L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Risultati della ricerca
Manganelli (1977)
«Umberto Eco ha scritto un libro estremamente gradevole, divertente, lucido; un po’ manageriale, da manager giovane e aggressivo, cui piacciono le cose ben fatte. Il libro insegna come si fa una tesi di laurea; ed è talmente cattivante, da far venir gola di laurearsi da capo. [...] L’avessi incontrato, un libro così fatto, nella mia giovinezza, avrei imparato a fare cose che non saprò mai fare. Ad esempio, le note a piè di pagina. Troppo tardi: incapace di frequentare metodicamente le biblioteche nostrane, di compilare schede, di catalogare argomenti, di redigere note, ho dovuto ridurmi a fare il genio. Miserabile fine, per chi era nato per gli studi. [...]
Il pensiero che ogni anno, migliaia e migliaia di volumi parte inutili, parte truffaldini, vengano ammucchiati negli archivi universitari mi riempie di orrore, empia biblioteca che, come ha scritto Cases, chiama Omar l’incendiario. [...] Sia chiaro: considero dissennata la pratica della tesi di laurea a conclusione obbligatoria degli anni di corso; poiché, come scrive Eco, «questo criterio non è seguito nella maggioranza delle università straniere» (pagine 11-12), non capisco perché debba prevalere in Italia, che vanta le peggiori strutture universitarie, le biblioteche più caotiche e isteriche (quelle che svengono se gli attaccano le tendine alla veneziana), i bilanci più inadeguati. Resista la laurea come dottorato di ricerca, affinché chi sospetta di avere inclinazione a fare libri, impari a farne facendone uno.
[...]
Nell’università non c’è tragedia, non ci deve essere: dunque, deve sopravvivere almeno una omogeneità tecnica, una regola apparentemente obiettiva di convivenza intellettuale. E poiché questa è una prevaricazione infondata – proprio come il Paradiso, si noti bene, Terrestre – l’università è stata ed è il luogo privilegiato del conflitto, dell’inferno ignaro contro il silentium della sala cataloghi; che la tragedia cominci con la cacciata – per eccesso di cognizioni – dall’eden, mi piace, mi piace molto.»
(Giorgio Manganelli, Basta con la tesi di laurea, «Corriere della sera», 102, n. 209 (10 set. 1977), p. 3. L'articolo è stato ripubblicato, col titolo, Tesi di laurea II, in Giorgio Manganelli, Mammifero italiano, a cura di Marco Belpoliti, Milano, Adelphi, 2007, p. 106-109).
Manganelli (1986)
«[Almansi] Che significa la grande biblioteca, il British Museum o la Library of Congress? La polizia celeste potrebbe trovarvi la documentazione di tutti gli errori dell'uomo.
[...]
[Manganelli] Lei intende il male in modo macroscopico; appunto, Edipo, I sette a Tebe, che so io, la Strage degli Innocenti. Mi pare che la quotidiana inesattezza dell'esistenza sia un pochino fuori di questa gigantesca archiviazione dei misfatti dell'umanità. [...]
[Almansi] Lei non sente l'orrore di una grande biblioteca?
[Manganelli] Ah, sí, certo, come no? La grande biblioteca, senza dubbio, è un orrore, ma anche una piccola biblioteca è un orrore.
[...]
Non vedo come la letteratura possa agire senza una qualche dimestichezza con l'orrore, e quindi se lo porta dietro in modo
molto naturale, molto semplice, anche in quantità modeste. Ecco, non è soltanto il grande orrore mitico. Poi anche il grande orrore mitico si lascia miniaturizzare, e a un certo punto dell'enorme viene fuori una piccola, minuscola piaga che diventa letteratura e che è in grado di seguirci e di affrontarci nella piccola o nella grande biblioteca.»
(Guido Almansi, Nulla piú che un'inezia, in Giorgio Manganelli, La penombra mentale, p. 185-190: 188-189. La conversazione uscì per la prima volta in «Panorama», 16 febbraio 1986).
Manzini (1944)
«La prima volta le aveva parlato in biblioteca. Curvo sulla sua testa, mentre ella sfogliava uno schedario, l'aveva aiutata in una ricerca; ma invece di leggere le stesse parole, s'era incantato a guardarle le pupille scorrere da un capo all'altro del rigo, dietro la frangia delle ciglia. Sottomettendosi a quel movimento, ora vivace, ora lento, ora interrotto, s'impadroniva d'un segreto, spiava, s'addentrava furtivamente in una proibita elementare intimità. Della lettura di lei, assorbiva il ritmo, il puerile indugiare quasi d'inconfessata balbuzie, l'ondoso aderire dell'intelletto, e, in certe rapide gioconde riprese, forse lo scatto, il prensile riporre della memoria».
(Gianna Manzini, Quaranta minuti d'allarme, «Mercurio», I, n. 2 (1° ottobre 1944), p. 45-46. Il racconto è stato poi raccolto in Forte come un leone, Milano, Mondadori, 1947, e in Cara prigione, Milano, Mondadori, 1958). Si avvertono gli echi della frequentazione della Biblioteca nazionale di Firenze e l'incontro con Bruno Fallaci, che Gianna Manzini sposerà alla fine del 1920).
Manzini (1971)
«E gli studi? Hanno nulla a che fare i così detti studi superiori con quelli obbliganti (una borsa di studio dopo l'altra) delle scuole da me frequentate fino ad allora? Sì, mi era sempre piaciuto studiare. [...] Ma a Firenze, a parte l'ebbrezza delle lezioni, che cosa fu la Biblioteca nazionale! Quella scala: la scala del paradiso. I libri poi: un continente, una miniera; e anche uno spettacolo. Tieni. Puoi prendere quello che vuoi, anche averne in prestito: tuoi, dunque, tutti. Il silenzio aumentava un senso di rito e di fatagione. Come se non bastasse, da bambinuccia gracile che ero, divenni di colpo una ragazza tutta sana, scoppiante d'energia […].
Non avevo mai avuto appetito. […] Invece ebbi addirittura fame. Quell'improvvisa ingordigia di tutto, mi agguantò lo stomaco; e fu meraviglioso scoprire il pane. [...] Nel tratto tra la scuola e la biblioteca incontravo l'uomo che vendeva panini di ramerino. Sicuro che ne compravo uno.
Dovrò dire anche degli odori. Odori della pioggia sulla pietra. Odori di campagna portati a folate. Odori di libri invecchiati nelle sale della biblioteca. […]».
(Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 1971, p. 192-193. Gianna Manzini, insieme alla madre, approdò a Firenze nell'autunno 1914.)
Marchesi (1940)
«La filologia è una scienza severa che dà però grandi sorprese: e fra queste ci sono anche quelle galanti o, come direbbero gli uomini piú costumati, quelle frivole. Io non oserei adoperare tale parola perché allora ogni svago è frivolezza; perché allora tutto quanto ci stacca l'occhio dallo strumento studioso è frivolezza: anche il ramo sottile di acacia agitato dal vento di autunno davanti alla nostra finestra; anche la giovane donna che mi distraeva in un giorno lontano di estate fiorentina nella bella sala conclusa della biblioteca Medicea.
[...]
Fuori, nella piazza san Lorenzo, l'estate ardeva coi raggi di agosto: ma nella sala della biblioteca era una consolante frescura: e attraverso i grossi vetri colorati delle finestre il sole faceva dei giochi di luce come volesse dare ogni tanto ai nostri sei occhi distrazione e riposo. Ho detto «ai nostri sei occhi» perché noi eravamo tre: io, uno studioso alemanno che collazionava un manoscritto greco e una giovane signorina, che mi ostinavo a credere inglese, la quale copiava da piú giorni le miniature di un antico salterio. Di quella donna avevo visto soltanto la capigliatura dorata, i guanti bianchi posati sul tavolo e la lente d'ingrandimento che di tratto in tratto accostava ai suoi occhi scuri. Sul tavolo era pure – né seppi mai a chi appartenesse – una statuetta di Budda che brillava nella sua vernice bianca e celeste.
[...] Ero arrivato alla parola «castità», a quella parola che spesso conturba se ci sta davanti una giovane donna. Io scrivevo castitatem quando la signorina straniera si alzò per consultare il catalogo: e allora, riguardandola bene, credetti di vedere una cosa straordinaria. Fissavo gli occhi su di lei, mentre essa sfogliava i volumi senza trovare quello che cercava; e continuavo a contemplarla come uno stordito anche quando impazientita si rivolse a me perché l'aiutassi a trovare l'indicazione. Eravamo gomito a gomito: il mio braccio era tutto coperto di una manica grinzosa; il suo mostrava, attraverso i ricami e le velature della stoffa, un freschissimo incarnato. Quel mattino nella trascrizione andai oltre la parola castitatem: ma varcai pure nella mia anima le trincee e le fortificazioni dietro cui opera sicuro l'intelletto del saggio. E passai al nemico: cioè alle tentazioni della carne.
[...]
Quella signorina non era inglese, era russa; e non era una signorina, ma una giovanissima signora divorziata dal marito. E cercava nelle miniature di quel salterio «movenze e colori», com'essa mi spiegò piú tardi con la fredda garbatezza che hanno spesso le donne le quali possono essere richieste dl troppe cose.
Piú tardi la rividi a Catania, la mia terra natale [...].»
(Concetto Marchesi, Filologia e varietà, in Il libro di Tersite, Milano, Mondadori, 1950, p. 301-320: 304-308. Il testo è datato «Pisa, 1940» e fu pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo, nella rivista «La ruota», 2 (1941), n. 1, p. 3-9. Cfr. Rosario Pintaudi, Nella bella sala conclusa della Biblioteca Medicea...: Concetto Marchesi nella Laurenziana di Firenze, «Quaderni di storia», n. 89 (gen.-giu. 2019), p. 205-215. Nonostante minuziose ricerche sui registri dei lettori della Biblioteca Laurenziana, Pintaudi non è riuscito a identificare lo studioso tedesco (tra i non pochi presenti) e la giovane russa (forse registrata come Paola Calò e Paola Carlo, che consulta due manoscritti plausibili del settore Plutei).).
Marinetti (1909)
«Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
[...]
In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifìssi, registri di slanci troncati!...) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa.
[...]
E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate!»
(Manifesto del futurismo, 20 febbraio 1909, in: I manifesti del futurismo, p. 7-8)
Marinetti (1917)
«In questo albergo, aspettando di ripartire per il fronte, in treno, nell’odore mordente dei grigioverde ricolorato dalla 7 trincea, tra le gomitate dei soldati, io continuerò a dettare questo libro in velocità maneggiando brutalmente il meraviglioso corpo elasticissimo di quella donna fatta di cento donne che ognuno porta con sé alla guerra. Ognuno... un italiano beninteso, completamente virile, libero da ogni pregiudizio nordico, nemico delle biblioteche e intimamente legato al gran pozzo di sensualità che si chiama Mediterraneo. Libro illogico dunque che sarà felice d’essere strappato dalle mani indefinite delle donne brutte, ma piacerà indubbiamente alle mani precise e soavi delle belle».
(Filippo Tommaso Marinetti, Come si seducono le donne, p. 32; il passo è citato dalla seconda edizione dell'opera, ampliata e apparsa con il titolo Come si seducono le donne e si tradiscono gli uomini, pubblicata nel 1920 da Sonzogno)
«Una bella donna non può avere altro amante che un soldato armato in tutti i modi che viene dal fronte e sta per ripartire. I gambali, gli speroni e la bandoliera sono essenziali all’amore. La giacchetta, il frack, lo smocking e lo stiffelius sono fatti per la sedia e la poltrona, evocano la biblioteca, lo sverginamento lento dei libri intonsi, la lampada a abat-jour verde, l’alito fetido dei moralisti, dei professori, dei critici, dei filosofi e dei pedanti. Sono questi infatti i mariti che io incorono sistematicamente: tutti i nemici della divina velocità».
(Ivi, p. 63)
Marinetti (1919)
«Si andava predicando che i giovani italiani erano ignoranti e che il loro ingegno aveva bisogno di una cultura solida, seria, metodica. In realtà si predicava l'odio all'ingegno. Leggete, studiate, ponderate, chiudetevi nelle biblioteche, compulsate i codici, studiate gli antichi! Vivete nei musei! Copiate quadri e statue! Bisogna imparare a scrivere, a dipingere, a scolpire copiando le opere dei grandi! La lingua italiana è difficilissima, occorre decidere dopo serie meditazioni quali siano i maestri da preferire e i dizionarî da consultare. Il Bartoli, il Boccaccio, Machiavelli, Tommaseo, Rigutini, Fanfani... Occorre postillarli.»
«Non abbiamo nessuna compassione per un'altra categoria di cittadini lenti, podagrosi, e privi di agilità vitale che io chiamerei gli scimmioni di biblioteca.
Lo scimmione di biblioteca e lo scimmione della campagna devono sparire.»
(Filippo Tommaso Marinetti, Democrazia futurista, p. 137-138 e 210)
Martini (1880-1912)
«Ripensando al tuo libro sulla metrica barbara sono andato a ripescare un'ode, barbara in tutti i sensi della parola, che trovai in un manoscritto della Barberiniana. È di Giacinto Gigli diarista dei tempi di Urbano VIII. Non ti servirà a nulla, ma siccome a me non costa nulla il mandartela, eccotela qui, forse con qualche errore perch'io la feci copiare, e non mi curai poi di confrontarla coll'autografo.»
(Ferdinando Martini, lettera a Giosue Carducci, Roma 7 novembre 1880, in Lettere, p. 112-113).
«La Psiche [di Giovanni Prati] non l'ho. Io stesso dovrei prenderla alla Biblioteca Nazionale di costà [Firenze]. Sarebbe bene che la vedesse».
(Ferdinando Martini, lettera a Guido Biagi, Monsummano 2 novembre 1887, ivi, p. 188. Martini preparava l'edizione delle Poesie scelte di Prati che uscì nel 1892 da Sansoni).
«Mi scriva un giorno o due avanti: perché io vo qualche volta a Firenze per ricerche nell'Archivio o in biblioteca, e non vorrei Ella arrivasse quando io non ci sono.»
(Martini, lettera a Giuseppe Picciola, Monsummano 27 agosto 1889, ivi, p. 220).
«Caro signor Chilovi,
Per carità non mi abbandoni; i suoi copiatori m'han lasciato sulle secche di Barberia, piantandomi sul piú bello. Le lettere piú importanti fra le inedite della Nazionale (Centrale, s'intende) mi mancano. Veda, c'è ancora piú cose. Tra le altre:
1° Una lettera al Guadagnoli, in versi, che incomincia: Pria che mi scordi del dottor Antonio.
2° Una lettera al Montanelli, con la quale gli manda I costumi del giorno, poesia che pur mi preme di avere e che, del rimanente, è parte della lettera.
[...]
Mi son ricordato di questo aneddoto della mia insubordinata puerizia, aspettando le lettere del Giusti: se non me le manda presto, Ella mi vedrà quotidianamente far capolino all'uscio della sua stanza e ripetere «Non s'aspetta che Lei».
Sul serio, caro signor Chilovi, me Le raccomando: non vedo l'ora d'uscir da questo pelago; e fo assegnamento sulla sua antica e cara amicizia.»
(Martini, lettera a Desiderio Chilovi, [1889?], p. 359. Martini raccoglieva le lettere di Giuseppe Giusti per pubblicarne l'epistolario, che uscì nel 1904 da Le Monnier. Nelle lettere a Chilovi conservate nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze si trovano molte altre richieste d'informazioni o di servizi da parte di Martini).
«Ne' brevi e non frequenti ozi che il mio negro Governatorato mi concede, sto lavorando intorno al Goldoni; ossia radunando e ordinando alcuni studi, fatti anni sono, circa la sua dimora in Francia e i suoi imitator [...]. Non potrò, naturalmente, condurre a termine questo lavoro, senza passare un paio di mesi almeno negli archivi e nelle biblioteche di Parigi; tuttavia ad abbreviare il soggiorno, da farvi l'anno venturo, avrei bisogno di qualcheduno che, mediante compenso, s'intende, anticipasse certe ricerche biografiche e bibliografiche.»
(Martini, lettera a Luigi Primoli, Asmara 9 giugno 1905, ivi, p. 401).
«C'è, è vero, da cercare ancora, come ho detto, a Bologna e a Torino, ma l'onorevole [Paolo di Camporeale] che vide le carte del Minghetti non ricorda di alcuna lettera di qualche importanza: e per le carte del Rattazzi, conservate nella biblioteca reale, bisogna chiedere un permesso ch'io non sono sicuro di ottenere.»
(Martini, lettera a Piero Barbèra, Monsummano 4 febbraio 1912, ivi, p. 459, relativa al progetto di pubblicare una raccolta di lettere di Vittorio Emanuele II).
Martini (1919)
«Signor Direttore,
Nell'ultimo numero del Giornale di Valdinievole leggo un'ottima proposta: di far sí che finalmente la biblioteca comunale sia una biblioteca: non una raccolta di pochi volumi, la piú parte di scarsa utilità agli studi moderni, aperta poche ore in due soli giorni della settimana, senza il corredo di un catalogo razionalmente compilato, e via dicendo, ch'io non ho da ripetere quanto fu in quell'articolo opportunamente osservato.
Io non so se quella proposta sia per trovare favorevole accoglimento; né se il disegno possa tradursi in effetto nei modi che il giornale suggerisce; so, invece, e ne sono profondamente convinto, che, ora piú che mai, importa che l'Italia si faccia piú colta, e però della coltura sieno moltiplicati gli organi divulgatori.
E perché il credere ciò e il desiderarlo non basta; se non altro per dare il buon esempio, metto fuori anch'io la mia proposta: ora, per quando il disegno si concreti mi fo lecito mettere a disposizione dell'istituto, e per esso del comune cui esso appartiene, lire mille per concorrere alle spese d'impianto: mi obbligo altresí a fornire io stesso un certo numero di volumi adatti alla cultura media e popolare; ed a sollecitare la generosità di editori, fidando di ottenerne molti validi aiuti.»
(Ferdinando Martini, lettera al direttore del «Giornale di Valdinievole», Roma 3 febbraio 1919, in Lettere, p. 545).
Martini (1923)
«Mesi sono, sfogliando nella Biblioteca Nazionale di Firenze i carteggi della signora Emilia Peruzzi, in una delle lettere che per lunghi anni, quasi quotidianamente, ella mandò al Magnetta console sardo a Livorno, nelle quali, raccontato quanto di più notevole succedeva in Toscana politicamente parlando, esprime insieme i risentimenti, le speranze, i propositi della parte liberale, che nel marito Ubaldino riveriva un dei capi più esperti e autorevoli: in una di quelle lettere lessi, non senza molta maraviglia, queste parole: «Jeri l'altro sera fu offerto un banchetto alla Ristori. Parlò il Martini, e parlò il Busi, ex segretario del Montanelli; e capirete che l'Italia fu nominata». Il Martini! chi sa di quale Martini pensò si trattasse la egregia signora o quale lo immaginò? O forse seppe che ero propriamente io? Ma i tempi eran quelli: purchè vi si parlasse d'Italia anche ai versi colascioneschi di un ragazzo di quindici anni si dava l' importanza di un avvenimento politico.»
(Ferdinando Martini, in: Il primo passo, p. 181-189: 188-189).
Masulli (1960)
«Nel 1942 avevo cominciato a pubblicare i miei primi versi su di un settimanale romano, quando la lettura della lirica ungarettiana, fatta quasi per caso nella Biblioteca Nazionale [di Roma], mi aprì nuovi orizzonti. Capii che l'essenzialità del linguaggio che cercavo di realizzare era ben viva nel Sentimento del Tempo; un letterato amico affermò che certo essa «circolava nell'aria». In seguito ebbi occasione di conoscere Giuseppe Ungaretti nel suo primo anno d'insegnamento presso l'Università di Roma e il suo caro incoraggiamento e altre disparate letture – Baudelaire fu un'importante scoperta – mi spinsero a più accese fantasie. Parlavo pochissimo, ma lentamente le giornate si maturavano.»
(Biagia Marniti, testimonianza per Ritratti su misura, p. 264)
Mazzariol (1992)
«[Giuseppe Mazzariol] Mi raccontò una volta di aver passato tutta un'estate in biblioteca [Querini Stampalia] e di aver letto in quel tempo anche tutto Leopardi, Zibaldone compreso. Finito che ebbe uscì un pomeriggio nel sole e sostò sul ponte (quello a lato dell'attuale ponte d'accesso scarpiano che all'epoca non esisteva), giurando a se stesso di non mettere più piede in biblioteca, dove gli sembrava di aver disperso troppo del suo tempo di adolescente: per tornarvi invece su invito di Dazzi, dopo la guerra, quando ancora Venezia e in Venezia la Querini, erano luoghi deputati all'incontro della più bella intellettualità: rammentava tra gli altri Carlo Izzo, Aldo Camerino, Diego Valeri, Neri Pozza.»
(Giorgio Busetto, Ricordo di Giuseppe Mazzariol nel primo anniversario della morte, in Giuseppe Mazzariol, Lo spazio dell'arte, Paese (TV), Pagus, 1992, p. V-VI: V).
Mazzocchi Alemanni (1955)
«Un mattino d'inverno, sulla soglia dell'illustre, silenzioso salone [della Biblioteca Angelica] dove gli eruditi habitués (storici della riforma, studiosi dell'agostinismo, editori di testi delle origini) andavano mano a mano sprofondando negli abissi della recherche o addipanando sottilissimi fili nel labirinto della memoria del mondo, sulla soglia dunque del vanvitelliano salone apparve da essa timidamente affacciandosi un omino dagli abiti lisi e dall'aspetto umiliato dell'operaio senza lavoro. Veniva dalla Borgata Gordiani o dalla Garbatella, non so. E, richiesto della ragione della sua presenza (il primo moto da parte del custode era stato di sospetto) rispose, mentre gettava un'occhiata tra vergognosa e avida, ai dorsi delle migliaia di volumi allineati negli alti scaffali; «Voglio un libro». E chiestogli quale fosse il libro desiderato, insistette nel «limitare» il suo desiderio («Un libro») e, insieme, estendendolo, allargandolo all'infinito. Gli eravamo intorno noi della biblioteca come ad un messaggero misterioso e impossibile (la Borgata Gordiani, la Garbatella), come a un profugo (esemplare) che dall'assedio dei fogli rosa sportivi, dei lucidissimi rotocalchi, dei variopinti e scomposti e stupidamente ottimistici western delle buste a trenta lire, s'era aperto un varco, un passaggio. Un varco; ma disperato inutile, come sprovveduto passero nel gelo, nell'orrore sacro di quella foresta di incunaboli, di cinquecentine, di in folio. Tanto che lo si consigliò di rivolgersi a qualche bibliotechina popolare (eravamo poi sicuri che esistesse?), di tentare altrove.
Ne sentii il passo spegnersi lungo la scala arcadicamente elegante. Il silenzio del salone dilagò nuovamente, sottolineato dal ticchettio discretissimo della Leica del professore di Cambridge che microfilmava alcune glosse euripidee.»
(Muzio Mazzocchi-Alemanni, Incunaboli e fumetti, p. 175-176).
Mazzoni (1917)
«Mio carissimo Fortunato [Pintor], mi son rifugiato quaggiù, a pian terreno, per queste due ragioni: che in Biblioteca [del Senato] c’era, lì vicino a me, Benedetto Croce; e che egli aveva messo in moto il ventilatore. Ora, pur troppo, in Italia, già abbastanza non si può nominare la critica, e tanto meno parlarne, senza rammentare La Critica e Benedetto Croce, e parlare di lei e di lui invece che della critica col c minuscolo. E quella macchinetta stridente e lanciante a sbuffi cadenzati dei getti d’aria mi sviava e raffreddava le idee. Sono in salvo. Posso scrivere. E se, a pienissimo Suo agio, Ella vorrà leggere, lo farà; se no, no; a me basta, egoisticamente, illudermi d’un uditore come Lei, e godermi questa aria ferma e, qui nella saletta, avendo accanto il [Luigi] Dorigo, di faccia il [Di] Camporeale [Paolo], essere sicuro che i miei pensieri sulla critica non saranno fraintesi, torturati, polemizzati! Che se Lei obiettasse con Giovenale: – Semper ego auditor tantum? – (come lo tradurrà mai quel nostro giovenalesco di [Guido] Carpegna?), Le risponderei: – Animo! Mi risponda, e imparerò qualcosa in più; perché Ella, senza voler parere, è un solenne obiettatore e serio suggeritore d’idee.»
(Guido Mazzoni, lettera a Fortunato Pintor, Roma 29 giugno 1917, p. XXXI).