del Balotta, è sempre stato il più bello, – disse mia madre.
Disse: – Ma com'è che t'è venuto in testa di portartelo dietro alla «Selecta»? [...] [p. 77]
– E così ora non sarà più bello nemmeno venire qui, – dissi. – Ora che ci siamo trovati là insieme, a casa mia, con i miei genitori, [...] mi sembra che non mi piacerà più trovarmi con te, qui, in questa stanza, e neppure cambiare con te i libri alla «Selecta», e neppure passeggiare con te al parco.» [p. 84]
(Natalia Ginzburg, Le voci della sera, romanzo, 1961. Anche se luoghi e nomi non corrispondono a luoghi e nomi reali, i brani riportati sono probabilmente ispirati alla conoscenza diretta di una biblioteca circolante commerciale di Torino)