L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Mazzoni-Croce (1894-1909)
«uno studente di qui, il sig. [Aurelio] Lancetta, nel lavorare sul Menzini avrebbe bisogno di vedere ciò che ne ha scritto certo signor G. Magrini, che pubblicò costà a Napoli nel 1885 una memoria su quel poeta. Dalla Biblioteca Nazionale rispondono che non l’hanno; non sembra probabile; ma forse si troverà altrove, o nelle biblioteche o da’ librai. Le sarò grato se cercherà aiutare il nostro studente: e se ci sarà spesa, naturalmente sarà a carico mio.»
(Guido Mazzoni, lettera a Benedetto Croce, [Firenze, 18 dicembre 1894], p. 14).
Il riferimento di Mazzoni è a: Giuseppe Magrini, Studio critico su Benedetto Menzini, Napoli, La Cava, 1885 (oggi conservato presso la Biblioteca nazionale di Napoli con la collocazione: Colagrosso 148).
«Le domando una notizia che forse non potrà procacciarmi se non al Suo ritorno a Firenze. Ma non c'è fretta.
Giulio Cesare Cortese, grande poeta in dialetto napoletano, si dice, in alcuni suoi scritti del 1608, "accademico della Crusca detto il Pastor Sebeto".
A me interesserebbe assai conoscere se in documenti, storie manoscritte o libro a stampa, serbati nell'Accad. della Crusca, si abbiano notizie del Cortese, il quale visse alcun tempo a Firenze, nei primi anni, credo, del secolo XVII. Vorrei anche sapere se il Pastor Sebeto era il nome che prese come accademico della Crusca. Immagino che debbano esservi registri di accademici o biografie di essi»
(Benedetto Croce, lettera a Guido Mazzoni, Napoli 1° novembre 1909, p. 91-92).
«Tornato ieri a Firenze ho fatto subito la ricerca. Giulio Cesare Cortese non apparisce tra gli accademici della Crusca. Ciò non può bastare a dire che non fu, perché il vecchio archivio dell'Accademia andò pur troppo in parte disperso, nella soppressione che dell'Accademia fece Pietro Leopoldo. Ma non è probabile che fosse, perché qualche traccia se ne troverebbe. Nel Nuovo dizionario storico di Bassano (quello del Verci [***], ecc., del 1796) trovo che un Giulio Cortese napoletano del sec. XVI "pare che differisca da Giulio Cortese di cui abbiamo la Vajasseida, poema eroico, la Rosa favolosa, e altri poemi napoletani impressi dal 1628 in poi". Pastor Sebeto non potrebbe in nessun caso essere il titolo di lui nella Crusca».
(Guido Mazzoni, lettera a Benedetto Croce, [Firenze] 6 novembre 1909, p. 92-93).
Meneghello (1964a)
«È strano pensandoci, che non mi ricordi piú come apprendessimo invece la caduta del regime; eppure dovrebbe essere un ricordo-base. Invece niente. [...] Ad ogni modo noi eravamo disorientati: nell'attimo in cui il regime si squagliava come i rifiuti superficiali di un letamaio sotto l’acquazzone, diventava chiaro che la cosa era ormai di poco conto: ciò che contava era la confusione in cui restavamo, la guerra, gli alleati-nemici, i nemici-alleati.
Io e Lelio andammo alla bibliotechina di Tarquinia a cambiare i libri. C’era un ritratto del Re Imperatore in mezzo al muro, a sinistra un ritratto di D’Annunzio, dall’altra parte un riquadro sbiancato, nel posto dov’era stato il Duce. Lelio montò su una sedia, tirò giú il Re Imperatore e lo appoggiò al muro, per terra; poi allungò le mani per prendere D’Annunzio. La signora bibliotecaria arrossí violentemente e disse: "Eh no, perbacco, quello no: quello è D’Annunzio!". Lelio disse: "Appunto", e lo mise al muro vicino al suo Re. La bibliotecaria stava per mettersi a piangere, mormorava: "Ma è il poeta della terza Italia", o quarta che fosse, adesso non mi ricordo. Ma noi inflessibilmente li passammo tutti e due per le scarpe, poi Lelio si mise a guardare il crocifisso che era restato solo sopra ai tre riquadri sbiancati. La bibliotecaria si sbiancò anche lei come i riquadri, ma dopo un po’ Lelio distolse lo sguardo dal crocifisso, e la bibliotecaria ridiventò rossa, e ci cambiò i libri. Mancava il verde.»
(Luigi Meneghello, I piccoli maestri, p. 28-29. Le edizioni più recenti presentano numerose piccole varianti).
Meneghello (1964b)
«l’insurrezione di Padova fu un fatto abbastanza importante, la nostra felice trovata di primavera; eravamo nelle strade, armati, eccitati, giovani: finiva la guerra con notevoli atti e spari [...].
Cominciavano le sfilate, i cortei; turbe di gente col bracciale, marciavano risolutamente, chi cantando chi sventolando qualcosa. Comparivano bandiere alle finestre; quelle con lo stemma del re mi facevano una certa rabbia, quelle senza mi parevano strambe, come quando uno s’infila il maglione alla rovescia. Un po’ alla volta mi veniva un’assurda voglia di ritirarmi subito da questa storia, di andare in biblioteca quella mattina stessa, e prendere un libro, e cominciare a studiare. A parte il fatto che la biblioteca sarà stata chiusa.»
(Luigi Meneghello, I piccoli maestri, p. 352, 358. Nelle edizioni più recenti il testo presenta numerose piccole varianti e si conclude con «mettermi a studiare. A parte che la biblioteca era chiusa.»)
Meneghello (1976a)
«Concetto Marchesi faceva lezione nell'aula più grande del Liviano [...]. Era sempre strapiena. Le lezioni erano sentite come eventi mondani [...].
Mi sono messo a ripensare al suo manuale, quello in due volumi (ce n'era uno minore): forse il solo caso a Padova in cui il manuale di maggior prestigio sulla materia era proprio quello dell'insegnante del corso. L'ho cercato tra i libri di scuola di S., ma non c'è più [...].
Come mai che in tanti anni non abbiamo mai voluto tornare un po' a vedere? Mi viene l'idea che forse questi libri sono ancora adottati nelle scuole, libri noti a tutti. D'altra parte per me ricomprarli in libreria o cercarli in biblioteca è tabù, e mi pare che sarebbe tempo sprecato parlarne con un lettore contemporaneo. Qui conta ciò che questi libri erano allora, nel 1940. Sarà per questo che non li abbiamo più riletti. [...]
Ho riaperto il volume secondo della Storia della letteratura latina (come si prendeva per naturale che fossero storie!), con quel tanto di trepidazione e di affettuosa sufficienza con cui si riguardano le cose ammirate da ragazzi.»
(Luigi Meneghello, Fiori italiani, p. 895, 897-898. Questi brani si riferiscono agli studi universitari dell'autore alla Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Padova. La Storia della letteratura latina di Concetto Marchesi fu pubblicata per la prima volta a Messina e Roma dall'editore Principato, in 2 volumi, nel 1925-1927, ed ebbe poi numerose edizioni successive.).
«In filosofia c'era un po' di più che a lettere il senso di formare un gruppetto.
Ci si trovava nella biblioteca dell'istituto, si conosceva qualche studente bravo, qualcuno praticamente già filosofo.»
(ivi, p. 906).
Meneghello (1976b)
«Devo ora parlare dell'uomo che fu il maestro di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo. L'incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento), la conclusione della nostra educazione.
Poiché non è sopravvissuto alla guerra (morì a 32 anni, nel dicembre 1944) è naturale che la sua figura sia restata per noi nella luce in cui la vedemmo allora [...].»
(Luigi Meneghello, Fiori italiani, p. 943).
«Viveva dando lezioni private. Non poteva insegnare nelle scuole perché non voleva iscriversi al fascio. Era questa la cosa che per prima ci faceva sgranare gli occhi conoscendolo, il primo segno di una qualità ignota all'ambiente culturale in cui eravamo cresciuti. Passava gran parte del tempo libero a studiare in biblioteca, e un po' a discutere di libri e di idee con qualche coetaneo amico. Cominciò a interessarsi di noi proprio nell'estate del 1940, nei mesi del lutto e delle lagrime: forse anche per reazione a ciò che pareva l'ultima catastrofe.»
(ivi, p. 950-951. La biblioteca a cui ci si riferisce è la Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza).
«Non si andava a spasso con lui. Non faceva quelle passeggiate oziose, vicentine, superficialmente socratiche, di altri personaggi della "cultura" locale. Di solito era diretto in qualche parte, da un amico, alla biblioteca, alla stazione: lo si accompagnava in due o tre, qualche volta anche in Corso, più normalmente per le straducole, le piazzette, sotto i portici. C'era spesso qualche bicicletta spinta a mano. Lo si riaccompagnava a casa, si saliva nella stanza al secondo piano. C'era un letto di ferro, qualche sedia piena di libri, e libri ammucchiati o sparsi dappertutto. Si stava a chiacchierare seduti sul letto o sui mucchi dei libri.»
(ivi, p. 953-954. Questi ricordi si riferiscono all'autunno del 1940).
Meneghello (1976c)
«La libertà di Antonio [Giuriolo] era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici. L'alimento stesso della vita intellettuale e morale. "Libero" come attributo delle cose umane credo che fosse per lui indistinguibile da "vero", "reale": tutto ciò che si genera di fatto negli animi degli uomini liberi; tutto ciò che sono capaci di creare. Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà [...].
Naturalmente questa non è una posizione politica se non nel senso più lato. Questa è semplicemente una religione. Per la piccola lapide che fu murata su una porta interna della biblioteca Bertoliana (pareva la più giusta commemorazione possibile) fu Franco [Licisco Magagnato] a scrivere le parole. Ho qui davanti il piccolo autografo.
In tempi servili
qui cercava rifugio
nella storia e nella poesia
qui nell'attesa
insegnava la dignità del cittadino
Antonio Giuriolo
partigiano medaglia d'oro
cresciuto e caduto per la religione
della libertà
La terz'ultima e la penultima parola, già incise sulla lapide, furono cancellate per disposizione del sindaco, in base all'argomento che di religione ce n'è una sola; e pare che Franco, furibondo, abbia tentato invano di sostenere che quella è invece la mamma. In verità il sindaco non era uno sciocco, e quando Franco si fu calmato, gli fece capire che "la religione della libertà" era un'espressione giustissima, ma inopportuna. È un tipo di argomento che in altri contesti è ancora molto usato in Italia. Forse la verità è sempre inopportuna. (La lapide non fu rifatta, soltanto si cancellarono le parole lasciando le righe curiosamente sbilanciate: e inoltre ciò che fu cancellato fu il colore delle lettere, ma siccome erano anche incise, si leggevano ugualmente. Quasi quasi la lapide sembrava più bella così; e mi dispiace un po’ che sia stata in seguito ripristinata nella sua forma originale.)»
(Luigi Meneghello, Fiori italiani, p. 946-947. La lapide fu inaugurata il 26 settembre 1948).
Meneghello (1978)
«Qualche anno più tardi, al tempo della pubertà e dei Sepolcri, arrivò infine dalla lettura la rivelazione che i girini disseccati nelle grondaie possono sopravvivere ai lunghi mesi dell'arsura finché il primo fiotto dell'acqua piovana li riporta in vita, pronti a ripigliare il loro piccolo viaggio alla rana. Così gli uomini opportunamente asciugati potrebbero valicare i secoli e risvegliarsi nel mondo del lontano futuro: Al di là delle tenebre, titolo del primo vero racconto di fantascienza trovato da S. in due vecchi numeri della «Lettura». La gente con la testa rapata a zero, in tute aderenti, gli aeroplanini piccoli come un monopattino... [...]
Dagli anni della pubertà, S. visse gran parte del tempo in una città quadrata, divisa in quattro settori uguali, uno per le case, uno per le biblioteche, uno per i campi sportivi, e uno per le fabbriche. Grandi viali rettilinei, edifici di vetro, geometrici; dappertutto automobili da corsa, intermedie tra le Alfa e le Auto Union degli anni Trenta, strapotenti, guidate dolcemente al passo da giovanotti abbronzati in tuta. Tutto era stato previsto o progettato con minuziosa precisione: le sale di lettura, i carburatori delle macchine, i concetti di fondo, gli spazi, gli orari di vita, le suppellettili, gli accessori. [...]
Opposta alle irrelevancies del mondo presente, questa città dell'armonia si chiamava col nome dell'associazione fondata per fondarla, Vam, nome di cui S. non svelò a nessuno il segreto. Era un nome femminile, «la Vam»: che veniva puerilmente storpiato in «Navàm», maschile, [...] e attecchì infine nella versione deformata.
Il Navàm sorgeva in un'isola del Pacifico le cui coordinate non intendo mettere ora in piazza; trovata per caso in un atlante era apparsa subito perfetta, un triangolo netto, col cerchio d'una baia inscritto al centro. Apparteneva alla Francia, e ovviamente occorreva anzitutto farsela dare dalla Francia. Ma vuoi che la Francia non ce la desse?
Non ci sono dati precisi sulla popolazione del Navàm: era composta di giovanotti, e probabilmente immunizzata contro il passaggio del tempo. Non c'erano classi sociali. Tutti lavoravano in fabbrica quattro ore al giorno: poi quattro ore a leggere in biblioteca e quattro a fare atletica al campo sportivo. Non c'era governo, a parte la consuetudine di fare sempre quello che voleva S.: il quale però rimaneva un cittadino privato, e senza alcun privilegio. Nelle case di vetro c'erano camere identiche, e in ciascuna tre soci, il che produceva numeri interessanti. Ci furono riimovati tentativi di persuadere S. che sarebbe stato più dignitoso avere una camera per ciascuno, ma i soci nelle camere restarono tre.
La città è ora vuota e diroccata, uno strano period-piece, dove si stenta a credere che la gioia, la lettura e la vita fiorissero con tale rigoglio.»
(Luigi Meneghello, Al di là delle tenebre, in Jura, p. 1022-1025: 1024-1025. Il racconto fu pubblicato per la prima volta il 24 marzo 1978 sul quotidiano «La stampa» col titolo Certi modelli e poi raccolto nel volume Jura: ricerche sulla natura delle forme scritte, edito nel 1987 a Milano da Garzanti).
Menghini (1901)
«Il Chiarini, nel suo recente volume sul Carducci ha offerto notizie sul genere di vita che il poeta conduce a Bologna. [...] A Roma cambia notevolmente d'abitudini. Si alza verso le otto se è d'inverno, verso le sette se d'estate [...], e quindi esce per andare al Senato, da quando è senatore. Gli anni avanti era solito rintanarsi nella Biblioteca Casanatense, dove il fedele [Edoardo] Alvisi teneva a sua disposizione una stanzetta per studiare. Ad ogni modo, anche in Senato il luogo prediletto dal Carducci è pur sempre la biblioteca. Colà, curvo sul tavolino, legge, prende appunti, corregge prove di stampa, scrive lettere: insomma è sempre alle sue occupazioni preferite. Conosce pochissimi senatori, coi quali si ferma di rado a discorrere, se si eccettui il senatore [Giovanni] Mariotti, che, messosi alle coste del Carducci a tempo del centenario leopardiano, non gli diede piú pace, finché non ottenne da lui: l'accettazione della presidenza della commissione per le onoranze al poeta recanatese, la promessa d'un discorso a Recanati, l'altra di sorvegliare la stampa dello Zibaldone, tutto, insomma, ciò ch'egli volle. Ma il cannone di mezzogiorno toglie il Carducci dai suoi studî; egli vuole andare a mangiare e attende con impazienza il nostro giungere.»
(M. [Mario] Menghini, Il Carducci a Roma, «Rivista d'Italia», 4, vol. 2, n. 5 (maggio 1901), p. 126-136: 130-131. Alvisi diresse la Casanatense dal 1886 al 1893; Carducci fu nominato senatore nel dicembre 1890).
Mercati (1893)
«La ringrazio delle notizie letterarie, che mi dà. Intorno all'anonimo del Bianconi avevo potuto sapere qualche cosa di vero in una corsa, che ho potuto fare a Modena all'Estense (là mi tocca sempre andare, quando voglio studiare un poco ammodo). Ma le notizie, che Ella mi dà, sono compiute, e con sua licenza me ne servirò in una nota d'un articolo su certi frammenti esaplari, che domani o posdomani le invierò [...]. Come si fa a pur pensare ad argomenti serii, dove purtroppo so non avere mezzi per trattarne convenientemente?»
(Giovanni Mercati, lettera a Antonio Maria Ceriani, Roteglia 18 agosto 1893, p. 136-137).
«Prima di partire da casa ricevetti di ritorno quel mio articolo con le sue osservazioni. [...] Due o tre inesattezze provengono dal difetto di libri, così che talora sono costretto di citare dietro schede ed appunti senza potere riscontrarle di nuovo. E.g. il Field non l'ho potuto studiare che scarsamente durante il mio servizio militare, e dopo non l'ho potuto più avere alla mano, che per una mezz'ora alla Vittorio Emmanuele di Roma durante il Pellegrinaggio del Febbraio u.s. Lo stesso dica dell'Agellio etc. Quando poi faccio una scorsa ad una Biblioteca provvista, ho tanti dubbi e tante questioni da risolvere, che non posso studiare con tutta la calma e verificare con tutta la precisione gli appunti fatti. Ed il Can.co Archid. [Francesco Gregori], che pure è la persona più dotta di qui [Reggio Emilia], non capisce, come io non possa studiare benissimo anche qui! e pure ben conosce quanto io sia povero e quanto più poveri di libri di scienza ecclesiastica siano le nostre biblioteche!»
(Mercati, lettera a Ceriani, Albinea 29 agosto 1893, p. 142-143. Mercati aveva fatto il servizio militare a Firenze e aveva probabilmente studiato il testo di Origene curato da Frederick Field alla Biblioteca Medicea Laurenziana. L'opera di Antonio Agelli (1532-1608) a cui si riferisce non è identificata).
«A Roma invece stavo assai bene, perché recandomi sempre o quasi sempre pedone alle Biblioteche, di cui la Vaticana m'era assai lontana, od a visitare le antichità faceva il moto necessario che mi liberava dagli incommodi della vita sedentaria degli studiosi. [...]
Ora sono nel Seminario di Reggio, dove insegno fino a che torni da Firenze l'amico che mi sostituisce, e dove lavoro da facchino nell'ordinamento della Biblioteca. Io fo questo per amore del Seminario e perché il S.r Rettore mi s'è raccomandato caldamente: nessuno de' miei colleghi è così libero, o, dirò meglio, così pratico di libri e così di buona voglia da pur metterci mano. Una libreria, di cui non c'è nessuno pratico, di cui non c'è catalogo alcuno, e dove i libri sono alla rinfusa, non può prestare alcun servigio ai poveri studiosi delle nostre scuole.»
(Mercati, lettera a Ceriani, Reggio Emilia 29 ottobre 1893, p. 164-165).
Mercati (1895)
«Iersera alle 11 giungeva finalmente a casa, dove alquanto riposato stendo una breve relazione del mio viaggietto.
Il 28 Luglio u.s. giunto a Modena, nel pomeriggio fui alla Capitolare, dove da un eccellente Messale Gregoriano del IX-X secolo copiato "ex authentico Romanae bibliothecae" ho tratto l'antica messa di S. Prospero. I tre giorni seguenti ho collazionato all'Estense l'Historia Miraculorum del d.o S.o da un codice, che rivela manifestissimamente le interessate corruzioni e mutilazione di quel testo importante per la storia del culto del S.o.
Il 1° d'Agosto fui a Bologna all'Universitaria a riscontrare una decina di codici greci omessi nel Catalogo stampato pochi mesi fa dall'Olivieri sotto la direzione del Prof. Puntoni. Parecchi di questi Codici sono importanti. Per me ho notato un Codice dei Profeti.
Il 2° faceva a Ravenna la restituzione del manoscritto di S. Ambrogio [all'Archivio diocesano]. L'E.mo Card. Arcivescovo volle che io lo racconciassi alla meglio, ne numerassi i fogli e lo assicurassi come sono assicurati i nostri mss. in fascio. L'ho fatto, e, credo, non male. Nel frattempo frugai per tutti gli antri dell'Archivio in cerca di altri fogli del S.t'Ambrogio: in vece d'essi trovai sopra uno scaffale altri tre fogli del mss. della Vulgata del sec. V°, tutti degli Atti Apostolici. Li ho copiati, come pure ho copiati quattro foglietti di Daniele in una scrittura minuscola vicina assai alla semiunciale, la cui età certo assai antica non saprei definire. A prima vista mi parvero dall'8 al 9 secolo: ma ora ne dubito. Il testo è quello della Vulgata.
Cogli stessi foglietti di Daniele e nello stesso formato era un codice delle Vitae Patrum in semiunciale dell'8° secolo circa. Ho riattato alla meglio queste reliquie, indicandone il contenuto e raccomandandole alla custodia dei presenti e dei futuri Archivisti, che forse chi sa cosa avrebbero lasciato farne.
Lunedì 5 [partii] alla sera per Faenza e Martedì mi recai alla Laurenziana a Firenze, dove passati una decina di passionarii contenenti la Vita di S. Prospero volli osservare un poco tutte le Catene greche sul V.o T.o e specialmente il Commentario in Iob del Crisostomo. Non v'è alcun codice del Commentario sui Salmi dello stesso. Delle Catene ve ne è appena due o tre che possono competere colle nostre, o almeno tenere loro dietro a una distanza non troppo grande. I Codici di una certa importanza paionmi Plut. V Cod. XIV e XXX, e IV: Plut. XI Codd. 4 e 5.
Indi venni a Pistoia, dove ho studiato tre giorni. La Fabroniana [ma Leoniana?] e la Forteguerriana non hanno nulla d'importante per i nostri. La Capitolare invece è eccellente: l'ho spogliata tutta, perché le indicazioni dello Zaccaria sono insufficientissime, e le segnature sono tutte mutate. Molti mss. di SS. Padri e della Bibbia latina, e 6 o 7 collezioni di Canoni dei Sec. XI-XII: tre o 4 antifonarii coi neumi della stessa età incirca etc. Ivi è una copia della versione latina del trattato di Grossolano; e a risguardo di due manoscritti due fogli in unciale di due Messali Romani, di cui uno più antico direi dell'VIII sec. se non mi paresse la minuscola dei responsorii assai meno antica. Avrei terminato la copia di questi, se proprio all'ultima ora non mi fosse toccato di sostenere la conversazione del Canonico introduttore e d'un altro Giovane, a cui mi raccomandarono dessi instruzioni per la compilazione d'un catalogo della ricchissima collezione di stampe di musica sacra del 1500 e 1600. Terminerò altra volta in passando. I S.i Canonici, che non si raccapezzano in quella Biblioteca quando vengono forestieri a chieder Codici né loro danno tanta libertà di ricerche come a me prete per eccezione, volevano che io ne facessi per loro uso un catalogo, che li traesse d'imbroglio. Risposi, che ora non poteva. Certo è deplorevole, che nessuno di loro s'intenda e si occupi di quel bell'Archivio. [...]
In conclusione: ho fatto un viaggettino abbastanza istruttivo e fruttuoso per me, e per la stagione non così gravoso come potevasi attendere.»
(Giovanni Mercati, lettera a Antonio Maria Ceriani, Roteglia 10 agosto 1895, p. 171-173)
Mercati (1898-1904)
«Perdoni, se ho fino ad oggi tardato a scrivere la lettera di dimissione [da dottore della Biblioteca Ambrosiana]: durante il viaggio non ne avevo tempo né voglia. – Per l'assenza del P. Ehrle non so ancora che mi dovrò fare. – Ieri per curiosità esaminai il cod. 264 d'Holmes - Parsons; è singolare assai, e nella catena (tra cui si trovano gli scoli esaplari) è diverso assai dal nostro Palinsesto Ambrosiano. Lo studierò meglio. A Firenze [nella Biblioteca Laurenziana] trovai un fratello maggiore del C 98 Sup., meglio conservato e più antico di lui. Per me è una ventura, potendolo avere a prestito.»
(Giovanni Mercati, lettera ad Antonio Maria Ceriani, [Roma] 2 ottobre 1898, p. 175-176)
«Finora ho potuto studiar poco, perché abito lontano dalla biblioteca, e non vi posso tornar il dopo pranzo. Da qui innanzi, vi resterò fino alle 4 1/2 pomeridiane, e allora potrò spingere avanti i lavori costì incominciati. P. Ehrle è benissimo disposto per me e per i miei studî, e mi è largo di tutte le agevolezze che può farmi. E ringrazio Lei, che alla venuta di lui costì, volle parlargli in mio favore rammentandogli le mie strettezze. P. Ehrle ne fu tocco, e me lo disse appena giunse. Così io spero, che a tempo opportuno mi si provvederà convenientemente.
In biblioteca c'è da lavorare non poco; ma lo fo volontieri, perché veramente ce n'è di bisogno.»
(Mercati, lettera a Ceriani, Roma 4 novembre 1898, p. 182).
«Finora io mi debbo sacrificare affine di mettere assieme col buon Padre Ehrle in assetto questa biblioteca. Decine di migliaia di volumi giacevano in angoli; e persone che da 10 e 20 anni sono qui non ne sapevano e non ne curavan niente! È un orrore, perché intanto si spendeva e si correva il rischio di spendere per colmare lacune, che esistevano solo nella mente nostra. E poi, fuori del P. Ehrle, nessuno s'intende di libri, o ci ha passione: vorrebbero avere la pappa fatta, cioè trovar pronto quello che loro bisogna, senza far fatica. Ed è pure orribile a dirsi, che delle publicazioni fatte da personaggi della Biblioteca qui non se [ne] trova quasi nessuna: [...] eppure vivono e scampano alle spese della Biblioteca senza aiutarla; e se occorre, vedendo di mal occhio e facendo guerra a che vi si dedichi disinteressatamente con tutto il cuor suo. [...]
Dopo scritto quanto sopra, mi era come pentito, e voleva sopprimere la lettera; ma pensando che con Lei mi posso confidare pienamente, e che forse non Le sarà nemmeno inutile sapere certe cose e certi nodi, che una volta o l'altra dovranno pur venire al pettine, lascio correre. Così saranno tanto più contenti della loro e mia Ambrosiana, dove si vive in famiglia, e dove così alla buona c'è un ordine e c'è un catalogo quale sarà ventura aver qui dopo anni ed anni.»
(Mercati, lettera a Ceriani, Roma 7 marzo 1899, p. 190-192).
«Purtroppo qui [alla Biblioteca Vaticana] mancano certi libri, ma spero che presto avremo un sussidio straordinario per acquisto di libri biblici, e allora mi provvederò.»
(Mercati, lettera a Ceriani, Roma 25 gennaio 1904, p. 235).
Messedaglia (1929-1930)
«Illustre Maestro,
nel mentre La ringrazio del Suo gentilissimo biglietto, La informo che non sono riuscito a saper nulla circa la provenienza alla nostra Comunale del volume vichiano, di cui Le ho scritto giorni fa. Del Bianchini la Comunale non possiede carte; a parte 125 lettere copiate dagli autografi posseduti dal bolognese conte Giovanni Gozzadini: lettere da Roma, 1701-1729, dirette ad Alessandro Maria Gozzadini.»
(Luigi Messedaglia, lettera a Benedetto Croce, Verona 7 marzo 1929, p. 6. La corrispondenza precedente su queste richieste d'informazioni non è conservata).
«La informo (certo di non farLe cosa sgradita), che nelle carte del Bianchini, conservate presso questa Capitolare, non esiste nulla del Vico. Del pari, nulla del Vico nel carteggio di Scipione Maffei, anche conservato nella nostra Capitolare.»
(Messedaglia a Croce, Verona 24 marzo 1930, p. 7).
Messedaglia (1950)
«Quaranta anni di vita pubblica non mi hanno dato che poche soddisfazioni, e molte amarezze; e alla camera dei deputati (dove entrai giovanissimo, nel 1909), e in senato, ho sempre finito col preferire, alla vita dell'aula e dei corridoi, quella della biblioteca!»
(Luigi Messedaglia, lettera a Benedetto Croce, Arbizzano da Valpolicella, 1° giugno 1950, p. 47)
«entrato, nel novembre 1909, nella Camera dei deputati, giovane e brillante deputato, per Verona I, frequentai, più che l'aula, la biblioteca: dove conobbi La critica e i volumi del Croce. Rimasi conquistato. Mi procurai subito tutte le cose del Croce. Con lui, sino al 1929, non ebbi che relazione epistolare, cominciata nel 1913. Nel 1929, entrato in Senato, mi affrettai a rendergli omaggio: erano i giorni, ricordo, della discussione dei patti lateranensi. Egli fu con me amabilissimo»
(Luigi Messedaglia, lettera a Fausto Nicolini, 7 marzo 1950, p. VIII, con refuso nella data 1909)
Messedaglia-Croce (1945-1946)
«Unisco l'appunto (certo, porto vasi a Samo) sull'autografo di Eleonora de Fonseca Pimentel, indirizzato alla veronese Silvia Curtoni Verza: autografo, che, sino ad ora, non siamo riusciti a rintracciare.»
(Luigi Messedaglia, lettera a Benedetto Croce, Arbizzano di Valpolicella 9 agosto 1945, p. 25).
«Quanto alla lettera della Fonseca, non ho perduto le speranze di rintracciarla: Le saprò dire.»
(Messedaglia a Croce, Arbizzano di V. P. 4 settembre 1945, p. 27).
«Non ho perduto del tutto la speranza di rintracciare la nota lettera di Eleonora de Fonseca a Silvia Curtoni Verza. Certe carte Giuliari sono tuttavia «sfollate»; ma presto faranno ritorno nella Comunale veronese: e forse fra le stesse si potrà trovarla.»
(Messedaglia a Croce, Arbizzano di Valpolicella 5 ottobre 1945, p. 28).
«Non mi sono dimenticato di quella tal lettera di Eleonora de Fonseca, ricordata dal Montanari nella Vita della Verza. Ma, nella Comunale della mia Verona, le carte Giuliari e Sagramoso, già sfollate, non sono ancora visibili!»
(Messedaglia a Croce, Arbizzano di Valpolicella 19 febbraio 1946, p. 30).
«Illustre Maestro,
finalmente, ritornate ai loro luoghi nella Comunale di Verona, dopo lo sfollamento, le buste delle carte Giuliari, il prof. [Gino] Sandri, direttore della veronese Sezione di Archivio di Stato, vi ha cercato la lettera di Eleonora de Fonseca Pimentel, di cui Bennassù Montanari, a p. 119 della sua Vita di Silvia Curtoni Verza. Purtroppo, la lettera non è stata rinvenuta. Nulla, del pari, nell'«autografoteca», e in altre raccolte della Comunale. Non sappiamo proprio, il Sandri ed io, dove e come quella carta possa essere andata a finire. Distrutta o alienata, no: da che mons. Giuliari era un meticoloso e gelosissimo erudito (lo ricordo in casa mia, più di mezzo secolo fa, quando predicava, che non bisogna mai distruggere carte!).
Ho fatto presente al Sandri la possibilità, che lettere, o ricordi, di Eleonora de F. P. esistano nel carteggio (non ricco, ma sceltissimo) del veronese marchese Michele Enrico Sagramoso, balì di Malta, che visse a Napoli, festeggiatissimo dalla buona società e dai dotti, gli ultimi anni della sua vita [...] e vi morì nel 1791. Ma niente, di E. de F. P., nemmeno nel carteggio Sagramoso. Abbiamo perduto presso che ogni speranza: comunque, cercheremo ancora...»
(Messedaglia a Croce, Arbizzano di Valpolicella 18 maggio 1946, p. 31).
«Grazie di quanto ha fatto per la ricerca della lettera della Fonseca. Sarebbe stata una bella cosa se si fosse ritrovata. Io per quella donna ho una speciale devozione da vecchio napoletano, che ha nel cuore i patrioti del '99.»
(Croce a Messedaglia, 4 giugno 1946, p. 32).
«Non escludo che quella tal lettera di donna Eleonora possa, un giorno o l'altro, «saltar fuori». Il Montanari non può avere inventato; e, d'altra parte, mons. Giullari (che io, da ragazzo, ho conosciuto da vicino) era un meticolosissimo conservatore di carte.»
(Messedaglia a Croce, Arbizzano di Valpolicella 9 giugno 1946, p. 33).
«Illustre Maestro,
[...] ho scoperto — finalmente! — il filo conduttore buono.
Giuseppe Biadego, editore del Carteggio d'una gentildonna veronese (la Curtoni Verza), Verona, 1884, accenna, a p. XII, a una busta della Comunale di Verona, contenente lettere di illustri personaggi alla bella Silvia. Pensai che in quella busta potesse trovarsi la lettera desiderata: collocata nella stessa o dal Biadego, bibliotecario, o, più probabilmente, da mons. Giambattista Carlo Giuliari (che il proto Le ha tramutato in Giuliani). E non mi sono sbagliato. Non potendo io, di questi giorni, muovermi, ho scritto al mio bravissimo Sandri, direttore della Sezione di Archivio di Stato di Verona.
Ora, Lei veda cosa mi dice, in data di ieri, il Sandri (non mi restituisca la sua lettera). La missiva di donna Eleonora, già pubblicata nel 1880 nel Baretti, è certo, se non erro, da identificare con quella, di cui parla, a p. 119 della sua Vita della Verza, il conte Bennassù Montanari; e la destinataria l'ebbe durante la sua dimora partenopea del 1790.»
(Messedaglia a Croce, Arbizzano di Valpolicella 30 novembre 1946, p. 34. La lettera di Sandri non è conservata).
«A proposito del Croce calligrafo: son riuscito a leggere, oggi, senza troppa difficoltà, una sua amabilissima cartolina in data del 5 corr. Egli mi ringrazia, perché, dopo non poche ricerche infruttuose, son riuscito a scovargli, nella Comunale di Verona, una lettera di Eleonora de Fonseca Pimentel, del 1790, alla bellissima (salvo i piedi, che erano brutti) veronese Silvia Curtoni Verza.»
(Messedaglia, lettera a Fausto Nicolini, 10 dicembre 1946, p. 35 nota 1. La cartolina di Croce non è conservata).
Michelstaedter (1906)
«Oggi sono alla Marucelliana e sono attorniato come sempre da gente che mi urta i nervi: uno ‘lalla’, uno chiacchiera a bassa voce, un altro per scrivere fa di quei visi come la signora Pradarutti...»
(Carlo Michelstaedter, lettera alla famiglia, 5 marzo 1906, p. 109)