LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Pontiggia (1993)

«Veniamo ora al suo rapporto con l'istituzione biblioteca. In particolare, dalla sua frequentazione delle biblioteche pubbliche quali impressioni e ricordi ha tratto?

Le ho frequentate molto fino a qualche tempo fa. Andavo alla Sormani. Adesso non potrei permettermelo per motivi di tempo. Comunque alle biblioteche pubbliche devo moltissimo. Mi ricordo da giovane, avevo diciassette anni, nel 1951 e lavoravo in banca. Andavo sempre alla Biblioteca del Castello a leggere. Per me stare in quei locali era come vivere un'esperienza magica, quasi di sdoppiamento. Stando lì avevo l'illusione che la giornata in banca si cancellasse e avevo l'impressione che l'esperienza vera fosse quella che vivevo in biblioteca. Andavo, normalmente, d'estate. Mi ricordo, in particolare, un periodo in cui mi recavo tutti i giorni alla Biblioteca del Castello per leggere la storia dell'impressionismo del Rewald, pubblicata da Sansoni e curata da Longhi, un libro abbastanza consistente, che ho letto in una settimana. Per me era una gioia ritornare il giorno successivo e riprendere la lettura, anche perché quella storia ti faceva partecipare alla vita degli impressionisti, di seguirla quasi giorno per giorno. Avevo una sensazione di felicità nell'entrare in un mondo, in un'epoca. Usufruivo anche del servizio di prestito delle biblioteche di quartiere, però mi piaceva moltissimo stare in biblioteca perché leggevo in condizioni ideali, con un senso di intimità molto forte, nonostante ci fosse sempre un po' di movimento in sala. Mi sentivo come in un acquario, con una sensazione di raccoglimento e di concentrazione.
[...]
Mia madre ricordava sempre un episodio del 1945. Io avevo undici anni ed eravamo a Santa Margherita Ligure. Subito mi ero iscritto alla biblioteca comunale. Ne ero uscito con un libro logoro che portavo sottobraccio, come fosse una reliquia. L'avevano divertita il mio modo di camminare curvo per non sciupare il libro, quella delicatezza, quella cura che si intuiva nei miei gesti.

La sua attività di scrittore e conferenziere la porta in giro per città grandi e piccole. Avrà, dunque, avuto modo di conoscere molti tipi di biblioteca. Cosa ne pensa delle biblioteche pubbliche di oggi?

Ne ho viste molte negli ultimi tempi, perché le conferenze e i laboratori sul leggere e sullo scrivere, che tengo da anni, spesso si svolgono proprio in biblioteca. Le ho trovate accoglienti, con i libri a disposizione e senza troppa burocrazia per accedere al prestito. Mi pare sia molto migliorato il servizio nei piccoli centri. Mi hanno colpito molto i locali non oppressivi, ben illuminati, ariosi, dove i giovani possono trovarsi a loro agio, dove leggono e studiano, perché si trovano bene.

La sua specifica esperienza all'interno del mondo della scuola le avrà dato modo di conoscere anche la realtà delle biblioteche scolastiche? Che giudizio ne dà?

Quando le ho frequentate sono rimasto colpito dai libri che contenevano, però non ne ho approfittato perché il sistema di prestito lo trovavo troppo tortuoso e burocratico. Questo non succedeva nella biblioteca pubblica, così preferivo quest'ultima a quella scolastica. Poi ho vissuto il problema dall'interno quando sono stato vicepreside, nel 1967, all'Istituto d'arte di Monza. Lì mi sono reso conto che le biblioteche scolastiche potrebbero svolgere un ruolo assai importante sia per l'editoria, nel senso che potrebbero acquistare libri di cultura e aiutare le iniziative di natura non commerciale, sia nello studio, perché potrebbero concorrere in maniera determinante alla formazione degli studenti. Ho avuto però l'impressione di una certa casualità negli acquisti, nonché di uno scarso impiego delle risorse. Durante quell'esperienza mi sono reso conto che se non si compravano i libri entro un certo periodo i fondi stanziati ritornavano allo Stato. Così le scuole avevano a disposizione somme per l'acquisto dei libri e non ne approfittavano. Forse adesso la situazione è cambiata. Speriamo.»

(Fulvio Panzeri, Un appartamento di ventottomila libri [intervista], p. 47-48).

Pound (1935)

«My hotel-keeper [in Rimini] was also Comandante della Piazza, we had got better acquainted by reason of his sense of responsibility, or his interest in what I was doing. The local librarian had shut up the library, and the Comandante had damn well decided that if I had taken the trouble to come to Romagna to look at a manuscript, the library would cut the red tape.»

(Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini, p. 26-27. L'episodio a cui Pound si riferisce avvenne nel 1923, quando la Biblioteca Gambalunga era diretta da Aldo Francesco Massera).

Pratolini (1942)

«Ti prego anche di dire a [Alessandro] Bonsanti che gli riporterò i due volumi delle Cose viste alla fine del mese: mi conceda ancora questo tempo. Fallo subito, e ottieni il suo consenso.»

(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Parronchi, Roma 8 [settembre 1942], p. 94. Si trattava dell'opera di Victor Hugo, presa in prestito nell'edizione francese al Gabinetto Vieusseux, allora diretto da Bonsanti, e di cui Pratolini curò una traduzione parziale, presso Einaudi, uscita nel 1943).

«Caro Bonsanti, da parte di "Wiesseux" [!] mi viene richiesto un libro di Tommaseo su Wiesseux che io avrei in prestito nientedimeno dal 1939. Ti dico subito che questo libro io non ce l'ho. Né, il che è più strano, mi ricordo di averlo avuto fra le mani. Ebbi, sì, proprio circa il 1939, per un incarico al "Bargello", qualche libro in prestito dal "Wiesseux"], e dall'allora suo direttore, di cui non ricordo il nome [Rodolfo Ciullini], ma credo di aver sempre riportati i libri. Ti dico credo perché a questo proposito la mia memoria non mi assiste, ma per certo non ho nessun libro, tanto meno il Tommaseo: e, ciò che è più probante, non l'avevo fra i libri a Firenze quando da Firenze mi stabilii a Roma due anni e mezzo fa. Tutto ciò dico al condizionale per cortesia verso di te, ma ufficialmente potrei risponderti in coscienza d'avere restituiti al "Wiesseux" tutti i libri (così pochi in verità) che mi vennero dati in lettura. Ho invece i due Hugo, che ti prego concedermi per un mese ancora dovendo riscontrare le bozze di stampa che sono in arrivo. Scusami, caro Bonsanti, se involontariamente ti arreco un fastidio, e credimi sempre tuo».
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Bonsanti, Roma 11 giugno 1942, in Gabinetto Vieusseux, Archivio storico, XX 1B.6.58, pubblicata in Laura Desideri - Erica Vecchio, La biblioteca di Pratolini in mostra, «Antologia Vieusseux», n. 57 (set.-dic. 2013), p. 123-154: 135).

Pratolini (1945-1946)

«Ti chiedo invece un favore: vai in Biblioteca e guarda se all'Emeroteca ci sono le collezioni della Nazione, del Nuovo Giornale (e anche di altri periodici fiorentini, non escluso gli umoristici: La Chiacchiera, per esempio), degli anni 1925-1926. Consultali in particolare nelle giornate dal 1° al 10 ottobre 1925 e più avanti: controlla se essi danno i nomi e riportano i particolari degli eccidi commessi dai fascisti nelle persone di Consolo, Pilati, ecc. Nel '39 il trimestre che comprendeva l'ottobre era costantemente "in lettura".»
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Parronchi, [Napoli] 29 dic. [1945], p. 132. Pratolini lavorava al romanzo Cronache di poveri amanti, ambientato in quel periodo, che uscì da Vallecchi nel 1946).

«Caro Sandro,
anch'io vorrei rispettare il tuo silenzio, visto che taci, ma [...] mi interessavano le risposte alle richieste che ti facevo: 1) la consultazione dei giornali in Biblioteca; 2) la tua recensione; 3) se il "Quartiere" era nelle librerie.»
(Pratolini a Parronchi, Napoli 24 gen. [1946], p. 133).

«Caro Vasco,
devi scusarmi di questo lungo ritardo. Contrariamente al mio solito ho avuto in questi giorni molto da fare. E non volevo risponderti senza essere andato in Biblioteca a consultare quei giornali. Ci sono andato stamani alle 9 e ne esco ora, letteralmente envouté. Ho visto solo “La Nazione” dal 1° ottobre alla fine del 25. Col 22 ottobre ci si trovano i nomi dei primi arrestati. Segue un 2° elenco di espulsi dal partito con diffida di Balbo ai giornalisti di ritenere che si tratti di assassini. [....]
Più oltre, e cioè nel 1926, non ho guardato: lì ci dev'essere il processo. Nella fine del '25 avvennero solo i processi per violenze. Se vuoi ci guarderò; ma ti dico che questo genere di ricerca in fatti di cronaca nera mi fa diventar tisico».
(Parronchi, lettera a Pratolini, senza data, in Alessandro Parronchi, Lettere a Vasco, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze, Polistampa, 1996, p. 58).

«Un'altra cosa ancora [...]. Si tratta di questo: mi occorrerebbe un programma di uno spettacolo delle "Folies Bergères" del 1925-1926, una sera qualunque. Le "Folies", o "Follie", come noi si chiamavano, erano, tu lo saprai, nei locali dell'attuale "Cinema Imperiale" di via de' Neri. Il comm. Raffaello Castellani [...] forse potrebbe avere un programma dell'epoca, o più semplicemente, un giorno che vai in Biblioteca per conto tuo, potresti scorrere i giornali e riferirmene.»
(Pratolini a Parronchi, Napoli 5 febb. [1946], in Vasco Pratolini, Lettere a Sandro, p. 138).

«In che data fu Pasqua, l'anno 1926 (Attenzione: 1926 non 1925). Questa è una rogna: se non ci riesci alla prima lascia fare. Dovresti semmai tornare in Biblioteca.»
(Pratolini a Parronchi, Napoli Pasqua '46, p. 154).

Pratolini (1951 e 1970)

«Ho ripreso qui, da ieri, a lavorare; non faccio pronostici, come potrei? Ti prego, a tuo comodo di rispondermi ai seguenti quesiti. [...]
3) dovresti, consultando a caso una settimana della primavera 1926 della "Nazione", darmi l'elenco degli spettacoli (cinema-teatri e varietà).»
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Parronchi, Napoli 20 agosto '51, p. 290. Pratolini lavorava al romanzo Lo scialo, ambientato in quel periodo, che uscì da Mondadori nel 1960).

«Caro Sandro,
domani sabato vado a San Giustino con l'intenzione di restarci qualche giorno ma anche per fare una puntata a Firenze in biblioteca.»
(Pratolini a Parronchi, Roma 4 [luglio 1970], p. 421).

Pratolini (1973)

«A diciott'anni andavo a giocare a biliardo, avevo una ragazza qui e l'altra là. Decisi di lasciare ogni cosa. Vissi i miei giorni in biblioteca, pianificando le mie letture. Cominciai a conoscere Croce, la filosofia tedesca, dopo aver digerito ed essermi sostanzialmente nutrito degli illuministi. E la frequentazione dei miei classici ai quali sempre tornavo: Compagni, Boccaccio, Sacchetti, Machiavelli, Dante... Disperazione di dover sempre ricominciare, voracità, e abissi d'ignoranza che mi si aprivano di volta in volta. Questo durò più di tre anni.»

(Vasco Pratolini, conversazione con Ferdinando Camon, p. 42).

Pratolini (1975)

«GENNAIO

Firenze dopo l'alluvione.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il segno della nafta sfiora
la balaustra (magica) di via de' Magazzini.

Capisci ora cosa ci divide?
Hai fatto una giravolta:
Le jeune homme dont l'oeil est brillant, la peau brune
Le beau corps de vingt ans...

Il tuo amoroso dileggio
gli incunaboli che hai da salvare
le unghie rotte i seni intirizziti
la tua giovinezza armata di futuro.»

(Vasco Pratolini, Calendario del '67, p. 169).

«È finita I'esistenza che contava per noi – quella con cui ci era possibile e doveroso fare i conti – oppure l'esistenza ci supera, non le siamo più adeguati? [...] Ma esiste una risorsa, cioè uno spazio residuo che può anche mutarsi in area di rilancio; ed è l'interrogarsi, e sin dove sia dato, il rispondersi di fronte a quella linea, a quella sbarra apparentemente terminale oltre la quale sta il futuro, magari avvertito non più nostro, e che è già il presente di altri (della ragazza che tenta di sottrarre al fango i libri della biblioteca; del figlio dell'amico suicida che opta per la «giustizia»).»
(Nota di Vittorio Sereni, ivi, p. 165).

Pratolini (1988)

«Soltanto dopo un lungo periodo che passavo davanti alle Giubbe Rosse, e mi guardavo bene dall'entrare, una sera Vittorini mi introdusse e mi presentò a Montale. Ma per quanto fosse già famoso e ne sapessi tante citazioni, io non lo avevo mai letto, un po' perché per il mio autodidattismo [...] non potevo aver letto tutto, un po' perché ero un ungarettiano di ferro [...]. Così io dissi a Montale che avevo difficoltà a trovare i suoi libri, non li avevano nemmeno alla Nazionale. Allora Montale mi invitò ad andare a trovarlo al Gabinetto Viesseux [!] dov'era il direttore. Figurati con che emozione ci andai, e lui mi aspettava nel suo studio, e sul tavolo, già dedicato, trovai una copia degli "Ossi di seppia". Poi siamo diventati amici e io l'ho accompagnato per mesi a casa la sera dalle Giubbe Rosse.»

(Vasco Pratolini, intervista, in Vasco Pratolini, a cura di Luciano Luisi, p. 55).

Praz (1924)

«la sua recensione la metterò accanto all'altra grande onorificenza che questo libro m'ha procurata: un bello e candido attestato di ringraziamento del British Museum – pel dono d'un esemplare: che è come dire: la benedizione del Papa.»

(Mario Praz, lettera a Emilio Cecchi, Firenze 27 giugno [1924], p. 65-67. Si riferisce a Carlo Lamb, Saggi di Elia, traduzione, introduzione e note di Mario Praz, Lanciano, Carabba, 1924)

Prezzolini (1901)

«Oggi sono stato a la biblioteca Nazionale per prepararmi a la visita delle catacombe e per certe notizie su delle basiliche romane; edizione riveduta e corretta della Nazionale di Firenze, le tre ore che vi ho passate sono uno «specimen» insuperabile del modo in cui sono tenute le Biblioteche. All'entrata vi consegnano una tessera, di cui metà si consegna prendendo i libri, e metà si tiene per sé, per riaverla quando si riprendono i libri e per potere uscire di biblioteca. Il tempo medio d'aspettativa è una mezz'ora, io però ho aspettato 3/4 d'ora e ho sentito una questione coll'impiegato di un signore che era lì da le 11 1/2 (eran le 13) e che ebbe per tutta risposta che scusasse quella «inavvertenza», un altro che chiese il Mulhouse [ma Millhouse] voc.[abolario] inglese si sentì rispondere: manca; a un terzo poi, fu rimandata la scheda con «a legare»; ne nacque una questione perché lo aveva chiesto un mese prima e gli era stata data la stessa risposta; insomma anche questo libro mancava, perché «queste cose accadono». A farlo apposta non potevo essere meglio edificato; purtroppo mi toccherà tornarci ancora. Entro la sala di lettura le solite signorine e signorini; i soliti morti sul campo di battaglia come io ho chiamato gli addormentati; al banco mio eravamo quattro, di cui due addormentati; vi prego credere che io non era fra questi.»

(Giuseppe Prezzolini, lettera a Giovanni Papini e Luigi Morselli, Roma 9 luglio 1901, p. 79-80)

Prezzolini (1902-1916)

«Vento, sentieri e cime son simboli del nostro vivere libero, selvaggio, ribelle. Li cerchiamo nelle passeggiate che facciamo per i colli vicini a Firenze. [...] I cieli che ci coprono sono azzurri, perché scegliamo le giornate migliori, ma non ci fan paura quando le nuvole anneriscono l’orizzonte. Sturm und Drang, m’ha insegnato Papini. Questo cielo ci accompagna in biblioteca. Anche lì cerchiamo sentieri e non strade maestre. Fiori di campo ci piacciono più di quelli di giardino. Anche fra i libri: il rozzo, il sincero, il semplice. Meglio la cappella romanica di campagna che i duomi fastosi di città.».
(Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, p. 43-44. Appunto datato 1902, senza indicazione di giorno e mese)

«Riposo di biblioteche. Conosco le ore migliori.».
(Ivi, p. 46. Appunto datato Parigi 4 novembre 1902; a Parigi Prezzolini frequentò soprattutto la Bibliothèque nationale de France e la Bibliothèque Sainte-Geneviève)

«Dio non mi parla e il diavolo neppure, nemmeno in sogno, sebbene la provocazione ci sia con le mie letture su questo soggetto in biblioteca. [...] Studio Bergson.».
(Ibidem. Appunto datato Parigi 5 novembre 1902)

«In biblioteca la testa ha ceduto alla stanchezza e poi ho smarrito la cannuccia che porto sempre con me.».
(Ivi, p. 47. Appunto datato Parigi 6 novembre 1902)

«Oggi orgoglioso di aver capito [in biblioteca] tante pagine del Bergson, di aver scoperto Rickert e di aver penetrato Paulsen.».
(Ibidem. Appunto datato Parigi 8 novembre 1902)

«Più in là Papini potrà guadagnare molto, ma ora non so come faccia a campare, ed ha anche delle noie per il Crepuscolo con certe canaglie di Milanesi che non gli pagano le percentuali. Il posto dove stanno è bello, ma quando piove dev’esser molto triste. Troppo chiuso. Dalla loro situazione ora son venuto ad apprezzare tanto di più Dolores, che ha passato tanto tempo sola con me in quella non mai abbastanza maledetta Perugia, buco pieno di vespaccie rumorose e pungenti. Al contrasto con essa dobbiamo lo straordinario benessere di cui godiamo a Firenze, io per la comodità di biblioteche e di uomini, Dolores per le distrazioni, e tutti e due insieme per non dover sopportare più uno dei più pettegoli paesi. Il povero Croce era tempestato di lettere anonime che denunziavano le corna della sua Nella. Ma lui ci rideva sopra.».
(Ivi, p. 80. Appunto datato [Firenze] 24 ottobre 1907; il 19 marzo 1905 Prezzolini sposò a Milano Dolores Faconti e con lei visse a Perugia sino all’ottobre 1907)

«[Fortunato] Pintor molto serio e preciso, disse poche cose giustissime, senza mai animarsi. [Fedele] Baiocchi mi raccontava che era molto buono nella Scuola (Normale Superiore) di Pisa, ne parlavan come d’un santo. Ne ha la faccia, ossuta, e la calma della voce. È bibliotecario del Senato, della forse meglio organizzata biblioteca d’Italia. Non ci son che sette o otto senatori che ci vanno a studiare e lo trattan da amico. Dovrebbe esser senatore lui.».
(Ivi, p. 86-88. Appunto datato Firenze 9 settembre 1909)

«Stasera tremenda serata, mal di testa, il bimbo strilla, bisogna ninnarlo, appena in braccio sta zitto, se mi metto a sedere riapre la bocca per strillare. Vien voglia di strozzarlo – diceva [Giovanni] Amendola del suo. Ora però mi capita meno di rado il senso di dover abbandonar tutto questo. Mi ricordo d’esser passato a traverso questi momenti altre volte e mi calma. Passerà anche questa. Tornerà la voglia di scrivere e di lavorare e le belle giornate riempite da mattina a sera. Domattina andrò in biblioteca. Ma tutto questo tempo perso come mi pesa sul cuore. Quanto avrei potuto fare!».
(Ivi, p. 106. Appunto datato Firenze 1° marzo 1911)

«Come vorrei, alle volte, cacciarmi in biblioteca tutto il giorno, e la sera avere qualche libro di Vieusseux, e in casa riprender la vita d’un tempo, tra me e Dolores, facendo la cucina e tenendo la nota delle spese. Passerei quieto il tempo e la fantasia occupata. Leggerei storie e romanzi e poesia, curerei dei testi, farei delle ricerche, e ricostruirei la vita di qualche persona seria di cento anni fa, non potendo io essere serio.».
(Ivi, p. 110. Appunto datato Firenze 7 aprile 1911)

«Domani ho intenzione di riprendere lo studio in biblioteca. E comincio anche il russo, tra un anno devo essere in grado di conoscere abbastanza per tradurre.».
(Ivi, p. 123. Appunto datato Firenze 1911, senza indicazione di giorno e mese)

«Passato anche oggi senza fare nulla col solito vuoto e stanchezza interna. Mi sono riabbonato a «Vieusseux» con l’intento di trovare il Journal d’un Écrivain di Dostojewsky [sic] sul quale voglio fare un articolo, diverso da quello di Papini e di Gide. Dostojewsky mi appare in certi lati di piccolezza e di malignità che essi non vedono.».
(Ivi, p. 128. Appunto datato Firenze 14 marzo 1912)

«Arriva il capocronista del «Popolo» di Mussolini con ordini di fare un «grande servizio» sul terremoto di Avezzano ma senza soldi, senza automobile, senza telegrammi. Cose all’italiana, insomma.
Riesco a penetrare in un bucolino d’automobile, del «Resto del carlino», ma vado dove fa comodo ai padroni; e poi lavoro in biblioteca, come fa comodo a me, sul Lago del Fucino e le sue vicende tecniche capitalistiche e sociali, imparando moltissimo, e facendo quello che gli altri giornalisti italiani non hanno mai imparato a fare.».
(Ivi, p. 149. Appunto datato Roma 15 gennaio 1915; il riferimento è probabilmente alla biblioteca della Camera dei deputati)

«Passo giornate nella biblioteca del Ministero degli Esteri a leggere libri d’ogni sorta sulla Dalmazia per uno scritto che darà dispiacere al padrone del palazzo signor Sonnino; e sono contentone quando mi metto a sedere in una saletta, dove non viene mai nessuno. Mi par d’avere una bomba nella testa. Tommaseo, Catteneo, Mazzini, Modrich, Pisani, Wilkinson, Freeman, Roesler, Jackson... in tutte le lingue, di tutti i secoli, di ogni origine mi fan scoprire, ridere, e scribacchio in fretta i miei appunti sul mio taccuino.».
(Ivi, p. 154-155. Appunto datato Roma 12 aprile 1915; quell’anno Prezzolini pubblicò il volume La Dalmazia, Firenze, Libreria della Voce, 1915, nel quale auspicava un’intesa con gli slavi)

«Continuo nella Biblioteca Nazionale [di Firenze] le mie letture sulla Dalmazia. Son convinto di quel che dico, ma anche contento di far un dispetto a nazionalisti, imperialisti, gonfioni, superboni, ignorantoni nostrani.».
(Ivi, p. 155. Appunto datato Firenze 4 maggio 1915)

«Sono scosso. Non vedo chiaro. Mi sento disorientato. Non ho quasi nulla da fare. Ore di lavoro per me. Libri da varie biblioteche. Faccio persin ricerche nell’Archivio israelitico per una storia degli Ebrei durante il Risorgimento.».
(Ivi, p. 212. Appunto datato Vercelli 14 aprile 1916)

Prezzolini (1902a)

«Non rimetterti troppo al lavoro; occorrono allo spirito dei lunghi intervalli di tempo per pensare a sé stesso e sono forse più proficui di quelli in cui lo mettiamo a servigio delle idee altrui; [...] spesso noi ci lamentiamo di vaghi malesseri, [...] e la ragione è da trovarsi in una indigestione di idee. Io sto prendendone una, perché ho trovato un ricco magazzino alla Biblioteca Nazionale, ma penso smaltirla a poco a poco, appena lontano da Parigi. Perché non passerò l'inverno in questa tristissima e sconsolata città, dal cielo grigio e dalla infinita monotonia delle vie [...]. Appena il freddo, la nebbia, la pioggia, la neve e il fango ospiti invernali abituali di questa civilissima città faranno la loro apparizione, io dirò addio a le uniche cose che qui mi trattengono, tre isole di sogno per i mari deserti della volgarità, il Louvre, la Biblioteca Nazionale e quella di S. Généviève [!]. Fra queste passo la mia giornata e le mie sere, interessandomi molto alla filosofia della contingenza. [...]
Delle lezioni di cui mi chiedi non so nulla; ancora non sono stato alla Sorbona occupatissimo come ero in Biblioteca.»
(Giuseppe Prezzolini, lettera a Piero Marrucchi, [Parigi] 26 ottobre 1902, p. 3-5).

«Sfuggo nelle biblioteche a la preoccupazione che dà questa città; ma quivi mi seppellisco sotto i libri, e cercando il pensiero degli altri dimentico il mio; il mio cervello diventa un magazzino, tutto confuso e sottosopra, pieno di mobili d'ogni sorta, di tutti i tempi e gli stili; quando avrò tempo cercherò di mettere un po' di ordine. Per ora confusione e nebbia.»
(Prezzolini, lettera a Marrucchi, [Parigi novembre 1902], p. 6-7).

Prezzolini (1902b)

«Le mie avventure di Parigi son totalmente nuove. Leggo la collezione della «Revue de Métaphisique et de Morale» ogni sera alla Bibliothèque Sainte Geneviève. Me la serbano, perché bisogna chiederla en avance. Qualche volta viene a sedersi accanto a me un vagabondo che non s’è lavato da un mese, e come puzza. Ma io continuo nella mia lettura e nelle mie scoperte. È una liberazione. Non sentirsi più nella stretta del determinismo corporeo. Sentirsi come una molla libera. Un essere che crea. Non c’è scelta nella vita: c’è continua creazione. Vado avanti. Non son compreso. Parigi è triste ed è spaventosa per chi come me non ha molto da spendere, ed una tazza di un caffè è un lusso. Ma queste biblioteche, dove leggo tanti miei fratelli, tanti miei eguali, che rivelazione sono con le loro luci tranquille. Esco di là un altr’uomo. So che tutto quello che penso è dentro di me, una verità che mi stupirebbe o non sarebbe compresa da nessuno. Queste biblioteche mi meravigliano. Hanno dei libri che non abbiamo in Italia. Li danno in lettura al primo venuto come me, che non ha un titolo. A tutte le ore del giorno. Alcune fino alle dieci di sera, come Sainte Geneviève. Che cosa farei a Parigi senza questa biblioteca? Come passerei la serata, solo, con pochi soldi, senza sapere bene la lingua, in questo paese di specchi, di facciate, di riflessi, di fantasmi? La biblioteca è una delle poche cose reali di Parigi.».

(Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, p. 48-49; appunto datato 1902, senza indicazione di giorno e mese; nel 1902 Prezzolini soggiornò alcuni mesi a Parigi)

Prezzolini (1908)

«Di lavorare, abbiamo voglia. Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di informare, senza troppa smania di novità, di quel che di meglio si fa all'estero; di proporre riforme e miglioramenti alle biblioteche pubbliche; di occuparci della crisi morale delle università italiane; di segnalare le opere degne di lettura e di commentare le viltà della vita contemporanea.»

(Giuseppe Prezzolini, La nostra promessa, «La Voce», 1, n. 2 (27 dic. 1908), p. 5).

Già nel Progetto di una rivista di pensiero in Italia, preparato qualche mese prima (ma pubblicato solo in seguito), Prezzolini aveva fatto riferimento alle biblioteche, affermando che la rivista doveva «dare larga parte a corrispondenze che trattino della vita intellettuale, dei circoli, delle conferenze, delle biblioteche, dei salotti, delle scuole e delle lezioni delle principali città d'Italia. Questo può essere utile anche in vista di raccogliere materiali per lo studio delle presenti condizioni della coltura italiana. Alle quali nei suoi aspetti generali (p.e. la scuola media, la centralizzazione romana, gli inconvenienti e le deficienze delle biblioteche ecc.) sarebbe opportuno dirigere continua attenzione e cura, proponendo miglioramenti pratici e denunziando gli abusi e le imbecillità.»

Prezzolini (1909)

«Ci credete?
Io no. Non ci credo più. È anche questa una frottola o una leggenda, che, come tutte le frottole e tutte le leggende, veleggia sopra il mare tranquillo e oliaceo dell’accettazione umana, finchè un vento di tempesta non la sommerga.
No, Firenze, sebbene abbia tante scuole e tante biblioteche, tanti professori e tanti laureati, non è una città intellettuale. O meglio, l’intellettualità di Firenze è una veste di ipocrisia e di abitudine per coprire la segreta vergogna di una delle cose che all’amore del sapere sono più opposte. L’intellettualità di Firenze funge da calzoni, da quei calzoni «che fatti per coprire la lussuria e la vergogna, noi abbassiamo tutte le volte che a quelle fa comodo». [...]
Non si tratta di frasi, ma di fatti. E mi accingo a darne le prove tratteggiando le varie istituzioni di coltura che possediamo a Firenze. Si prenda, ad esempio, il Gabinetto Vieusseux. Esso ha una tradizione incontestabile di serietà e di studio che ne fa uno dei più simpatici e rispettabili luoghi di lettura di tutta Europa. Il fondo antico di libri che possiede lo rende inattaccabile da qualunque concorrenza del genere; e sebbene ora, nelle compere, vi predomini un po’ troppo il gusto delle zitelle inglesi e delle signore sfaccendate della borghesia fiorentina e dei loro marmocchi, non si può negare che si indulge spesso a libri d’arte e di pensiero, o per lo meno, a ciò che per molti tiene la via di mezzo, a libri di storia e di politica. Una simile istituzione si trova però in grave pericolo. Se alla morte del signor Vieusseux, attuale proprietario, essa cade in mano di uno speculatore, ecco una gloria, ecco una tradizione, ecco uno strumento di coltura che finisce. A questo pericolo si voleva ovviare costituendo una società in accomandita, con un capitale di lire 300.000. I bilanci erano stati esaminati da persone di serietà indiscussa e di notoria competenza nelle questioni librarie. Il reddito degli azionisti sarebbe stato onesto. Ebbene: un Comitato, nel quale erano pure professori del R. Istituto di Studi Superiori, Consoli di vari paesi ecc. non è riuscito a trovare in Firenze quella miserabile somma che era necessaria per assicurarle, davvero, un titolo di città intellettuale. Si pensi che nelle Biblioteche pubbliche il servizio è (salvo che alla Marucelliana) lento, noioso, pieno di impacci burocratici e di vizi che neppur l’operosità e la rigidezza lodevole del Morpurgo hanno potuto ovviare; e che le glorie straniere e i libri interessanti vi penetrano, in media, cinque o dieci anni dopo che cominciano a escire dall’oscurità. Un comitato che presiedesse, invece, al Gabinetto Vieusseux, avrebbe il modo di riparare al grave inconveniente, consigliando saggiamente il direttore e collaborando agli scopi della coltura. Ma tutte queste ed altre riflessioni che si potrebbero fare, non sono state sufficienti perchè tanti di quei signori che bramano rappresentate l’intellettualità fiorentina e spendono in feste e fondano società che hanno servitori in marsina e fanno scampagnate in automobile con la scusa di vedere i monumenti antichi, abbiano trovato nelle loro saccoccie di che salvare l’avvenire del Gabinetto Vieusseux.
E sapete perché? Perché il Gabinetto Vieusseux è un’istituzione seria: perchè le signore patronesse non vi potrebbero offrire dei thè; perchè bisogna leggere in silenzio e non chiacchierare o giocare a tresette, come certi professori fanno tutte le sere in una società di autodicentesi intellettuali; perchè non ci sarebbe modo di farvi sfoggio di marsine, di cravatte, di titoli gentilizi o di titoli bancarii, di automobili e di servitori in livrea.
L’intellettuale fiorentino di fronte al libro e alla serietà recalcitra: e va a cercare le soddisfazioni dell’intelligenza in compagnia delle grandi signore. Se non gli date una carrozza, se non gli preparate un buon pranzo, e sopratutto una conversazione delicata, leggera e vuota di tutto ciò che appassiona e commuove, vi guarderà di mal occhio e non troverà in tasca neppure uno di quei napoleoni che sacrifica così volentieri per stare in una società dove non sia troppo seccato da cose serie e non sia costretto a pensare dopo pranzo, perchè tutti i medici gli hanno detto che fa male, né prima di pranzo, perchè ciò gli toglie l’appetito.
L’intellettuale fiorentino muore, in generale, di male di stomaco o d’una polmonite buscata a una serata di gala: non mai di mal di cervello.»
(Giuseppe Prezzolini, Firenze intellettuale. I. Il Gabinetto G. P. Vieusseux, «La Voce», 1, n. 4 (7 gennaio 1909), p. 15.)