L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.
Risultati della ricerca
Abbate (1962)
«Trasferitomi a Bari [da Potenza] per frequentare l'Università negli ultimi mesi del '40, intrapresi una singolare corsa col tempo: la 'cartolina rosa' mi raggiunse mentre stavo leggendo le ultime pagine della Storia d'Europa del Fisher. In quegli anni avevo – o forse sarebbe più esatto dire, credetti di avere – bruciato le tappe in una febbrile lotta contro le tenebre. Mentre il mondo mi crollava intorno, con inestinguibile, seppur ingenuo, furore avevo compiuto la mia iniziazione ai valori della civiltà negata e offesa, avevo dato un passato al tragico presente in cui ogni speranza pareva naufragare, avevo allontanato dal mio capo il destino della vittima inconsapevole.
Gli unici ricordi non effimeri di quei due anni e mezzo, relativi alla mia vita personale, sono legati alle centinaia di libri divorati, alle decine di quaderni riempiti di appunti, alle migliaia di ore trascorse al tavolo di studio dall'alba a notte inoltrata, con gli unici intervalli delle corse in biblioteca [Nazionale] a procurarmi altri volumi. Sepolti sotto la polvere degli scaffali e qualcuno nelle casse dei libri vietati, scoprivo in ciascuno di essi (fossero la Politica di Aristotele o i Saggi di Montaigne, la Critica della ragion pratica o gli scritti marxistici di Antonio Labriola) un atto di accusa contro il fascismo, del materiale più esplosivo di qualsiasi bomba o carica di dinamite, la testimonianza di una umanità trionfante sopra le aberrazioni, la certezza della fondamentale superiorità della ragione, dell'invincibile forza della coscienza.
Tutto questo non può che apparire, oggi, estremamente romantico. Ci si può domandare inoltre perché, a parte una possibile azione negli ambienti giovanili fascisti, nei quali pure si discuteva e nei quali non era difficile far valere (come in un paio di occasioni potei constatare) una intelligenza più esercitata e una cultura meno rozza, per seminare il dubbio e indirizzare lo scontento, non pensassi ad entrare in contatto con gruppi di giovani e di anziani orientati in senso contrario al regime, che pure non mancavano nella città di Laterza, dei Fiore, nella città dove si stampavano i libri di Croce, che per me come per molti altri furono in quegli anni la scoperta più significativa e la guida più importante. [...]
Quando, nel febbraio del '43, chiusi in fretta il Fisher e il De Ruggiero, Meinecke e Weber (Thomas Mann e Faulkner, Vittorini, Alvaro e il primo Pavese) e, rimuginando le teorie degli pseudoconcetti e degli opposti-distinti, mi trovai soldato fra i soldati, studenti universitari come me, al corso per allievi ufficiali (che mi rivelava quanto profonde fossero le connessioni fra certa mentalità e certo costume militareschi e l'essenza psicologica del fascismo e come questo facilmente avesse potuto allignare sul terreno storico di tutta una tradizione statale accentratrice e burbanzosamente autoritaria e paternalistica), capii finalmente che avrei potuto dare un senso e uno scopo non egoistici al mio rovello precedente aiutando altri ad aprire gli occhi, a pensare al futuro, alla necessità di costruire una patria più civile.»
(Michele Abbate, in La generazione degli anni difficili, p. 27-44: 33-36).
Alatri (1990)
«Anche la mia embrionale attività di studioso ha ricevuto, dalle leggi razziali, un duro colpo. Non potevo più frequentare le biblioteche pubbliche, né ottenere una cattedra. Sono stato accolto alla Biblioteca Vaticana, ed è lì che, per suggerimento di Gabriele Pepe, studiai un codice vaticano latino che conteneva un centinaio di lettere, quasi tutte inedite, di Federico da Montefeltro, duca d'Urbino, a papi, cardinali, principi, umanisti, pittori, ecc., lettere molto interessanti del decennio 1470-80, che furono poi pubblicate nel 1949 nelle Edizioni di Storia e Letteratura dirette da don Giuseppe De Luca».
(Conversazione con Paolo Alatri, a cura di Eugenio Di Rienzo (1990), in: Studi in onore di Paolo Alatri, 2: L'Italia contemporanea, p. 427-454: 432. Alatri si riferisce al volume, da lui curato, Federico da Montefeltro, Lettere di Stato e d'arte: 1470-1480).
Alfieri (1976a)
«I libri di Croce, come i fascicoli della «Critica», circolavano in cerchie ristrette di amici, che si sentivano come dei congiurati: che anche la cultura, la pura cultura, la ricerca letteraria non contaminata da politica, l’erudizione storica in cui si cercava un’evasione da quella insopportabile vita, era una congiura. [...]
Il silenzio intorno al nome «vitando» continuava; e continuava l’ignoranza dei giovani: chi frequentava le biblioteche allora poteva constatare che i libri di Croce ben raramente erano chiesti in lettura e potrebbe persino testimoniare su un fatto di evidenza psicologica, ma certo non documentariamente provabile, ossia che molti non chiedevano le opere di Croce «per paura di compromettersi». Non vi era quasi biblioteca pubblica in cui un funzionario o almeno un inserviente non fosse una spia gratuita o addirittura stipendiata dell’«Ovra»: credo che ciò, fino ad oggi, non sia stato detto da nessuno, ma è bene che finalmente lo si dica, e vorrei potessero unire alla mia la loro voce, tra quelli che incontravo in biblioteca, anche gli amici morti come Alessandro Casati e Paolo Treves e Gerolamo Lazzeri e Siro Attilio Nulli, oltre ai vivi come Piero Treves, Francesco Perri, Carlo Cordié e alquanti altri. Chi si avvicinava al banco delle riviste per consultare la «Critica», chi era troppo povero per essere abbonato o troppo pauroso per compromettersi con un abbonamento che significava essere tosto iscritti nelle liste nere della polizia, lo faceva con passo furtivo, con aria guardinga, e consultava la rivista al banco stesso, magari tenendone aperte insieme altre due, e cercando il più possibile di passare inosservato. Episodi di bassezza che parrebbero incredibili, se non fossimo certi che i nostri ascoltatori hanno letto e ben ricordano il loro Tacito.»
(Vittorio Enzo Alfieri, Croce e i giovani, in Maestri e testimoni di libertà, pp. 9-34: 26-29).
Alfieri (1976b)
«Meno noto un altro episodio, che non torna certamente ad onore delle autorità di Curia, il divieto di entrare nella Biblioteca Vaticana, spiegato in una lettera del novembre 1932 inviata da Zanotti-Bianco a un molto olimpico Reverendo Padre che gli aveva chiesto notizie dell’accaduto. Il capo della gendarmeria pontificia, in seguito alla vibrata protesta dello studioso italiano che gli spiegava chiaro e tondo la sua qualità di antifascista, non sapeva che rispondergli alquanto confuso: «Sa, sono norme di buon vicinato».»
(Vittorio Enzo Alfieri, Zanotti Bianco e la politica di un impolitico, in Maestri e testimoni di libertà, pp. 179-194: 192).
«Nemmeno frequentare le pubbliche biblioteche fu più concesso a questi novelli intoccabili; e perciò il [Adolfo] Levi, ridottosi ad abitare a Roma, poté frequentare solo la Biblioteca Vaticana la quale, se era stata qualche volta preclusa ad antifascisti come Zanotti-Bianco, fu invece poi generosamente aperta agli studiosi ebrei che l’Italia ripudiava.»
(Vittorio Enzo Alfieri, Omaggio ad Adolfo Levi, in Ivi, pp. 268-273: 270-271).
Alfieri (1976c)
«In Milano offrivano luogo di diuturno ritrovo le biblioteche, specialmente Brera, dove nella sala riservata si potevano incontrare quasi ogni giorno Paolo Treves e il fratello suo Piero, Francesco Perri, Gerolamo Lazzeri, Giovanni Pioli e tanti altri «intoccabili».»
(Vittorio Enzo Alfieri, Ricordo milanese di Ernesta Battisti, in Maestri e testimoni di libertà, pp. 213-242: 215).
Alfieri (1986a)
«La «Critica», come si disse, poté continuare; e con stile scopertamente sferzante nei primi anni del regime, poi con più accorto ma trasparente linguaggio, continuò la sua opera di difesa della libertà accanto al mai intermesso lavoro di promozione della cultura, di ricerca del vero. Cosí la «Critica» divenne una bandiera, un simbolo, una specie di tessera di riconoscimento fra lettori che dapprima non si conoscevano; ed è umiliante il ricordare come, negli anni che il fascismo era all’apice del suo trionfo, abbiamo visto noi stessi in qualche grande biblioteca la miseranda astuzia di lettori pavidi che al banco delle riviste leggicchiavano la «Critica» tenendola semicoperta, per non farsi scorgere, con un paio di altre riviste. Nelle biblioteche qualche impiegato poteva essere una spia dell’OVRA; e c’erano malevoli anche senza essere spie stipendiate. Nelle scuole la «Critica» non entrava più, da quando, nel 1933, un ministro dell’Educazione Nazionale, che pure un tempo era stato recensito e citato da quella rivista, aveva dato disposizione che si cessassero gli abbonamenti: quel ministro, come ora sanno tutti (la lettera di protesta del Croce si legge nel vol. 2° degli Scritti e discorsi politici) era il prof. Francesco Ercole.»
(Vittorio Enzo Alfieri, Testimonianze degli anni oscuri, in Nel nobile castello, pp. 15-33: 22-23).
Alfieri (1986b)
«Di me, a giustificazione della scelta che è caduta su di me, dirò che conobbi personalmente [Rodolfo] Mondolfo nel 1933, allorché da Modena, ove ero passato ad insegnare, cominciai a frequentare le biblioteche della vicina Bologna. Non ero stato suo scolaro in Università, essendo io andato a studiare a Pisa, ma di me gli avevano parlato miei condiscepoli che invece s’erano iscritti a Bologna; e quando Mondolfo concepì l’idea della traduzione e dell’aggiornamento dello Zeller, aveva sollecitato la mia collaborazione, proposta che mi impensieriva e a cui avevo cercato a tutta prima di sottrarmi. Ma un giorno a Bologna il Mondolfo stesso venne a cercarmi, e non potei non cedere alla sua garbata e cordiale insistenza: io stavo allora preparando il commento agli Atomisti ed egli s’interessava al mio lavoro e mi prodigava consigli ed aiuti. Andavo qualche volta da Modena a Bologna ad ascoltare le sue lezioni. Egli, che era amico di tutti e in tutti fiducioso, mi fece conoscere, nella biblioteca di facoltà [Biblioteca universitaria di Bologna], anche il fascistissimo Goffredo Coppola.»
(Vittorio Enzo Alfieri, Ricordo di Rodolfo Mondolfo, in Nel nobile castello, pp. 232-250: 233).
Alicata (1943)
«Ad ogni modo qui le mie abitudini stanno acquistando un ritmo ed un metodo, soprattutto ora che ho ottenuto i libri. Non i miei, ma quelli della Biblioteca del Carcere. Ho visto il Cappellano, persona molto gentile, che ha subito esaudito il mio desiderio. Nel catalogo che ho potuto consultare (e non credo che sia il solo) non mancano i buoni libri: ne ho segnalati (secondo la regola) una cinquantina, ed ho avuto il Rosso e Nero di Stendhal e il Giansenismo in Italia di Jemolo.»
(Mario Alicata, lettera dell'8 gennaio 1943, p. 11-12. Tutte le lettere sono indirizzate alla moglie Giuliana Spaini).
«Ad Einaudi e agli altri della Casa Editrice, fai i miei saluti ed i miei auguri di buon lavoro. [...] Ti prego di tenermi informato se il lavoro – dopo gli incidenti bellici di Torino – ha ripreso bene e, se ti è possibile, di farmi avere via via i volumi pubblicati. Cosí quando andrò via di qui potrò donarli alla Biblioteca circolante. (La mia gratitudine per questa istituzione è infinita: non per me solo. È uno dei sostegni più solidi che si può offrire ad un detenuto. Dirai a Beppe che se fossi, come lui, magistrato – mi batterei per l'arricchimento costante e il buon funzionamento in tutte le carceri e le case di pena dell'istituzione).»
(lettera del 15 gennaio, p. 18. Giuseppe Alicata, fratello di Mario, era magistrato e lavorava al Ministero di grazia e giustizia).
«Come letture di base vado portando avanti quella del Guicciardini (di cui non mi hai mandato che i tre primi volumi: gli altri sono a casa?), e quella della Logica di Gentile, che ho preso nella Biblioteca locale.»
(lettera del 18 gennaio, p. 21).
«Dirai a Einaudi che ho scoperto (anche la biblioteca del carcere serve alle ricerche bibliografiche) che quel grosso romanzo giapponese – Il Principe Gkenzi [i.e. Ghengi] di Murasaki – che c'era stato proposto di tradurre, è stato pubblicato qualche anno fa (credo parzialmente) dall'editore Corbaccio. Ne tenga conto per la sua decisione.»
(lettera del 22 gennaio, p. 24).
«Ho deciso, visto che lavori d'altro genere è difficile portarli avanti senza una vera biblioteca a disposizione e anche senza un tavolino a cui appoggiare il blocco di carta (scrivere sulle ginocchia non si confà, a quanto sembra, alla critica storica e letteraria), di tentare di realizzare veramente per mio conto personale una prima riduzione cinematografica di Billy Budd. [...] Oltre a ciò [...] avrei però bisogno del testo di Billy Budd, e inoltre di Moby Dick e dei Drammi marini di O'Neill come materiale d'ambiente e, soprattutto, per rinfrescare il mio vocabolario marinaresco. L'ideale sarebbe poi anche un volume sull'arte della navigazione alla fine del Settecento possibilmente con qualche illustrazione: qui ho trovato nel catalogo della biblioteca la Storia della navigazione di Van Loon che ho già richiesto. Ma non è un libro serio e mi sarà poco utile.»
(lettera del 25 gennaio, p. 27).
«non ho ancora avuto dalla biblioteca locale un paio di volumi di Freud che pure ci sono e che avevo richiesti in lettura!»
(lettera del 19 febbraio, p. 48. Nel Taccuino, alla data del 5 marzo (p. 255), si legge «Ho letto Totem e tabú di Freud», con un commento sull'opera).
«Non ho invece ancora avuto i libri che aspettavo a gloria – perché a parte lo studio del Pareto, che sto rileggendo molto attentamente, sono rimasto all'asciutto. Per fortuna, con i libri del Cappellano ne ho avuti due buoni: la Filosofia del diritto di Hegel, e il primo volume della Storia dell'unità d'Italia dello Spellanzon, che è un'opera seria e di prima mano, ricca di materiale documentario».
(lettera del 16 marzo, p. 69).
«ho consumato la riserva di libri, i nuovi che ti avevo chiesto non sono ancora arrivati (e non capisco il perché: spero proprio che non ti abbiano negato il permesso), e quindi debbo «razionare» accuratamente quelli della biblioteca di qui, per non restare proprio a secco troppo presto.
Per fortuna, questa volta m'è toccato il secondo volume della Storia del Risorgimento dello Spellanzon, che è una lettura utile anche per certo lavoro che vorrei intraprendere quando tornerò a respirare l'aria pura delle strade e quella polverosa (ma di una polvere piú saporita di quella locale) delle biblioteche e degli archivi.»
(lettera del 9 aprile, p. 89).
«Solo soffro molto per la mancanza di libri, di buoni libri: non ho mai sentito tanta sete, tanto bisogno di imparare. E, insieme, la mia ignoranza. Potrò veramente averli i libri che ti ho chiesto? Ma son cosí lenti ad arrivare! [...] Ma per tornare ai libri: ormai son ridotto a quelli della biblioteca di qui, perché ho già quasi letto una seconda volta quasi tutti quelli miei. [...]
Dalla biblioteca ho avuto ultimamente l'ultimo grosso volume dello Spellanzon (l'opera è fino ad ora arrivata al solo IV volume) e L'isola del tesoro di Stevenson. Dallo Spellanzon mi aspettavo molto di piú (ne avevo letto e sentito parlare molto bene). Invece è disperatamente «vuota», vuota di pensiero storico. [...] Ho invece – in un'altra prospettiva – riletto con grande entusiasmo L'isola del tesoro.»
(lettera del 14 maggio, p. 116).
«Ad ogni modo ritorno all'inizio del mio discorso, e ti ripeto che ho una gran voglia di studiare: e che la vera sofferenza della galera comincia ad essere quella d'aver cosí stentati e limitati mezzi di lavoro. Mentre le condizioni di solitudine in cui mi tocca vivere sono non solo uno stimolo ma anche sarebbero un'ottima condizione per questo lavoro: un raccoglimento cenobitico! Insomma: una specie di supplizio di Tantalo, che non può essere certo alleviato dalle casuali e disperse letture che t'offre la biblioteca di qui (la quale tuttavia è un grande ed enorme conforto!) [...] In questi giorni leggo la Storia di Israele di Giuseppe Ricciotti – che è anche l'autore di quella Vita di Gesú, che, ricordo, stava avendo un grande successo verso l'epoca nella quale fui arrestato.»
(lettera del 18 maggio, p. 120).
«Dalla biblioteca di qui ho avuto anche due romanzetti «classici», due vecchie letture: che m'hanno anch'esse deluso. Del Vicario di Wakefield – strano – io conservavo tutt'altro ricordo, ma evidentemente era un ricordo falsato dalla «convenzione» critica intorno ad esso: delizioso, fresco, candido, ecc. Tutte sciocchezze.»
(lettera dell'11 giugno, p. 141).
«Potresti cominciare da Gentile: quelli di pedagogia sono i suoi libri più facili ed interessanti. [...] I libri del Gentile utili a conoscersi sono (nell'ordine): La riforma dell'educazione, Sommario di pedagogia, Sommario di didattica. Io debbo la loro lettura alla biblioteca del carcere. (Non ti ho mai detto, mi sembra, che debbo alla stessa biblioteca la lettura, rifatta con ben altra efficacia d'una precedente, delle tre «critiche» kantiane). Purtroppo non posso togliermi una grande «sete»: lo studio, di cui sento un enorme bisogno e necessità, di Aristotele, di Bacone, di Galilei e di Hegel.»
(lettera del 16 luglio, p. 172).
Nelle lettere e nei taccuini sono menzionate numerose altre letture dei mesi trascorsi in carcere, senza indicazioni esplicite sulla loro provenienza.
Allason (1961a)
«Quei giovani io li vedevo alla Società di cultura, o da Piero [Gobetti], in quella sua casa al quarto piano di via Venti Settembre, dove per un po' ebbe sede la redazione e la direzione di Rivoluzione liberale. [...]
Altre volte ci si riuniva alla Società di cultura. Non mi pare, o almeno non ricordo, che vi si parlasse espressamente di politica: si discorreva di letteratura, di filosofia. [...]
Misurai quella loro intransigenza quando [nel 1920] aggredirono e defenestrarono il consiglio della Società di cultura, che era quasi tutto di vecchi, e ridotto un po' un cenacolo di gente anziana, che veniva lí a leggere i giornali e le riviste e a prendere in prestito le ultime pubblicazioni.
Piero, coi suoi amici, in una seduta che doveva precedere le elezioni del nuovo consiglio, montò alla barricata, sgominò i pacifici consiglieri: società di cultura aveva a essere, non un canonicato! e vinti e cacciati i vecchi consiglieri furono instaurati i nuovi, con Lionello Venturi, presidente, e Piero Egidi, e [Felice] Casorati, e lui, Gobetti, e [Marco] Gandini...».
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 9-10. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946)
Allason (1961b)
«In quell'estate (1924) mi recai in Germania, a Monaco, dovendo preparare il mio volume su Bettina Brentano, la graziosa piccola amica – das Kind – di Goethe, argomento propostomi dal mio maestro Arturo Farinelli, a cui mi ero vivamente appassionata.
Della Germania quale allora mi apparve – governata da Weimar, ma già ammorbata dal nazismo (nel 1922 era stato ucciso Rathenau) – non dirò nulla. Troppo presa dalle mie ricerche di biblioteca, dai concerti, dalle visite ai miei cari musei monacensi non pensai a occuparmi della vita politica. [...]
Ricorderò invece due episodi che mi colpirono: l'uno fu il volo del primo Zeppelin riapparso nei cieli teutonici. Ero nella bella e comoda biblioteca di stato della Ludwigstrasse quando il rumore ormai insolito del motore e dell'elica si annunciò, si fece piú vicino e tosto un grande dirigibile apparve volando basso sulla città. Fu un delirio... In un momento tutti quegli studiosi cosí disciplinati e silenziosi furono alle finestre gesticolando e gridando come presi da demenza. Il direttore – un signore nobile, dalla gelida cortesia – giunse di corsa e pareva letteralmente invasato.
A tutta prima non capii che cosa accadesse; poi mi resi conto. Era il primo dirigibile tedesco che tornava a volare destinato, se ben ricordo, all'aviazione civile e diretto in America. Era il risveglio, la ripresa, la promessa dell'avvenire. E allora vedendo quell'entusiasmo di tutti, del direttore e dell'inserviente, del monarchico e del comunista, pensai che un paese cosí compatto e cosí acceso da un solo ardore non doveva tardare a risollevarsi.»
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 39-41. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946)
Allason (1961c)
«In quegli anni e nei seguenti mio figlio [Giancarlo Wick] ed io visitammo anche spesso Croce a Napoli. A ognuno di quei pellegrinaggi di devozione e di amore io constatavo non senza tristezza quanto si fosse fatta deserta quella casa vicino al «Gesú» che io avevo conosciuto al tempo del suo fulgore. Molti anni prima, infatti, studentessa all'Università di Napoli, munita della presentazione di [Erasmo] Percopo e di [Bonaventura] Zumbini, io avevo un par di volte salito l'ampio scalone marmoreo, avevo attraversato quelle austere sale piene di libri, per ricevere dalle mani di Croce qualche volume in prestito che le locali biblioteche non possedevano.»
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 57. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946)
Allason (1961d)
«A Torino – dove egli [Benedetto Croce] veniva due o tre volte l'anno, poiché egli ha sempre molto amato la nostra città, e sempre gli piacque indugiare nelle sue tranquille biblioteche – era la casa di suo cognato Oreste Rossi, di cui Croce aveva sposato la sorella, che lo accoglieva e ci accoglieva.»
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 55-56. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946).
«Se vi fu, in tutta questa vicenda, un uomo veramente degno di ammirazione, fu Luigi Salvatorelli. [...] Professore di Storia delle religioni all'Università di Roma, tratto dal Frassati al giornalismo [...] aveva rinunciato alla cattedra per diventare redattore politico della Stampa. La catastrofe di questo giornale travolse anche lui. Conscio della forza dell'uomo, il regime si sarebbe appagato da parte sua di una forma di adesione anche solo formale [...]. Nulla egli concedé. Si ritirò a vita privata, visse giornalmente del suo lavoro, di un lavoro che noi che lo vedemmo all'opera sappiamo ostinato, assiduo, senza riposo: il suo scrittoio, le biblioteche di Torino furono per anni l'orizzonte di questo umbro socievole e appassionato di cose belle: [...] unico svago i radi incontri coi pochi che allora osavano ancora pensare come lui»
(ivi, p. 63).
«Una delle persone con cui ero stata piú vicina nei giorni di Roma [...] era Pietro Egidi, professore di Storia moderna all'Università di Torino e amico di vecchia data. [...] Poche settimane dopo [il 1° agosto 1929], mentre a Courmayeur egli era ospite di Lionello Venturi, durante una gita con l'amico, di colpo piombò a terra. Si corse a lui per rialzarlo; era morto.
Benedetto Croce fu molto addolorato da quella fine. Il giorno in cui la notizia giunse a Torino lo raggiunsi alla Biblioteca Nazionale: in fondo alla sala, in piedi e in silenzio stavano [Francesco] Lemmi, [Giorgio] Falco, alcuni altri storici accorsi alla notizia. Croce rimpiangeva l'amico prematuramente mancato, rimpiangeva il liberale schietto e di buona tempra. «Ai suoi tempi – ci diceva – il Giusti poteva scrivere: "muore un codino e nasce un liberale!" Oggi...».»
(ivi, p. 95-96).
Allason (1961e)
«Nelle vacanze del 1928 andai a Parigi e Berlino. Non vi andai con speciali mansioni politiche, solo per ragioni di studio, per frequentare le biblioteche, prepararmi alla libera docenza. [...]
Da Parigi mi recai a Berlino, per lavorarvi in quella Staats-Bibliothek. [...]
Nel professor Stahmer [i.e. Eduard Sthamer], bibliotecario della Preussische Akademie der Wissenschaften trovai invece un uomo che sapeva come stavano le cose. Ospitalmente m'invitò nella sua casa di Zehlendorf dove l'anno prima il nostro Chabod aveva trovato affettuosa accoglienza»
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 69, 72-73. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946)
Allason (1961f)
«A Ceresole Reale c'era anche il direttore dell'Istituto di Roma per gli Studi Germanici: il professor Giuseppe Gabetti, già mio giudice in concorsi e nella prova di libera docenza. A differenza di vari altri suoi colleghi egli fu meco pieno di gentilezze e di bontà. Desideroso di vedermi restituita all'insegnamento mi incoraggiò a pazientare, a lavorare senza perdermi d'animo, e mi disse (cosa che mantenne al di là della promessa) che se mi fossi trasferita a Roma, come ne avevo l'intenzione, il suo istituto e la sua biblioteca mi sarebbero sempre largamente aperti.»
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 226. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946)
«A Villa Sciarra, sede dell'Istituto italiano per gli studi germanici, mi portavano le mie ricerche di biblioteca, ma anche spesso i concerti e le conferenze di illustri personalità nordiche organizzate dal professor Gabetti, che sempre mi invitò a goderne. Lí, senza che ombra di propaganda politica inquinasse il nostro godimento, si poteva attingere a ciò che la cultura germanica (tedesca, svizzera, scandinava, danese) offrivano di meglio; lí udii parlare [Hans] Carossa, Jörgensen [i.e. Jens Johannes Jørgensen], [Hans] Grimm, [Friedrich] Bischoff, [Erwin Guido] Kolbenheyer...
Anche la Biblioteca Germanica di via Gregoriana — già Biblioteca Hertziana — posta in quel delizioso palazzo Zuccari, caro a D'Annunzio e a Bourget, era larga di conferenze e di concerti. Che la propaganda fosse assolutamente estranea a quest'attività non credo si possa dire; e già il fatto che ne fosse bandito l'ebraico nome della fondatrice ne era una prova. Ad ogni modo e concerti e conferenze erano sempre ispirati a un puro concetto culturale, e di politica non era mai fatta parola.
Al primo piano, continuava a dirigere la sezione dell'Istituto destinata all'arte il professor Bruns [i.e. Leo Bruhns], un baltico di squisita cultura umanistica.»
(ivi, p. 256-257).
Allason (1961g)
«Fra le tante persone che incontrai alla «Cometa» due, oggi mi tornano in mente. Una è Margherita Sarfatti, che non mancava mai nei giorni delle inaugurazioni delle mostre. L'avevo incontrata molti anni prima a Milano, a casa di Ada Negri [...].
Per curiosità professionale e per dovere d'insegnante (il libro fa ufficialmente parte di tutte le biblioteche scolastiche) mi accingo a leggere Dux, che però pianto dopo un centinaio di pagine trovandolo noioso oltre il lecito.»
(Barbara Allason, Memorie di una antifascista, p. 259. La prima edizione uscì senza data tra il 1945 e il 1946)