LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Monti (1947)

«[Faustino] Curlo che sta cesellando a memoria un suo «sogno», Curlo che è in vena di buttar giù pagine su pagine della «Coppa», Curlo che è atteso a visitar la Commenda sulla collina del Pino, deve restar chiuso là dentro [nella Biblioteca nazionale di Torino], dalle 9 alle 12, dalle 15 alle 18 – le sue ore migliori – ad ascoltar la doglianza d'un collega sul mancato «scatto», a litigar con quella pettegola di studentessa che vuol per forza in prestito un libro «riservato», a «controllar» se le note d'accompagnamento dei librai rispondono al «contenuto»...? Ma figurarsi!»
(Augusto Monti, La corona sulle ventitre, p. 115. Curlo lavorò come sottobibliotecario alla Biblioteca nazionale di Torino dal 1898 al 1933, tranne alcuni periodi di aspettativa e brevi trasferimenti a Venezia e a Genova).

«Ma come quell'«albergo» non era cosa per Ser Ludovico [Ariosto] tanto inamena ch'egli non ne potesse ricavar materia per qualcuna delle sue «corbellerie», così il «servizio» non era per il Marchese Curlo cosa tanto «ripugnante» che egli non potesse desumerne argomento per qualcuno di quei suoi curiosissimi «sogni». [...] tra i «sogni» di Curlo uno ne ricordano gli amici, che [...] cominciava con una prodigiosa galleria di tipi, visti da Curlo e studiati alla Nazionale a Torino ne' suoi sì lunghi anni di «sottobibliotecariato».
L'altro sogno [...] lo si è potuto ricostruire fin nei particolari di su una lettera, serbata a noi, di Curlo a [Camillo] Franco, ma questo, ahimè, udito una sola volta da una piccola brigata di amici ancora in casa Pinelli, è svanito quasi tutto dalla memoria degli uditori; dei quali però nessuno ha dimenticato, pur dopo quell'unica audizione, quei «grotteschi» degni d'un Gavarni: il pensionato «treccanista» che attende con esasperazione il volume tot dell'Enciclopedia, in cui troverà certo spiegata la tal voce, fonte di tante discussioni e litigi e guai a casa al caffè al circolo; e il volume non viene mai; e quello si strugge; e quando viene... la sua voce non c'è. La signorina riccioluta che rincorre da anni l'opera fantasma; che certamente «esiste»; ma nessun distributore riesce mai a raggiungere; perchè una volta è in lettura, un'altra in prestito, un'altra in rilegatura, un'altra è spostata; quella strepita e scuote la zazzerina; ma l'opera non la raggiunge lo stesso. E l'indimenticabile Gandhista torinese, che si presenta all'ingresso della Nazionale ravvolto in un lenzuolo e scalzo, come il «maestro», e pretende d'entrar nelle sale con quei piedi nudi, e l'usciere, naturalmente, vi si oppone; e quello domanda perchè; e l'usciere, un meridionale, spiega: «La decenza – la descenza – signoria, la pulizia»; e la sfida del Gandhi: «Si scalzi anche lei, a veder chi li ha più puliti i piedi»; e l'allibito schermirsi del napoletano; e le didascalie di Curlo nel raccontar la scena in quel suo inimitabile torinese».
(ivi, p. 116-118).

««La signorilità grande del suo tratto, la sua offerentesi cortesia facevano di lui un elemento quanto mai decoroso del nostro Istituto»: è un collega che parla di Curlo; e meglio di così non se ne potrebbe dire. Il Marchese Curlo in Biblioteca «riceveva»: studiosi nostri, studiosi stranieri a lui erano affidati, Curlo diceva «rifilati»; Curlo, cosmopolita e municipale come un di quei nostri dotti nobili del Settecento, per gli studiosi sì nostrani che europei era il padron di casa ideale. Sapeva le lingue, non da lettore di Mitteilungen o di Reports o di Bulletins, ma da uomo di mondo: lo straniero con lui era a suo agio. Parlava il piemontese: il comprovinciale con lui era a casa sua. Storia di Torino, palazzi di Torino, storia del Piemonte, terre città castelli piemontesi, costumi piemontesi, grandi case piemontesi, origine, ramificazioni, trapassi, splendori e decadenze; Curlo era l'enciclopedia vivente, su tutto Curlo dava notizie, informazioni, indicazioni, senza opprimere il consulente, leggero garbato disinvolto e sorridente. Veniva uno straniero per non so che manoscritto o incunabulo o altra simile rarità dalla Nazionale posseduta, trovava in Curlo non «l'impiegato» che lo «serviva», ma il dotto che collaborava con lui, gli rimoveva ostacoli, gli risolveva difficoltà, lo faceva stupire per la sua sempre speciale preparazione e competenza. Se lo straniero ricercatore era uomo di cultura varia e diversa allora Curlo se lo traeva dietro, fuor dai recinti della biblioteconomia della bibliografia e della paleografia, agli orti dell'archeologia nelle sue più impensate applicazioni: tipografia, calligrafia, arte del ricamo, della rilegatura, del mobile, ai campi della pittura, architettura, della letteratura e della storia. L'ospite dimenticava il «motivo per cui», si distraeva dietro le coerentissime divagazioni di Curlo, ammirava stupiva, era «incantato» della conoscenza. Se, chiesta la lista delle opere di Curlo, ne riceveva in risposta un pittoresco suo gesto negativo, se interrogatolo sulla sua carriera non ne ricavava che un sorridente gesto di noncuranza, lo straniero tornava al suo paese pensieroso, «un uomo così da noi...», e là giunto narrava d'aver conosciuto di persona un «Italiano», uno di quei dotti dal candido e rinunziante animo francescano, il cui tipo fu fissato e diffuso per il mondo dall'autore del Crime de Silvestre Bonnard.
Invece l'ambulante studioso francese o tedesco o inglese o americano aveva conosciuto Curlo, il Marchese Curlo, il magnifico e un po' bizzarro signore ligure-piemontese, il quale, come le novelle, i «sogni», li componeva a memoria nei suoi ozi e li regalava post prandium agli amici, così le sue opere di varia erudizione le compilava a mente, e agli ospiti che riceveva ne' suoi domini le donava, come anelli tratti da uno scrigno, a suo souvenir, senza parere senza obbligare, senza bisogno di rispondergli «grazie».»
(ivi, p. 122-124).

Monti aveva iniziato a scrivere i suoi ricordi di Faustino Curlo subito dopo la sua morte, nel 1935, rivolgendosi anche a Cesare Pavese:

«Son tutte le vacanze che m'arrapino a distender quel necrologio del Marchese Curlo, che gli amici suoi han voluto accollare proprio a me: a un certo punto ci vorrei far entrare almeno in parte quel «sogno» che il Marchese narrò presente te pure, quello della biblioteca, con tutta quella galleria di tipi di avventori e impiegati: lo ricordi? ne ricordi questa parte? mi potresti di questa parte scrivere tutti i particolari che ricordi? Io uno solo son riuscito a ricostruire da me, quello del lettore che s'ostina a entrar in biblioteca vestito da Gandhi, avvolto nel lenzuolo e scalzo, e la sfida che lancia all'impiegato cav. Turiddu Locascio, di scalzarsi, a veder chi dei due abbia più presentabili quelle estremità. Se altri particolari siffatti tu mi puoi precisamente ricostruire, mi farai, ti ripeto, piacere.»
(Augusto Monti, lettera a Cesare Pavese, La Cordria 29 agosto 193, in: Augusto Monti nel centenario della nascita: atti del convegno di studio, Torino-Monastero Bormida, 9-10 maggio 1981, a cura di Giovanni Tesio, Torino, Centro studi piemontesi, 1982, p. 75-76. Il nome del custode è inventato).

Pavese non avrà però elementi significativi da aggiungere:

«Del sogno del Marchese Curlo ricordo appunto quanto lei; in piú, vagamente, un accenno ai lettori della Treccani, che ci lasciano dentro il moccio. E poi, mi pare, una scena di gelosia tra donne.»
(lettera a Monti, [Brancaleone] 11 settembre [1935], in Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1966, p. 435).

Morandi (1984)

«Per me il primo anno di università era stato molto importante e significativo: mi aveva aiutata a chiarire le mie idee, a fare una precisa scelta politica. Ora la mia avversione al fascismo era ben radicata e motivata da convinzioni ideologiche e sociali, non soltanto da vaghe aspirazioni alla libertà.
A trasformarmi in questo senso avevano contribuito i lunghi colloqui con una mia insegnante di filosofia, la lettura di opere di Croce e De Ruggiero, libri quasi introvabili in periodo fascista, e la conoscenza di compagni più maturi e preparati di me.
Dopo i primi timidi accenni per tastare il terreno, una volta rivelato il nostro modo di pensare, ci eravamo lasciati andare a sfoghi, a lunghe discussioni nei giardini di Piazza S. Marco o negli angoli dei corridoi della biblioteca di facoltà, guardandoci alle spalle timorosi di essere ascoltati da orecchi indiscreti (anche nell'università non mancavano le spie dell'OVRA).
Dopo qualche mese ero riuscita a conoscere e ad avvicinare gli antifascisti della facoltà di Lettere e mi sentivo orgogliosa di essere considerata «una di loro» da studenti degli ultimi anni che facevano parte di movimenti politici clandestini.»

(Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano, p. 14-15. Il ricordo si riferisce al periodo 1942-1943, prima del 25 luglio, a Firenze).

Morante (1937-1939)

«Fra l'altro, devo fare una tesi di laurea, perché mi sono impegnata e cosí con questo bel sole devo passare giorni interi in biblioteca. Sembra una sciocchezza, ma credi che è una gran noia – specie quando si dovrebbe pensare a tutt'altro come nel mio caso.»
(Elsa Morante, lettera a Luisa Fantini, [Roma], 12 maggio [1937], p. 50).

«Qui sto sempre sola, non ci sono che dei vecchi tedeschi. Ho trovato dei libri e leggo. E tu leggi? C'è una biblioteca a Lucca? penso di sí
(lettera a Luisa Fantini da Villa Ceselle, Anacapri, 13 febbraio [1939], p. 69. Luisa Fantini (1907-1984), artista e illustratrice, soprattutto di letteratura per ragazzi, viveva a Lucca).

Moravia (1929)

«Caro Morra,
Raggiunto Sorrento dopo breve viaggio – fa freddo, piove, mi annoio mortalmente – domani vedo i Benzoni (ma desiderano realmente vedermi?) – l’albergo è pieno di inglesi vecchi, se si eccettua una giovane signora o signorina che deve essere tisica e porta scarpe e borsa di marocchino rosso – ma è carina: soltanto sta tutto il giorno fissata nel bureau dove il padrone dell’albergo le suona il grammofono – c’è un’ottima biblioteca inglese e americana qui all’albergo: modernissima: Hemingway, Benét, Lewis etc etc – sto leggendo “The Sun also rises” by Hemingway – molto buono – stesso tono deluso, annoiato, esasperato in sordina di Eliot –».

(Alberto Moravia, lettera a Umberto Morra di Lavriano, [Sorrento febbraio/maggio 1929], p. 55-56. La testimonianza fa riferimento alla biblioteca del Grand Hotel Cocumella di Sant’Agnello di Sorrento).

Moravia (1936)

«Caro Mario,
[...] Qui leggo una quantità di libri italiani che pesco nella biblioteca della casa Italiana che ha 19.000 volumi – per far la conferenza mi sono riletto parecchi romanzi di Fogazzaro il quale era forse un boia ma il mestiere suo lo sapeva meglio assai dei romanzieri di oggi – e ho riletto Nievo e Verga – e molti altri – in conclusione la letteratura italiana certamente esiste però nessuno la legge neppure gli scrittori – da una parte c’è il pubblico che legge nulla o poco più dall’altra gli scrittori che leggono soltanto ciò che loro stessi scrivono – bella scoperta eh!».

(Alberto Moravia, lettera a Mario Pannunzio, [New York febbraio 1936], p. 307).

Moravia (1951)

«Il cappello in mano, togliendosi con l'altra gli occhiali neri dal naso e riponendoli nel taschino della giubba, Marcello entrò nell'atrio della biblioteca e domandò all'usciere dove si trovassero le collezioni dei giornali. Poi si avviò senza fretta per la larga scala in cima alla quale il finestrone del pianerottolo risplendeva della luce forte di maggio. [...] Al secondo piano, dopo aver riempito la scheda nell'ingresso, si diresse verso la sala di lettura, ad un banco dietro il quale stavano un vecchio usciere e una ragazza. Aspettò che fosse il suo turno e poi consegnò la scheda, chiedendo la collezione del 1920 del principale giornale cittadino. Aspettò pazientemente, appoggiato al banco, guardando davanti a sé verso la sala di lettura. Parecchie file di scrittoi, ciascuno con un lume dal paralume verde, si allineavano fino in fondo alla sala. Marcello osservò attentamente questi scrittoi scarsamente popolati per lo piú da studenti e scelse mentalmente il suo, l'ultimo nella sala, in fondo, a destra. La ragazza riapparve reggendo con le due braccia il grande fascicolo rilegato del giornale richiesto. Marcello prese il fascicolo e andò allo scrittoio.
Posò il fascicolo sul piano inclinato dello scrittoio e sedette, avendo cura di tirare un poco i pantaloni sopra il ginocchio; quindi, con calma, aprí il fascicolo e cominciò a sfogliarne le pagine. I titoli avevano perduto l'originaria lucentezza, erano diventati di un nero quasi verde; la carta era ingiallita; le fotografie apparivano sbiadite, confuse, senza rilievo. [...]
Ma non era per rassicurarsi che si era deciso finalmente a ricercare nella biblioteca la notizia del fatto avvenuto tanti anni prima. [...]
Provò un singolare sollievo e, forse, piú che sollievo, stupore accorgendosi che la notizia stampata sulla carta ingiallita di diciassette anni prima, non destava nel suo animo alcuna eco apprezzabile. [...]
Egli era veramente un altro, pensò ancora chiudendo pian piano il fascicolo e levandosi dallo scrittoio [...].
Senza fretta, andò al banco e restituí il fascicolo alla bibliotecaria. Quindi, sempre con la compostezza piena di misura e di vigore che era il suo atteggiamento preferito, uscí dalla sala di lettura e si avviò giú per lo scalone, verso l'atrio.»

(Alberto Moravia, Il conformista, p. 83-84, 86-88. La descrizione corrisponde alla Sala A della Biblioteca nazionale centrale di Roma, al Collegio Romano).

Biblioteca nazionale centrale di Roma - Collegio Romano - Sala A

Moravia (1960)

«Complessivamente la malattia mi fece passare circa cinque anni a letto. I primi tre anni di letto li passai a casa, gli ultimi due nel sanatorio Codivilla di Cortina d'Ampezzo. A causa della malattia feci studi brevi e irregolari, spesso interrotti, e riuscii a mala pena a conseguire la licenza ginnasiale, solo mio titolo di studio. In compenso lessi molto in quegli anni di forzata immobilità. Al sanatorio Codivilla mi abbonai al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Ricevevo un pacco di libri ogni settimana e leggevo in media un libro ogni due giorni. Intanto provavo a scrivere e scrivevo per lo più versi, bruttissimi versi. Nel 1925, guarito definitivamente, lasciai il sanatorio e mi trasferii a Bressanone.»

(Alberto Moravia, testimonianza per Ritratti su misura, p. 289).

Moravia (1978)

«In sanatorio avevo letto un libro al giorno: la biblioteca Vieusseux di Firenze, alla quale ero abbonato, mi mandava sette volumi ogni settimana, e all'arrivo del nuovo pacco avevo già esaurito il contenuto del precedente»

(Alberto Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo, p. 98).

I prestiti del Gabinetto Vieusseux sono ricordati anche dalla sorella maggiore, Adriana Pincherle:

«Senz'altro anche per me, leggere Tolstoj e Dostojevski è stato decisivo. Li ho letti nelle edizioni e nelle traduzioni attraverso le quali li ha conosciuti Alberto. Anzi, fu proprio lui ad insistere perché li leggessi. Quando Alberto era malato, mio padre lo abbonò al Gabinetto Vieusseux. Ci arrivavano in casa otto libri alla settimana. Alberto e io li leggevamo tutti. Da allora la lettura è stata, per noi, un fatto ineludibile, un bisogno che non conosceva dilazioni.»

(Stefano De Rosa, Ritratto d'autore: a colloquio con la pittrice Adriana Pincherle, ricordando Alberto Moravia, «Biblioteche oggi», 13 (1995), n. 3, p. 34-36: 35).

Morselli (1944-1968)

«24 gennaio 1944
Descrizione della «inconcludenza» di Saverio (e delle reazioni ch’egli a furia di volontà vi opponeva). [...] Certi atti, anche semplicissimi (cercare un libro nella biblioteca, scrivere una cartolina) finivano per divenirgli impossibili, e quasi circondati di un alone magico, ecc.»
(Guido Morselli, Diario, p. 50-51).

«14 luglio 1968
Finito oggi di leggere, in biblioteca, il Maestro e Margherita di Bulgakov. Ero curioso di farmene un’idea, dopo avere visto gli elogi entusiastici che gli hanno tributato scrittori come Moravia, Montale, Arbasino, ecc.»
(ivi, p. 321. Morselli si riferisce probabilmente alla Biblioteca civica di Varese, ma frequentò anche le biblioteche pubbliche di Milano e di Bergamo. Anche altre letture citate nel Diario, di opere che non risultano tra i libri che possedeva, avvennero presumibilmente in biblioteca).

Morselli (1974)

«La Gregoriana, «cerebrum Ecclesiae». È la prima volta che la conosco da vicino, non ne avevo mai visto altro che la biblioteca, che è aperta al pubblico.»

«Sono a Roma da quasi un anno. Alla ‘Gregoria’ conosco bene cinque o sei studenti, tutti oltre i trent’anni, quindi maggiori di me. L’ambiente è straordinariamente misto e non solo per le nazionalità, le vocazioni e destinazioni, o per le età, che vanno dai 25 ai 45. Ma per la tipologia assortitissima degli uomini che vi coesistono. La disciplina esteriore e il formalismo (specialmente tecnicistico) a cui questi uomini, più o meno, si piegano, non bastano a amalgamarli. Nelle nostre camere, nei ritrovi collegiali, cinema o mensa, emergono verticalità (incomunicazioni) vertiginose, e le ore di studio in biblioteca o in aula le restituiscono intatte. [...]
Sarà bene che io mi veda le opere, esistenti in biblioteca, sul G.I.D.M., o «God-is-dead Movement». Gli autori come Altizer o Van Buren, che dichiarano che «Dio è morto», non sono materialisti o scettici, sono buoni cristiani e appartengono alla direzione di chiese cristiane, compresa la cattolica.
Tali letture contengono un insegnamento, perché purificano la nostra religiosità, la rendono «più criticamente viva».»
(Guido Morselli, Roma senza papa).

Roma senza papa è il primo romanzo di Guido Morselli, apparso postumo nel 1974 a un anno dal suicidio dello scrittore. Nel libro, che ha come protagonista un giovane sacerdote svizzero (don Walter), il papa ha abolito il celibato ecclesiastico e abbandonato Roma per trasferirsi nella piccola località di Zagarolo. Nella testimonianza, il Vice-Rettore della Gregoriana propone a don Walter di leggere in biblioteca alcuni testi di Thomas J. J. Altizer e Paul van Buren, esponenti della cosiddetta corrente della Teologia della morte di Dio, movimento diffusosi in particolare negli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Muñoz (1960)

«Il trasferimento del Ministero degli Esteri da Palazzo Chigi, avvenuto in questi giorni, mi fa tornare in mente il ricordo degli anni lontani, anzi purtroppo lontanissimi, dei primi del Novecento, quando frequentavo la biblioteca appartenente alla nobile famiglia proprietaria del grandioso edifìcio barocco. A pensarci bene il verbo frequentare non è forse il più adatto, riferito alle mie apparizioni in quel luogo, perché la Chigiana era aperta soltanto la mattina del giovedì, dalle nove a mezzogiorno, e solo nella stagione invernale, ma per le festività che si incontravano con quel giorno, e più, come dirò, per l'assenza del bibliotecario, era accessibile sì e no, dieci o quindici volte all'anno. E per esservi ammessi occorreva naturalmente il beneplacito del proprietario, il gentilissimo principe D. Mario Chigi [...]. Bibliotecario, credo a titolo puramente onorario (cioè senza onorario!) era il pur vecchissimo Giuseppe Cugnoni, professore di letteratura latina alla Sapienza, che era stato in anni lontani magnifico rettore dell'Università. [...] Nei suoi ultimi anni, talvolta per non esporsi a raffreddori, faceva lezione in casa, e perfino stando a letto [...]. Per le stesse ragioni di salute alla Chigiana erano più i giovedì che non si faceva vedere, e dopo averlo atteso per una buona mezz'ora gli aspiranti lettori se ne tornavano mogi mogi giù pei cento gradini di una scala secondaria del palazzo: la biblioteca occupava l'altana che corona l'edificio. I lettori, per esser precisi, erano due soltanto: il sottoscritto, allora giovanissimo, ancora studente, e l'anziano professor Schmurlo [Evgenij Šmurlo], un dotto venuto per impiantarvi un istituto storico russo, autore, dicevano, di una pregevole storia del suo paese. Aspettando pazientemente ci sedevamo sui gradini, e io profittavo di quell'attesa per fare un po' di pratica della lingua russa che andavo allora studiando; il professore pazientemente correggeva i miei infiniti spropositi. Un tremolante usciere aspettava con noi; ma non poteva aprire la biblioteca finché Cugnoni non fosse arrivato. Quando già stavamo, rassegnati, per andarcene, sentivamo il passo dell'atteso bibliotecario, che saliva ansimando. Qualche rara volta il principe D. Mario veniva a salutare il professore suo coetaneo. [...]
Io nella Chigiana, che è ricca di inestimabili tesori, mi interessavo dei codici miniati, dei quali pubblicai un catalogo nella parigina «Revue des Bibliothèques» (ott.-dic. 1905). Ce ne sono, come è noto, di bellissimi; prezioso quello trecentesco delle Cronache di Giovanni Villani, allora non conosciuto, illustrato da 252 miniature; e un gruppo di codici miniati del sec. XI, provenienti dalla celebre abbazia benedettina di Farfa. Mirabile è il Messale delle sei messe, con miniature a piena pagina, su fondo purpureo, col rovescio del foglio dorato, opera di artisti senesi, della fine del Quattrocento. Molti manoscritti provengono dalla biblioteca di Pio III. Potei fotografare, e pubblicai in un volumetto sui Codici greci miniati delle minori biblioteche di Roma, le miniature di due codici bizantini, una Catena dei Profeti del sec. XI, e un Dioscoride del XV.
Un brutto giorno ci fu comunicato che la biblioteca per molto tempo resterebbe chiusa. Don Mario Chigi era morto, e il nuovo principe, Don Ludovico, era in trattative per vendere la biblioteca all'Istituto Storico Prussiano, che si impegnava a mantenerla in Roma, ammessa però al regolamento delle biblioteche tedesche; il che voleva dire che a un certo momento a Roma potevano rimanere gli scaffali, e i volumi trovarsi in prestito in Germania. Il Vaticano fece sapere che non gradiva questa combinazione; tra l'altro c'erano nella biblioteca molte carte relative al pontificato di Alessandro VII, il papa Chigi. Don Ludovico, Maresciallo del Conclave, rinunciò alla vendita. La biblioteca si riaprì, ed io potei studiarvi allora molte carte relative al Bernini e ai progetti di abbellimento di Roma di quel pontefice.
Quando poi [nel 1918] il palazzo fu acquistato dal Governo che vi insediò il Ministero degli Esteri, fu compresa nell'acquisto la biblioteca, che venne aggregata alla Casanatense. Ricordo la gioia del bibliotecario della Casanatense, il dinamico Ignazio Giorgi, quando poté ricevere quel materiale prezioso. Ma la gioia fu di breve durata! In omaggio al pontefice bibliotecario, il nostro Governo fece dono al Vaticano della raccolta chigiana, considerata come biblioteca papale, e Pio XI, benché fosse ancora lontana la Conciliazione, accolse con piacere il magnifico omaggio; mi pare che ciò avvertisse nel 1923.»

(Antonio Muñoz, Biblioteca Chigiana, «Almanacco dei bibliotecari italiani», 1960, p. 195-197).

Musatti (1982)

«Debbo anzi tutto dire qualche parola su questo ambiente che ci ospita per la nostra inaugurazione del Centro psicoanalitico veneto: sono parole che sgorgano dai miei lontani ricordi adolescenziali. Perché proprio in questi locali della Biblioteca Querini Stampalia, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, diciamo dal 1911 al 1915, io mi son fatto la mia cultura di base. Venivo qui, dopo la scuola, al Liceo Marco Foscarini, in fondamenta S. Caterina; e trovavo a mia disposizione tutto ciò che in campo scientifico, letterario e filosofico, la scuola assolutamente non mi offriva.
Con me frequentavano allora queste sale Nino Valeri, lo storico, nipote del poeta Diego, Gigi Pancrazi, fratello di Pietro, e nel '15, quando l'Austria era già in guerra, alcuni triestini profughi, come i fratelli Slataper.
Mi trovo dunque in una specie di mia vecchia casa. Dicevo che qui attinsi gli elementi fondamentali per la mia formazione culturale: oltre alla conoscenza di contemporanei di casa nostra, come Croce, gli scrittori del gruppo della Voce, le pubblicazioni della Cultura dell'anima, dirette da Papini, e dei logici e matematici, come Vailati e Enriques, ebbi qui accesso a molte opere straniere, che si pubblicavano allora, e che altrove qui a Venezia non si trovavano: quali i Cahiers de la quinzaine, con gli scritti di Péguy, Romain Rolland e Daniel Halévy, le Pièces plaisantes et déplaisantes, di Bernard Shaw, tradotte in francese ma non ancora in italiano. Così pure opere scientifiche, quali gli scritti di Henri Poincaré, e i lavori sui fondamenti della matematiche di Bertrand Russell.
Mi scuso, se non ho potuto fare a meno di questo cenno a carattere personale, perché verso la Querini Stampalia ho, da ben oltre sessant'anni questo debito di riconoscenza».

(Cesare Musatti, La psicoanalisi nel Veneto, «Rivista di psicoanalisi», 28 (1982), n. 1, p. 83-87: 83-84. Discorso tenuto alla Biblioteca Querini Stampalia il 25 aprile 1981. Questa testimonianza è stata ripubblicata nel volumetto commemorativo Cesare Musatti, Venezia, Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1989, p. 67-68).

Muscetta (1942)

«Caro Pavese,
ho sistemato il caso Angelini: l’analisi della traduzione dei Vangeli [I Vangeli nella traduzione di Niccolò Tommaseo, a cura di Cesare Angelini, Torino, Einaudi, 1949] con qualche lieve ritocco l’ho posposta. Andrà in calce alla prefazione, corpo otto tondo; ma trattandosi di cosa diversa dalle solite note e non essendo il caso di mettere la solita pappolata biobibliografica, anche questa nota sarà firmata con le semplici iniziali del nostro amabile raffinato don Angelini.
Resta la faccenda del testo. Tutti così, questi preti troppo letterati, scansafatiche! [Ermenegildo] Pistelli non si diede pena di attenersi per la sua ristampa all’ultima edizione curata dal Tommaseo e uscita postuma nel 1873 (Ranieri Guasti, Prato) [I santi Evangeli, col comento che da scelti passi de' padri ne fa Tommaso d'Aquino [traduzione di N. Tommaseo], Prato, per Ranieri Guasti, 1873]. Ora noi non possiamo ripetere lo stesso scherzo da prete e uscircene con l’espediente non meno pretesco usato dall’Angelini (vedi prime righe della prefazione).
Conclusione: occorre fare eseguire un riscontro da un attento correttore con l’edizione sullodata, che tu cortesemente procurerai vuoi a Torino vuoi a Firenze (nelle rispettive Biblioteche Nazionali). Mi rincresce darti questa noia; ma solo a te devo darla. E Matteo, come ben sai dice di dare a Cesare quel che è di Cesare. Il caso di un Cesare prete non lo previde.»
(Carlo Muscetta, lettera a Cesare Pavese, Roma 7 novembre 1942, p. 23.)

Muscetta (1992a)

«Com’era bello quel palazzo della vecchia Avellino, dov’era insediata la nostra scuola, nella «terra» (come ancora si diceva il centro, con antico vocabolo). Intatti erano allora tutti i barocchi monumenti che il principe innovatore, Marino Caracciolo, aveva affidati a Cosimo Fanzago, il prestigioso architetto e scultore napoletano del Seicento, che si ritrasse nell’obelisco eretto all’effimero Carlo II d’Austria (vulgo, «il re di bronzo»), nella piazza della Dogana, per destino vetustate collapsam, e allora adibita a garage.
Opposto itinerario seguivo invece negli anni seguenti per recarmi a scuola nel rialzo di San Francesco, sulla piazza della Libertà, non ancora scempiata dall’urbanistica del fascismo e dai ricostruttori altrettanto rozzi del secondo dopoguerra. In prospettiva, l’ampio corso si prolungava verso il Viale dei Platani e la via che mena a Napoli. A destra, dominante, il neoclassico palazzo Ferrara, col risorgimentale Caffè Roma, e poi la sede del tribunale e della biblioteca [Provinciale di Avellino] (una delle più ricche, fra quelle provinciali, coi suoi fondi pregiatissimi, donati dai colti bibliomani Scipione e Giulio Capone, con l’emeroteca Tozzoli e con le raccolte di letteratura dantesca e di narrativa francese, lascito del romanziere Carlo Del Balzo).»

(Carlo Muscetta, L'erranza, p. 59-60)

Muscetta (1992b)

«Purtroppo ho sperimentato le difficoltà di chi studia lontano dalle grandi biblioteche nazionali quando preparai per i «Classici italiani» della Sansoni l’antologia degli scrittori del ‘400, che tuo padre [Luigi Russo] mi affidò in sostituzione di Natalino Sapegno, renitente all’invito.»
(Carlo MuscettaL'erranza, p. 110)

«A Pescara ormai mal sopportavo la vita di provincia, soprattutto per la mancanza di una biblioteca adeguata, che mi fece sentire ardue difficoltà lavorando ai Classici italiani di [Luigi] Russo. Un trasferimento a Firenze o a Roma risultò impossibile. E per questo decisi di partecipare ai littoriali. Fu una seconda scelta dissimulatrice, per poter attendere agli studi e non finire la mia esistenza in provincia.»
(Ivi, p. 128)