LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

Dionisotti (1991)

«Nel caso del giovane Pavese, a paragone dei suoi amici e compagni e della norma nazionale, il disinteresse accademico fu molto piú significativo del «famoso» disinteresse politico. Non era bizzarria, come in parte fu per Soldati. Nella realtà della vita, come nella poesia e prosa, Pavese avrà cercato di evadere da ogni sorta di aule, in campagna, sul fiume e sulle colline di Torino, per le vie e per i viali, ma nessuno che l'abbia conosciuto allora può dimenticare la concentrazione inviolabile di quel lettore nella biblioteca della Facoltà, quel continuo, pendolare, ossessionante maneggio dei capelli. Al disinteresse accademico corrispondeva la ricerca di un linguaggio, che non era quello dell'accademia, di un'accademia che in quel dopoguerra non faceva piú argine alla critica e letteratura militante, e riconosceva ormai la preminenza di Croce, maestro senza laurea.»

(Carlo Dionisotti, Per un taccuino di Pavese, «Belfagor», 46 (1991), n. 1, p. 1-10: 9; poi in Ricordi della scuola italiana, p. 511-522: 520. Pavese lettore nella Biblioteca della Facoltà di lettere di Torino è ricordato anche da Lalla Romano).

Dionisotti (1992)

«Milano è la prima tappa per chi muova da Torino alla scoperta dell'Italia. Non parlo dell'Italia turistica, ma di quell'Italia storica, che è la nostra nazione e patria. Nel mio noviziato di studioso della letteratura italiana, l'Italia che io cercavo, uscendo da Torino, era composta di libri. Pertanto la mia prima tappa fu nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Là, nel solo fondo antico, cinquecentesco, che allora più m'importava, era un patrimonio di libri manoscritti e stampati incomparabilmente maggiore di quello delle biblioteche torinesi a me note. Di là, dall'Ambrosiana, bisognava passare, per procedere ad altre tappe: Venezia, Firenze, Roma. L'Italia del mio noviziato di studioso non poteva bastare, andando avanti, negli anni Trenta, al cittadino e all'insegnante. Dai libri, dalle biblioteche, bisognava ricavare una lezione immediatamente valida, discutibile con altri, di altra età e professione, coi giovani nella scuola. Bisognava insomma scoprire e capire, cercar di capire, l'Italia storica».

(Carlo Dionisotti, Milano dal Regno italico al Regno d'Italia, in Ricordi della scuola italiana, p. 241-250: 241. Già pubblicato, col titolo La cultura milanese dal Regno italico al Regno d'Italia, in «Aevum», 66 (1992), n. 3, p. 619-624).

Dionisotti (1993)

«Lettore ero diventato non a casa mia né a scuola, ma nella nostra Biblioteca Civica, dove andavo nelle ore libere, quando ero in ginnasio e liceo. E ricordo che la prima mia lettura fu dei quattro, allora, volumi dedicati alla letteratura della nuova Italia. Poi fu la volta, a scuola, del Breviario di estetica. [...]
Parecchi anni dopo, quando ero già laureato, conobbi di persona Croce in altra biblioteca torinese, nella Nazionale. In casa sua, a Napoli, Croce possedeva una biblioteca eccezionalmente ricca, fra le maggiori di un privato in Italia. Ma quando era in viaggio, e sostava in una città, volentieri si serviva delle biblioteche locali. Così a Torino, dove capitava spesso per motivi famigliari. Nella vecchia sede della Biblioteca Nazionale in via Po c’erano allora, a livello più alto della sala di lettura comune, alcune salette riservate per docenti e studenti, anche per giovani studiosi. Due di queste salette, le prime entrando, erano riservate ai professori universitari: agli ordinari, beninteso, non a liberi docenti e assistenti. Croce era più che un professore ordinario, era un senatore del Regno: pertanto lavorava in una di quelle due salette. [...] Un giorno dunque, mentre io ero in Nazionale, in una delle salette riservate ai minori docenti e ai non docenti, mi si avvicinò Leone Ginzburg, fedelissimo tra i fedeli di Croce a Torino, e mi domandò se conoscessi certo oscuro umanista, su cui il senatore stava cercando notizie. Fortuna volle che io conoscessi quell’umanista e il libro, non di un moderno, ma di un erudito del Settecento, dove erano i dati biografici e bibliografici essenziali. Soddisfatto, il senatore volle conoscermi e ringraziarmi. Così ebbe inizio il mio rapporto con lui, durato poi sempre. [...]
Ho detto del mio primo, fortunato contributo a una ricerca di Croce, qui a Torino. Dirò dell’ultimo, quando la distanza nello spazio era diventata maggiore, perché nel dopoguerra, presentato e raccomandato anche da lui, avevo ottenuto un posto d’insegnamento nell’università di Oxford. Là, nel 1948, in un manoscritto italiano di quella mirabile biblioteca, mi accadde di trovare identificato un minuscolo letterato del medio Cinquecento, di cui l’ottantenne Croce si era incuriosito. Anche in questo caso, importante non era l’identificazione, ma la curiosità di Croce, destata dal sopranome che quel minuscolo personaggio aveva nelle testimonianze allora note.»

(Carlo Dionisotti, Croce a Torino, in Ricordi della scuola italiana, p. 493-502: 493-495. Apparso originariamente in: Giovanni Spadolini - Carlo Dionisotti, Benedetto Croce, Torino, Centro Pannunzio, 1993, p. 13-20).

Dionisotti (1994)

«A differenza di [Arnaldo] Momigliano, io evitai nel primo biennio del mio corso universitario la letteratura italiana, che mi pareva di aver studiato a sufficienza in liceo, ma ebbi occasione di incontrare Calcaterra fuori dell'Università, in una Società di Cultura che aveva sede nella piazzetta Madonna degli Angeli all'angolo di via Carlo Alberto e via Cavour. Nel dopoguerra questa Società di Cultura era stata partecipe della vigorosa ripresa di vita intellettuale che caratterizzò la Torino di Gobetti e di Gramsci; ma nei tardi anni venti, nella stretta del nuovo regime politico, stentava a sopravvivere. Offriva ai soci una piccola biblioteca, periodici italiani e stranieri, alcune conferenze, in più la possibilità, ormai sospetta e di lì a poco intollerabile, di incontri confidenziali fra persone altrimenti divise da professioni o età diverse. L'incontro di uno studente, quale io ero, con un professore, era più facile in quella sede che non in via Po, nelle aule e nel cortile dell'Università. Accadde così che un giorno, discorrendo nella Società di Cultura con Calcaterra, io fossi da lui informato del suo imminente trasferimento a Milano, a una cattedra di letteratura italiana nell'Università Cattolica.»

(Carlo Dionisotti, Ricordo di Carlo Calcaterra, in Ricordi della scuola italiana, p. 469-476. Pubblicato originariamente in: Da Petrarca a Gozzano: ricordo di Carlo Calcaterra (1884-1952): atti del convegno, S. Maria Maggiore, 19-20 settembre 1992, con un saggio introduttivo di Carlo Dionisotti, una testimonianza di Oreste Macrì e lettere di Gozzano, Graf, Contini, Pasolini e altri, a cura di Roberto Cicala e Valerio S. Rossi, Novara, Interlinea - Centro novarese di studi letterari, 1994, p. 9-16).

Dionisotti (1998)

«La storia di Cantimori era di uomini e di eventi, oltreché di idee, era di nomi propri e di date, ed era fondata su testimonianze scritte, preferibilmente, dal Quattrocento innanzi, stampate. Cantimori stava a suo agio nella sua e nella pubblica biblioteca, piuttosto che in archivio. Per uno storico, di qualunque storia, senza dubbio era un limite, ma illimitata è soltanto la ricerca collettiva, che ogni maestro affida alla sua scuola, ogni generazione alla successiva.»

(Carlo DionisottiRicordo di Delio Cantimori, in Ricordi della scuola italiana, p. 573-586: 585. Apparso originariamente in «Belfagor», 53 (1998), n. 3, p. 261-276).

Donati (1909)

«La Biblioteca comunale, prima fra le otto consorelle faentine, è per la sua importanza la maggiore e la peggiore. Il suo catalogo supera, se non erro, i ventimila volumi, e fino all’anno 1880 circa è abbastanza al corrente delle principali pubblicazioni. Il suo primo nucleo è formato da eredità di preti dotti già bibliotecari e bibliofili e dalle biblioteche soppresse dei conventi. Vi prevalgono quindi i libri di Teologia, Filosofia Scolastica, Diritto Canonico, Patristica, Miscellanee religiose, ecc. Abbondano anche i libri di letteratura classica: completa è la raccolta degli autori latini e numerosa quella degli italiani: scarse le opere greche e più scarse ancora le francesi. Il predecessore dell’attuale bibliotecario, D. Gian Marcello Valgimigli, per comporre le sue Memorie storiche Faentine raccolse un rilevante materiale di opere storiche che alle volte pagò di suo, essendo il sussidio comunale scarsissimo. Al presente la decadenza della Biblioteca è al suo colmo. Da vent’anni e più le deficienze si sono moltiplicate, e non c’è fama di scrittore o di opera che possa dire di averne vinto l’inerzia. La Comunale non può dare sussidio alcuno di recente cultura perchè le opere mancano letteralmente tutte. Vogliano i miei lettori ricordarsi di quel che l’Anzillotti disse della Labronica scrivendo di Livorno su queste stesse colonne, e credano che è poco scrivere così amaramente della Comunale Faentina: basterà il dire che non è possibile leggere tutte le opere del Carducci. Ma che dico tutte? quando neppure la parte più rilevante è possibile avere: giacchè oltre ai tre primi volumi di poesia e ai due di prose editi la prima volta dal Zanichelli, pochi altri scritti si trovano sparsi in giornali o riviste. Ora, se questo è del legno secco, che sarà del verde? E va detto ad onor del vero che contro questo stato di cose si sono mosse lagnanze, ma nessuno ha pensato davvero a riparare alla meglio e dove fosse possibile questa scandalosa deficienza. Alla quale hanno concorso tre fatti principali, la mancanza dei mezzi pecuniari, l’imperizia direttiva e la cresciuta attività libraria. Non fa meraviglia quindi se il numero dei frequentatori è limitatissimo: ed io credo che la media di sei lettori al giorno superi alquanto la realtà. Vi convengono i pochi assidui della Nuova Antologia, che insieme alla Rassegna nazionale e alla spessissimo intatta Revue de deux Mondes è l’unico mezzo fornitoci dal Municipio per stare al corrente di quel che si fa e si dice nel mondo intellettuale. Gli studenti del Liceo vi si danno alle volte convegno, se si tratta specialmente di tradurre del latino. Qualche volta vi capita una rara avis di studioso il quale, se non è corazzato di pazienza, vi si trova assai male per la tristissima organizzazione interna e per quell’inservibile antico catalogo elementare. E credo che basti questo po’ po’ di roba e che io possa dispensarmi dal fare deduzioni a proposito della cultura rispetto alla Biblioteca. Senonchè ogni male non vien per nuocere, dovendosi a questa deficienza il sorgere di iniziative private, quali il Circolo di lettura e il Gabinetto di lettura.

(Giuseppe Donati, Faenza, «La voce», 1, n. 50 (30 dic. 1909), p. 209-211: 210).

Doni (1962)

«Mi rivedo ragazzo di provincia, povero e troppo solo. A scuola: i temi con le frasi del duce: «Noi sogniamo l'Italia romana», oppure: « È l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende » ecc. [...]
Ed ecco un altro ricordo: il mio circolo cattolico della Chiesanuova a Pistoia perquisito, nel 1931, per ordine dei fascisti: le bandiere e i registri asportati.
Altro ricordo ancora, più tardi, nel 1939 quando fui impiegato per circa un anno prima d'esser chiamato alle armi. Quella frase gridatami, tra rampogne e minacce, dal vice federale di allora: «Tu non lavoreresti se non fossi iscritto al partito!». [..]
Ma in quel tempo la mia maturazione era tutta privata. Mi rivedo curvo sui banchi della biblioteca forteguerriana a leggere i saggi critici di Croce dove un giorno trovai una frase che mi parve una scoperta: «Coloro che su tutto mettono le mani predaci...».»

(Rodolfo Doni, in: La generazione degli anni difficili, p. 127-131: 128).

Doria (1960)

«Seduto, nella Biblioteca Lucchesi Palli, alla lunga tavola cui egli [Salvatore Di Giacomo] presiedeva, a volte corrucciato, a volte bonario, io, anzichè attendere al mio lavoro, osservavo con dissimulata curiosità quanto il Poeta andava facendo. Spesso aveva davanti dei grandi fogli di carta a mano (amava molto le belle carte e gl'inchiostri di vario colore) e in testa al primo di essi inscriveva, con la sua stupenda calligrafia, un paio di versetti. Poi si metteva a riflettere, scuoteva il capo grigio, appallottolava quel foglio e lo buttava nel cestino. Poi su un secondo foglio tracciava o quegli stessi o altri versetti, che al massimo da due diventavano tre, e di nuovo, e un po' più rabbiosamente, ne faceva esecuzione capitale. E così di seguito e per molti giorni, salvo quelli in cui era tutto preso dal redigere le schede dei musici usciti dai Conservatorii napoletani. Che cosa fossero quei versetti, a quali capolavori dovessero dar luogo, o fossero solo delle esercitazioni a freddo, non avrei saputo allora nè so ora dire. [...] Dunque, io mi raffiguro il Poeta che, affacciatosi nocturno tempore alla finestra della sua casa a Magnocavallo, sente vibrare nell'aria le note trasmesse da un lontano pianoforte, ne ha un'emozione e il giorno dopo, in biblioteca, ferma su quei fogli i memorabili versi».

(Gino Doria, Per Salvatore Di Giacomo, p. 4-5. Salvatore Di Giacomo diresse la Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli dal 1902 al 1932).

Dossi (1912)

«1904. Una sala di biblioteca, fredda – con topi che cricchiano e vecchi che studiano sudici libroni ancora più vecchi. Entrano tre o quattro ragazze freschissime, forastiere che vengono a visitare le biblioteche. È come se entrasse un raggio di sole. – Le sbirciate dei vecchi – il tacito confronto tra la scienza nuova e la antica – il rammarico del tempo perduto ecc.»
(Carlo Dossi, Note azzurre, p. 128. La prima edizione fu pubblicata dalla vedova, con omissioni, nel 1912.)

«2374. (Roma 1872) [...] Alla biblioteca della Minerva [Casanatense], i frati non concedono, senza uno speciale permesso, la lettura della Storia d'Italia del retrogrado Botta!»
(ivi, p. 206)

«4760. Fino a questi ultimi anni, le biblioteche italiane patirono un quotidiano saccheggio. Altro che Unni e Maometto! A Milano esisteva un librajo-antiquario (credo si chiamasse Vergani) il quale si assumeva di procurare, a chi lo pagasse, qualunque libro raro purchè esistesse a Brera. Bonghi s'è formata una libreria che è un corso completo di furti. Non per tristizia, ma per smemorataggine se ne composero pure una Correnti e Depretis. Se però Bonghi alleggeriva le biblioteche dei loro volumi più preziosi, cercava di far rioccupare i vacui lasciati da altri libri. Difatti, avendo conti da saldare col Bocca, librajo-ladro-editore, comperò da lui, per ventimila lire, tanti volumi, che, a dire de' periti, non valgon la carta che pesano. – Bonghi essendo ministro della P.I. si formò una raccolta di tutto quanto aveva stampato quel Ministero dall'epoca della sua prima istituzione. Lasciato il Ministero, vendette le sue raccolte per 15.000 lire al Ministero stesso.
Un documento interessantissimo per la storia dei latrocini bonghiani è la relazione di Baccelli, De Renzis e (credo Martini) pubblicata dal Commissario regio, prof. Cremona, della Biblioteca Vittorio Emanuele.»
(ivi, p. 660-661).

Einaudi (1898)

«Ieri sera, venerdì, dietro invito di un Comitato di persone amanti della cultura, si adunava nei locali della Borsa una numerosa assemblea, allo scopo di discutete la convenienza e la possibilità di fondare a Torino una di quelle istituzioni che, sotto nomi diversi, prosperano oramai in tutte le grandi città, e che servono insieme come ritrovo e come mezzo di perfezionare la propria cultura, agli uomini colti, desiderosi di seguire il movimento intellettuale del tempo, e di uscire, ogni tanto, dalla solitudine e dispersione in cui, in una gran città laboriosa, vivono tutti, occupati dietro i proprii lavori.
L'assemblea, manierosa oltre ogni speranza, acclamò a presidente il prof. [Salvatore] Cognetti, il quale invitò il prof. [Francesco] Porro ad esporre gli scopi dei promotori.
Il prof. Porro spiega come intento della Società da costituirsi fosse di essere nello stesso tempo biblioteca circolante adatta a fornire ai soci le ultime pubblicazioni letterarie e di argomenti che tocchino la cultura generale; sala di lettura dei grandi giornali italiani ed esteri e delle maggiori riviste generali, e sala di conversazione per passare qualche ora in geniale ritrovo.
Molti presero la parola, aderendo tutti in massima all'idea opportuna e necessaria per una grande città come Torino; il prof. [Pio] Foà per affermare come si intenda fare qualcosa di nuovo da cui sia bandito ogni argomento estraneo alla cultura e siano aboliti i convenzionalismi e le vuole formalità; [..] e replicatamente il professore [Alfredo] Frassati per dimostrare con considerazioni pratiche la convenienza di fondare su salde basi la novella Associazione, compilando uno statuto, un bilancio passivo preventivo ed uno specchio degli scopi prossimi che la Società si propone, e difendendo, contro alle giuste critiche rivolte da molti contro la mania delle conferenze, la idea di costituire la Società come un centro di conversazione sopra gli argomenti più vivi del giorno, pratici e scientifici. [...]
L'assemblea infine unanime approva un ordine del giorno, presentato da Guglielmo Ferrero ed accettato dal Comitato, col quale si dichiara costituita, cogli intenti predetti, la Società e si dà incarico al Comitato di convocare venerdì, 16, i soci per comunicare lo schema di statuto particolareggiato.
Il presidente prof. Cognetti scioglie, con applaudite parole, l'assemblea, invitando i presenti e quanti hanno a cuore gli interessi intellettuali della nostra Torino ad intervenire, anche senza biglietto di invito, alla prossima assemblea che avrà luogo il venerdì, 16 corrente, nei locali della Borsa, alle ore 21.»

(L. E. [Luigi Einaudi], Per una nuova Società di cultura)

Einaudi (1951)

«Mio caro Croce,
ricevo la gradita tua del 22 corrente e desidero anzitutto dirti che la mia recente visita alla Reggia napolitana è stata decisa lì per lì e dedicata essenzialmente alle due mostre colà ordinate.
La visita alla Biblioteca Nazionale esigeva tempo del quale io allora non disponevo e pertanto se ne parlerà in altra occasione che mi auguro non lontana.»

(Luigi Einaudi, lettera a Benedetto Croce, Roma 28 febbraio 1951, p. 139-140)

«Di ritorno a Roma voglio confermarti la mia gioia di avere avuto l'opportunità di intrattenermi teco dopo la sia pur rapida visita alla Biblioteca Nazionale dove aleggia la tua lunga ed alta sollecitudine. Grazie ancora, mio caro Croce, per le tue amichevoli accoglienze e vive cordialità anche da parte [di] mia moglie, che a me si unisce nel pregarti di ricordarci a donna Adele.»

(Luigi Einaudi, telegramma a Benedetto Croce, [Roma aprile 1951], p. 140. La visita era avvenuta il 3 aprile).

Elia (2006)

«Presidente Elia, lei è da molti anni un assiduo frequentatore della Biblioteca del Senato. Quando ha iniziato a frequentarla e che ricordo ha della sede di Palazzo Madama?
Avevo vinto un concorso in Senato negli anni '50 e fui destinato all'ufficio studi diretto allora dal professor Renato Cerciello, libero docente di diritto privato. Nella Biblioteca approntai il materiale per le mie prime ricerche. E su quella base di studi e di pareri maturò la mia vocazione per il diritto costituzionale. Divenni un utente abituale e sacrificai le mie vacanze per scrivere durante il periodo in cui il Senato non si riuniva, attingendo ai libri e seguendo le indicazioni dei dirigenti di allora della biblioteca: ricordo il dottor Pierangeli, poi il dottor Zampetti [...].
In biblioteca preparai i lavori sulla continuità dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare sulla questione della supplenza del Presidente della Repubblica da parte del Presidente del Senato. E poi la ricerca sul procedimento legislativo negli Stati Uniti d'America, un primo tentativo di studio di diritto comparato tra il modello italiano e l'esperienza americana [...].
Penso che questa esperienza nella biblioteca del Senato sia stata utile per indirizzarmi verso gli studi costituzionali e anche per integrare le lacune delle altre biblioteche che allora in materia di diritto comparato non erano particolarmente fornite.

E la sua esperienza in biblioteca come parlamentare della X e della XIII legislatura?
Ricordo in particolare un episodio. Dovevo fare una dichiarazione di voto sulla legge Mammì, che regolava il sistema radiotelevisivo italiano, molto polemica nei confronti del provvedimento. Preparai in fretta la mia dichiarazione di voto proprio nella Biblioteca del Senato. Arrivai in Aula in ritardo e il mio intervento suscitò il finimondo [...].

Dal giugno del 2003 la Biblioteca si è trasferita a Palazzo della Minerva, ampliando notevolmente l'accesso al pubblico degli studiosi. Come giudica questa svolta?
Il passaggio nella nuova sede segna un cambiamento nel ceto parlamentare. Per non citare Benedetto Croce, nelle prime legislature vi erano studiosi come Raffaele Ciasca, Aldo Ferrabino, Gaetano De Sanctis. C'è stata una mutazione genetica, come usa dire, del ceto parlamentare che forse ha meno tempo, occasione e attitudine a utilizzare la biblioteca come la utilizzavano gli antichi senatori. Allora è giusto e democratico che questo passaggio coincida con l'apertura ai cittadini, agli studenti e a chi vuole agevolare la propria ricerca con la vicinanza dei testi.

E quale può essere il ruolo della biblioteca parlamentare come strumento di supporto all'attività legislativa?
Dal collegamento di biblioteche e ufficio studi possono risultare le condizioni migliori per una preparazione dei parlamentari italiani sulla base della conoscenza di realizzazioni legislative, di discussioni dottrinali e di fenomeni di sociologia politica di altri paesi, con particolare riferimento all'Unione europea. Più il mondo si rimpiccolisce, più è necessario che le biblioteche siano disponibili ad agevolare la conoscenza degli ordinamenti delle più diverse nazioni.»

(La mia biblioteca: intervista a Leopoldo Elia; tratta dal DVD I libri di Minerva, l'intervista è disponibile anche in video all'indirizzo <https://www.youtube.com/watch?v=qXWGNPeHicc>)

Fabietti (1937)

«Fasci, Dopolavori, case dei Balilla, ecc. hanno, in generale, biblioteche che adempiono ad una semplice funzione decorativa, ma non funzionano, o funzionano in esiguo numero ed irregolarmente. Se si facesse un’inchiesta controllata per sapere quante sono le biblioteche, quanti libri posseggono, quanto spendono per i rifornimenti e le rilegature, quante hanno un orario di servizio di prestito e quale, quante hanno personale dotato di un minimo di nozioni tecniche che affidino di una sufficente [!] organizzazione e di un utile funzionamento, e quanti, infine sono i volumi distribuiti in lettura nell’ultimo anno, mese per mese, si avrebbero risultati disastrosi. Molte biblioteche che non servono a nulla, molte altre che di bibl. hanno soltanto il nome, e molto spreco inutile di mezzi.»

(Ettore Fabietti, cartolina a Luigi De Gregori, Milano 5 giugno XV [1937], conservata nell’Archivio dell’Associazione italiana biblioteche, Carteggio di Luigi De Gregori, citata in Alberto Petrucciani, Le biblioteche italiane durante il fascismo: strutture, rapporti, personaggi, in: Das deutsche und italienische Bibliothekswesen im Nationalsozialismus und Faschismus: Versuch einer vergleichenden Bilanz, herausgegeben von Klaus Kempf und Sven Kuttner, Wiesbaden, Harrassowitz, 2013, p. 67-107: 95).

Faldella-Sella (1881)

«Poniamo che l'Accademia dei Lincei, come quella di Francia, onori largamente i meritevoli ingegni, perciò gli è forse necessario un nuovo palazzo? Non basta la sede capitolina? Svolgendo gli atti dell'Accademia, di cui trovai parecchi volumi intonsi nella biblioteca della Camera (Si ride), lessi che gli accademici stranieri, rispondendo agli annunzi di loro nomina, si dichiarano, nel loro latino cerimonioso, soprattutto onorati di essere stati assunti in Campidoglio.»
(intervento di Giovanni Faldella, in Atti parlamentari, Camera dei deputati, Legislatura XIV, 1ª Sessione, Discussioni, tornata del 16 marzo 1881, p. 4405).

«SELLA, relatore.
[...] Ma francamente, onorevole Faldella, si possono compatire, ma non deridere quelli che si sobbarcano a questi uffici. E dei risultati se ne ottengono. Saranno ancora intonsi i volumi dell'Accademia, nella nostra biblioteca, ma sappia l'onorevole Faldella che i volumi accademici non si leggono.
FALDELLA. Però si stampano.
SELLA, relatore. Ma si consultano. Sa l'onorevole Faldella come si guardano i volumi dell'Accademia? Il mio vicino, l'onorevole Del Zio, vuol fare una ricerca relativa alla storia della filosofia, io voglio fare una ricerca di cristallografia, il mio vicino, l'onorevole Maurigi, una ricerca di economia politica? Ebbene, notiamo l'argomento intorno al quale vogliamo fare speciali indagini, e ci proponiamo, se possibile, di far progredire il sapere umano.
La prima questione che si presenta è la seguente: che cosa è stato fatto, che cosa si sa oggi sopra cotesto argomento? Ecco il quesito che deve porsi sempre uno che studia: chi vuol fare un'indagine novella deve sapere a che punto sono giunti gli altri. Si cerca negli indici, e poi nelle serie di volumi delle Accademie o società scientifiche ciò che fu scritto sopra quel dato argomento, e si trova, per esempio, che a Pietroburgo un tale è giunto fin qui, in America, nell'Australia ve n'è un altro che è arrivato fin là. Ecco lo scopo delle collezioni accademiche: non sono bozzetti, onorevole Faldella (Si ride), che si leggano con piacere e con diletto, i volumi accademici sono la cosa più intollerabile del mondo, sono la raccolta delle ricerche, delle osservazioni fatte sopra tanti argomenti speciali da persone che talvolta spendono la loro vita per studiare soltanto una cosa. Anzi costoro sono forse quelli che più aiutano il progresso delle scienze. La divisione degli studi è giunta a un segno, che, per esempio, uno studierà soltanto alcune famiglie di piante fossili, e chi ne trova delle novelle, da qualunque parte del mondo gliele manda a determinare. [...]
Non si maravigli dunque l'onorevole Faldella che i volumi dell'Accademia siano ancora intonsi; quei volumi possono stare anni senza che nessuno se ne serva, poi viene quel giorno in cui permettono ad uno di fare un'indagine che altrimenti far non potrebbe. Questo è lo scopo di quei volumi, ed è perciò molto importante che vi sia in Roma un'Accademia che sia in relazione con tutti gli istituti scientifici del mondo, onde finire per avere la collezione delle loro pubblicazioni. [...] Ma non sappiamo ormai più ove disporre i libri che da tante parti affluiscono.
Dobbiamo pure avere una biblioteca, ci è pure mestieri avere un ufficio per le pubblicazioni, gli invii e simili: dobbiamo pure dare un certo numero di metri quadrati al dotto che venisse da una qualunque parte d'Italia o dall'estero per consultare i nostri libri.»
(replica di Quintino Sella, in Atti parlamentariCamera dei deputatiLegislatura XIV1ª SessioneDiscussioni, tornata del 17 marzo 1881, p. 4439).

Falqui (1927)

«Da quel poco che è dato leggerne, può sembrare che il Vittorini abbia meditato a lungo i romanzetti satirici del Voltaire. Senonché, avendo i libri che possedeva, in gran prevalenza di moderni autori francesi, finito, mesi addietro, col procurargli noia e disgusto, pensò di liberarsene e oggimai trascorre le sue giornate nella Biblioteca Arcivescovile, rapito dietro le grazie dell'elegantissima prosa magalottiana».

(Enrico Falqui, Elio Vittorini, «La fiera letteraria», 3, n. 24 (12 giu. 1927), p. 2.)