L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Boine (1916-1917)
«Ho bisogno della traduzione di Psiche di E. Rohde ed. Laterza. Non ho coraggio a chiedergliela perché mi feci mandar libri una volta e non li recensii. La chiesi alla biblioteca filosofica di lì ma non rispondono. Vuoi in qualche modo o a prestito o in regalo procurarmelo (dico regalo dell'editore, che la recensisci). Inoltre dalla Filosofica non mi potresti ottenere qualche prestito? Vedi se c'è il libro dei morti egizio, trad. Schiaparelli od altra trad.»
(Giovanni Boine, lettera a Emilio Cecchi, Portomaurizio 30 dicembre 1916, p. 209).
«Mi mandano il libro dei morti da Milano. Cerca viceversa Lobeck Aglaophamus 1829: ci tengo molto. E Foucart Le culte de Dionysos e Les mystères d'Éleusis.
Di tutto grazie affettuosamente.»
(Boine a Cecchi, [Porto Maurizio] 12 gennaio 1917, p. 211).
Boine-Cecchi (1913-1914)
«Ti manderò il Blondel. Ma sono costretto a pregarti di non tenerlo molto più del mese che dici ed in secondo luogo di non passarlo a nessuno. Non è mio. L'ho a prestito dall'accademia di Milano, sebbene non abbia intenzione di restituirlo ancora.»
(Giovanni Boine, lettera a Emilio Cecchi, [Porto Maurizio] 30 settembre 1913, p. 45).
«Giacché tu puoi prestarmi il Blondel, ti prego, mandamelo rapidamente, raccomandato. Non avere paura che non lo presterò ad anima viva, e non dirò a nessuno di averlo. Io poi sto lontano dalla città. Dopo un mese lo riavrai, senza fallo.
[...]
Ti prego di ricordarti, rapidamente, del Blondel, Blondel, Blondel!»
(Cecchi a Boine, Roma 4 ottobre 1913, p. 47, 49).
«Non badare a questi segnalibro ed a ciò che v'è scritto. Lasciali. Sono esclamazioni commentarie di quando ho letto la prima volta questo intrico: sett'anni fa.»
(Boine a Cecchi, [Porto Maurizio 5-7 ottobre 1913], p. 49. Biglietto probabilmente inviato con il volume).
«Ho ricevuto il Blondel. Grazie. [...]
Non temere del Blondel e grazie!
Ti scrivo di strada, tanto per darti ricevuta.»
(Cecchi a Boine, [Roma] 8 ottobre 1913, p. 51).
«Come dunque ti dissi, ebbi il Blondel e ti ringrazio; lascio scrupolosamente i segnalibro.»
(Cecchi a Boine, Roma 11 ottobre 1913, p. 51).
«Addio, tengo ancora un poco il Blondel.»
(Cecchi a Boine, Roma 20 novembre 1913, p. 63).
«Per tua regola, m'è stato chiesto il Blondel; ma non sapevano che era tuo. Io dico che ho tenuto, qualche tempo, un Blondel; ma l'ho già rimandato. Te lo rimanderò, effettivamente, fra un quindici giorni: va bene?»
(Cecchi a Boine, Roma 28 novembre 1913, p. 68).
«Ho ricevuta giorni sono una lettera di Cardarelli tutta incerta, tutta «bisogna vedere» etc. a proposito della rivista. Mi par che si cominci male. Mi chiede il Blondel che ha visto da te. Tienilo tu quanto ancora ti fa bisogno ma che vada in giro mi spiace. Se lo dai a Cardarelli, di lì passa a chissà chi e non si finisce più.»
(Boine a Cecchi, [Porto Maurizio] 2 dicembre 1913, p. 68-69).
«Il Blondel, io dico, da giorni, da quando cioè ti scrissi, che l'ho reso a te, che a tua volta dovevi renderlo; e così ripetei una settimana fa a Cardarelli. Io lo tengo chiuso in cassetto, e non lo fo uscire di casa che per spedirlo a te. Per consiglio mio, non prestarlo: tanto più che lo possono trovare anche altrimenti.»
(Cecchi a Boine, Roma 4 dicembre 1913, p. 69).
«Tengo ancora un po', gelosamente, il Blondel.»
(Cecchi a Boine, Roma 19 dicembre 1913, p. 72).
«Se tu mi potrai mandare per i primi dieci giorni di gennaio il Blondel mi farai piacere. Voglio cominciarne quella critica che progetto da tempo.»
(Boine a Cecchi, Portomaurizio 22 dicembre 1913, p. 73).
«Ti manderò verso il 10-12 il Blondel, come mi chiedi: ti basta così? A questa seconda rilettura in qualche punto, e qualche punto essenziale, mi si è sgonfiato sotto; ma devo ristudiare le mie note.»
(Cecchi a Boine, Roma 30 dicembre 1913, p. 74).
«E manda per quando dici il Blondel.»
(Boine a Cecchi, Portomaurizio 31 dicembre 1913, p. 76).
«A giorni il Blondel e quello della nota precedente che ti interesserà.»
(Cecchi a Boine, Roma 5 gennaio 1914, p. 78).
«Tornerò a Roma fra qualche giorno e ti farò la spedizione. Anche la restituzione del Blondel subirà un lieve ritardo. Scusami: tu vedi che circostanza mi ha vietato d'essere di parola.»
(Cecchi a Boine, Firenze 12 gennaio 1914, p. 80).
«Ricevei il pacco delle riviste, col «Berenson»; e ti spedii, raccomandati, un pacco di libri e giornali e il Blondel. Scusa il ritardo. Hai ricevuto tutto?».
(Cecchi a Boine, Roma 25 gennaio 1914, p. 80).
«Ricevuti i libri e poi l'Action e poi la cartolina. Grazie.»
(Boine a Cecchi, [Porto Maurizio] 28 gennaio 1914, p. 76).
«Non so più se t'ho detto che ho ricevuto il Blondel ed un pacco di libri che m'han servito.»
(Boine a Cecchi, [Porto Maurizio] 11 febbraio 1914, p. 81).
Bonsanti (1996)
«Pochi momenti dopo il tuono che quella notte del 3 agosto 1944 squarciò i ponti di Firenze sentimmo sopra le nostre teste il rumore degli stivali chiodati. L'antico portone non aveva retto allo spostamento delle mine, erano arrivati. I soldati tedeschi che entrarono in Palazzo Strozzi erano stanchi, impauriti e inferociti, certi ormai della ritirata. C'erano molti feriti e diversi morti. Uno di loro rimase abbandonato sulla destra dell'ingresso alla sala della distribuzione dei libri e per tanti anni la macchia di sangue non se ne andò. Così come c'è ancora, lassù in alto, la pietra scheggiata da una cannonata e rivederla, ogni tanto, mi rassicura che il tempo non cancella del tutto le cose del passato.
Cominciò quella notte una convivenza tra un pezzo d'esercito nemico e una moltitudine di sfollati che in Palazzo Strozzi e nelle sale del Vieusseux avevano cercato rifugio nei giorni della battaglia e della liberazione di Firenze. [...]
Mio padre e mia madre, che parlava il tedesco, tennero insieme e fecero coraggio a quella piccola folla di fiorentini arrivati da strade e da storie diverse, alcuni dei quali, se individuati, rischiavano tutto. Gente diversa: c'era la pittrice ebrea Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia, con il marito, il grande pittore Onofrio Martinelli. C'erano sconosciuti corsi a proteggersi dalle bombe nel sotterraneo più sicuro nel cuore della città. C'era una Rucellai, americana, con le figlie e una chitarra preziosa. C'erano i Berlini, storici portinai di Palazzo Strozzi. E c'eravamo noi: mio padre, direttore del Vieusseux dopo Montale, con mia madre ebrea incinta di otto mesi. Delfina, la tata di sempre. Mio padre non aveva voluto abbandonare la biblioteca a lui affidata nei giorni più pericolosi e per questo il Vieusseux e Palazzo Strozzi furono anche la nostra casa, il nostro rifugio e il luogo di incontro di tanti amici che in quel mese di agosto arrivavano, sfidando i franchi tiratori fascisti organizzati da Pavolini, da altre parti della città a vedere come stavamo, a cercare notizie degli altri, quelli che erano in prima linea.
Cominciammo a viverci verso la fine di luglio. [...] Il Vieusseux era stato chiuso al pubblico pochi giorni prima, quando un'abbonata era stata ferita nella sala della distribuzione dei libri, all'incirca dove c'è il grande camino, da un colpo sparato dai franchi tiratori appostati nei locali della Banca Commerciale.
Noi ci accampammo nello studio di mio padre, ma da subito al Vieusseux (per tanti anni Vieusseux e Palazzo Strozzi significarono all'incirca la stessa cosa) cominciarono ad arrivare gli altri che avrebbero diviso con noi i giorni dell'emergenza e della liberazione. Mio padre con il signor Bertini e Onofrio Martinelli ogni tanto spariva giù per la scaletta a chiocciola, quella di ferro che c'è ancora in fondo alla stanza. Giù, nel sotterraneo dove erano raccolti tanti libri e anche quelli più rari, laggiù arrivavano le aperture della rete fognaria. Furono esplorate a lungo tutte le possibilità di fuga e di tentativo di raggiungere l'Oltrarno, fu disegnata una mappa secondo istruzioni che mio padre aveva ricevuto da Carlo Emilio Gadda. Io dormivo sull'unico materasso disponibile, sotto uno dei grandi finestroni.
Poi venne la notte tra i1 3 e il 4 agosto. [...] E fu allora, dopo uno dei diversi boati che accompagnavano la distruzione dei cinque ponti, che il portone si spalancò. Forse adoprarono anche qualche bomba a mano. Noi sentimmo i passi, poi la porticina sulla scala a chiocciola fu aperta e qualcuno ci gridò di salire uno alla volta. Loro non si fidarono di scendere, temendo qualche agguato.
Mio padre chiese di parlare con il colonnello. Eravamo ancora tutti ammucchiati nel suo studio, attorno a noi piombavano grida e ordini incomprensibili, la mamma faceva quel che poteva con la sua traduzione. Ricordo un urlo del babbo: «No, non sui libri», ma ormai era troppo tardi. In quella immensa confusione un tedesco aveva afferrato l'unico fiasco d'olio che avevamo e credendolo vino ne aveva bevuto una sorsata. Per la rabbia lo scaraventò su uno scaffale. Cominciò la trattativa per salvare i libri. Il colonnello era un tipo colto, raccomandò a mio padre di nascondere i volumi preziosi perché non rispondeva dei suoi uomini. Lui diceva di apprezzare la letteratura. Furono subito scelti alcuni volumi (mi piacerebbe oggi ricordarmi quali) e subito messi da parte. Molti altri furono rovinati perché i tedeschi in quegli otto giorni che passarono al Vieusseux e nelle altre sale del palazzo, si divertivano a staccare le pagine per pulirsi. Moltissimi libri tedeschi furono portati via quando se ne andarono.
[...] Credo che se non ci fosse stato quel colonnello «colto» non sarebbe bastata la nostra presenza lì a salvare il patrimonio della biblioteca. Quando erano ubriachi i tedeschi bruciavano e strappavano qualunque cosa avessero a portata di mano. [...]
Se ne andarono anche loro nella notte tra il 10 e l'1l agosto. Sentimmo ancora i loro passi chiodati, si muovevano in fretta, penso che tutti quei libri tedeschi che mancarono fossero già partiti insieme alle altre ruberie di opere d'arte. Lasciarono un pacco di uova e farina con un biglietto: «per donna incinta». E questa volta mio padre non potè impedire che ci sfamassimo tutti. Suonò, alle 6,45, la Martinella di Palazzo Vecchio.
Noi restammo al Vieusseux per tutto il mese, fino ai primi di settembre. [...] Arrivavano a dividere con noi l'unico pasto della giornata Gadda, Giacomo Devoto con la sua famiglia, altri amici. Il 14 agosto Gadda passò l'Arno per andare verso Roma. Nello studio del babbo si pensava già al giornale che avrebbero fatto un giorno, al più presto, lui, Montale, Gadda e gli altri. Aveva deciso che si sarebbe chiamato «Il Mondo», in omaggio alla cultura e alla politica che avrebbero guardato fuori dai confini del Paese distrutto e ferito. Facevano progetti. Speravano. Accanto a mio padre e insieme a lui, appena fu possibile circolare per la città, Ugo Fabbri, Lorenzo Vezzosi, Ugo Marinari e Mauro Fabbri riaprirono la biblioteca, fieri di aver contribuito a salvarla per gli «abbonati» che l'avrebbero ritrovata quasi intatta. Le difficoltà finanziarie continuarono a lungo. Ma spesso, quando arrivava uno stipendio, lo dividevano fra loro.».
(Sandra Bonsanti, Una cronaca del ’44, p. 9-13).
Borgese (1910)
«Carissimo zio Giovanni, quello che faccio qui? Lavoro per il corso dell'anno prossimo. Parlerò della rivoluzione letteraria in Germania e della giovinezza di Goethe (molto, dunque, del Werther). Poiché bisogna condire quel che io penso con un po' di erudizione, è necessario sfogliare moltissimi libri e leggerne molti. Libri tedeschi nelle biblioteche italiane se ne trovano pochi, e ciò rende indispensabile un viaggio annuale in Germania. Ho scelto Monaco perché è la più vicina, ed ha una biblioteca ricchissima. Passo circa cinque ore al giorno in biblioteca, lavoro altre cinque ore, ora per il corso ora per gli articoli, in casa. Volevo anche avvicinar gente per rimettermi nell'uso pratico del tedesco, ma se si fa una cosa non si può far l'altra. E così ho dovuto rinunziarci. E conduco una vita indicibilmente solitaria, nella quale pronunzio sì e no venti parole al giorno.»
(Giuseppe Antonio Borgese, lettera allo zio Giovanni Borgese, Monaco di Baviera 16 settembre 1910, cit. da Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, p. 48-49).
Borgese (1912-1913)
«M. [Guido Manacorda] scrisse un libro di dottrina esteriore e necessariamente insufficiente pei cosidetti germanisti, eccessivo e inutile per il pubblico colto (quando si pensa che nelle bibl. it. [biblioteche italiane] non si trova il 95% dei libri citati dal M.). È difficile negare che quel libro sia uno fra i tanti prodotti del vecchio spirito schedistico dell'Un. [università] italiana.»
(Giuseppe Antonio Borgese, lettera a Giovanni Papini, Roma 25 gennaio 1912, p. 106-107. La lettera si riferisce all'aspra polemica in corso tra Arturo Farinelli e Manacorda).
«Ricomincio ora a lavorare ordinatamente e a occuparmi anche delle solite cose. E oggi stesso ti rimando la traduzione di Strindberg. L'avrei pubblicata con grande piacere; ma dallo svedese, e non dal tedesco.
Quanto al Vannicola [Giuseppe], sai di che si tratta. Considerata la reputazione che in questo genere di cose gli avete fatta, occorre assolutamente che io paragoni la sua versione al testo per assicurarmi della fedeltà e alle traduzioni francesi per assicurarmi dell'originalità. [...]
È vero che anche per ciò avrei dovuto spicciarmi prima. Ma ormai, pazienza! È cosa che farò il primo giorno che mi avvenga di passare in biblioteca: dunque, in agosto, o, al più tardi, in settembre. Se tu potessi procurarti a Firenze i libri che mi occorrono e mandarmeli in prestito per tre o quattro giorni, mi faresti piacere.»
(Giuseppe Antonio Borgese, lettera a Giovanni Papini, Cornigliano (Genova) 8 agosto 1913, p. 119. La lettera si riferisce alla polemica in corso su varie riviste riguardo alla traduzione).
Borgese (1937a)
«Whatever he [Mussolini] thought or said yesterday, even if, especially if it was the contrary of what he thinks or says today, seems to be deleted from his consciousness and must be deleted from the memory of those who read or listen. No one, in the Italian libraries, is allowed to consult the articles of Mussolini's socialistic or anarchistic time, and one of his courtiers worded fittingly the master's fondest desire when he imposed upon all Italy the slogan: "Mussolini is always right."»
(Giuseppe Antonio Borgese, Goliath: the march of fascism, p. 189).
Borgese (1937b)
«The Senate was and is hardly worth mentioning. It was and is a clubhouse with commodious armchairs and a fine library. Unanimity had always hovered on those gatherings of temperate gentlemen and slumbering emeriti; and no effort was required to perfect into a flawless conformism an inclination that was inborn in their society.»
(Giuseppe Antonio Borgese, Goliath: the march of fascism, p. 276).
Bruschi (2019)
«I misteriosi fili della libertà portarono nel 1941/2 ai collegamenti dei diversi fili, sino a formare il tessuto politico di Sampierdarena. Io abitavo al Campasso e frequentavo in Via Cantore la scuola dove aveva studiato [Giacomo] Buranello. A metà strada, in Via Rolando, scoprimmo per caso, il luogo della sintesi: la biblioteca di Sampierdarena, già sede socialista. Il bibliotecario non era di sinistra, ma certamente avversario, in quanto liberale, del fascismo. Fu lui, [Angelo] De Gregori il tramite con Buranello e con altri compagni. Uscirono da scaffali polverosi e dimenticati alcuni libri nascosti nell'agosto 1922 dopo le violenze squadriste nel'ultimo sciopero generale della CGL. Prima Lassalle, poi Engels, infine Marx fornirono elementi storici, teorici a ragazzi di 16/17 anni.
[...]
Il giovane studente di Sampierdarena [Buranello] pensava e operava già in grande con la scelta di formare il centro dirigente del Partito a Genova. La sua predilezione intellettuale per la scienza lo portò a seguire con curiosità le ricerche di 4/5 studenti dell'istituto tecnico di Via Cantore che, insoddisfatti della teoria religiosa della creazione del mondo e dei racconti su Adamo ed Eva, cercavano in biblioteca le opere di Darwin. Giacomo divenne il maestro, il consigliere, il suggeritore per le originali tenzoni che si svolgevano in classe con l'insegnante di religione. Andò a finire che gli studenti furono espulsi dalle lezioni di religione e contemporaneamente inseriti in un movimento più ampio, quello della Liberazione dell'Italia dal fascismo.»
(Giordano Bruschi, Il mio ricordo di Giacomo Buranello, in: Giacomo Buranello, Diario, 1937-1939, Genova, Fratelli Frilli, 2019, p. 15-19: 15).
Bucarelli (1944)
«Venerdì 28 aprile [1944]
[...] Poi esco e vado alla Bibl. Nazionale per farmi prestare i libri per Paolo [Monelli], il Baretti e il Boswell. A colazione da Ettore in piazza del Collegio Romano con Toio [Vittorio Gorresio] che trovo in bibl. e [Luigi] Fiocca.»
(Palma Bucarelli, 1944, p. 19-20).
Bucarelli (1989)
«A Roma ho fatto l'ultimo anno di ginnasio e tutto il liceo al Marco [ma Ennio Quirino] Visconti, in quello che era il vecchio Collegio Romano dove c'era la Biblioteca Nazionale che io frequentavo spesso. [...]
Finii l'università (dove avevo avuto un grande maestro, Pietro Toesca) laureandomi con una tesi in arte antica su Francesco Salviati e il Manierismo tosco-romano. Avevo solo vent'anni, poi feci un anno di specializzazione e il concorso per ispettore al ministero dell'Istruzione. [...]
Nel frattempo continuavo con i miei studi sull'arte antica e frequentavo molto palazzo Venezia dove c'è la più importante biblioteca d'Italia, ma i testi si fermano agli inizi dell'Ottocento ed è per questo che più tardi, alla Galleria d'arte moderna, ho fondato una biblioteca per l'arte contemporanea che è arrivata a 50.000 volumi, ottenuti tutti attraverso donazioni.»
(Palma Bucarelli, testo autobiografico redatto nel 1989, in: Palma Bucarelli a cento anni dalla nascita, p. 10-11).
Buonaiuti (1945a)
«Di pari passo, la mia famelica avidità di conoscenze e di letture andava accattando d'ogni parte il suo possibile alimento. Ricordo ancora la gioia che mi inondò quella mattina che, andando a rovistare negli scaffali della solitaria biblioteca seminaristica, situata nel salone soprastante alla chiesa di Sant'Apollinare, rinvenni e cominciai a leggere la Storia della Lega Lombarda, dettata nel 1848 dal monaco cassinese Luigi Tosti. Fui preso da un senso entusiastico di esaltazione, che sembrò destare e accendere d'improvviso nel mio spirito giovanile un desiderio frenetico di non abbandonare più il solco storico, tracciatomi da quell'opera provvidenzialmente rinvenuta. Cercai uno dopo l'altro i volumi del Tosti che erano nella biblioteca. Ero di consueto il solo lettore lassù, e la mia ansia aveva modo di appagarsi a suo libito. I volumi dell'ardente monaco benedettino, che aveva avuto il suo quarto d'ora di rinomanza politica, oltre che storico-letteraria, quando si era ardimentosamente fatto avanti per patrocinare una possibile conciliazione del papato col governo italiano, passarono uno dopo l'altro per le mie mani: la Storia di Bonifacio VIII e dei suoi tempi, la Storia della contessa Matilde, la Storia dell'Abbadia di Montecassino, soprattutto i Prolegomeni alla storia universale della Chiesa. [...] Se l'amore del passato cristiano era probabilmente insito nel mio spirito dai primi albori della mia vocazione culturale, i volumi di padre Tosti gli diedero una sagoma definitiva. [...]
Un mio compagno, chierico non aggregato ad alcun collegio ecclesiastico, che era quindi nella possibilità di adire le pubbliche biblioteche romane e di prenderne a prestito i volumi, mi si offrì per passarmi le opere che egli veniva successivamente mutuando dalla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele. Mi pervennero così nelle mani le opere destinate a esercitare nella mia anima inquieta un'azione ben più profonda di quella svoltavi dagli insegnanti di teologia. Il mio buon amico che si prestò a questa bisogna, destinato più tardi ad occupare la dignità di canonico teologo in una grande diocesi dell'alta Italia, avvolto in una ben meritata aureola di santità e di abnegazione, non ha mai saputo probabilmente quanto la sua prestazione fraterna abbia contribuito ai rivolgimenti della mia psiche e alle vicende movimentate del mio curriculum ecclesiastico.
Solo per suo tramite mi fu possibile, sui miei vent'anni, leggere le Critiche kantiane e L'Action di Maurizio Blondel. Ed io ricordo come oggi l'intimo senso di voluttuoso compiacimento con cui io volli nella prima notte del secolo ventesimo trascorrere insonne le ore delle tenebre, tuffato nella lettura di quell'opera magistrale e riboccante di «spirito di finezza», in cui il Blondel ha cercato di individuare, traccia per traccia, il cammino lungo il quale sale a Dio nella vita il nostro indomabile e mondanamente inappagabile bisogno di Eternità e di Assoluto.
Kant mi lasciò invece ostico e refrattario.»
(Ernesto Buonaiuti, Pellegrino di Roma, p. 31-32. La prima edizione uscì a Roma presso Darsena nel 1945).
Buonaiuti (1945b)
«Quando il Ministero della Pubblica Istruzione bandì il concorso per la cattedra [di Storia del cristianesimo] lasciata vacante dal [Baldassarre] Labanca, un amico della Facoltà di Lettere della R. Università di Roma, che io avevo conosciuto e col quale mi ero cordialmente legato attraverso la mia assidua frequentazione della Biblioteca Casanatense, il prof. Vincenzo Federici, mi incitò calorosamente a parteciparvi. Una cattedra universitaria di studi religiosi non era stata mai nei piani delle mie aspirazioni e delle mie previsioni. [...]
Fui annoverato primo nella terna uscita dal concorso e la cattedra mi fu pertanto assegnata.
Era il settembre del 1915.»
(Ernesto Buonaiuti, Pellegrino di Roma, p. 123-124. La prima edizione uscì a Roma presso Darsena nel 1945).
Buonaiuti (1945c)
«Quando, in occasione delle solenni cerimonie svoltesi a Milano nel ricorrere del XV centenario della morte di Sant'Ambrogio, l'allora prefetto dell'Ambrosiana, Achille Ratti, pubblicava un coscienziosissimo studio sui ritratti del grande presule milanese, che nella seconda metà del quarto secolo aveva così vigorosamente fatto argine alla penetrazione ariana in Italia, nessuno in verità degli ambrosiani amici del diligente studioso o dei suoi lettori avrebbe potuto immaginare che un giorno sulle spalle del modesto direttore dell'insigne biblioteca milanese si sarebbero posate, non solamente le infule episcopali della grande metropoli lombarda, ma anche i candidi paramenti della suprema dignità religiosa del cattolicismo romano.
A quindici anni di distanza, lo studioso, il paleografo, l'esploratore acutissimo della storia dell'arte lombarda, sale sulla cattedra di Pietro, a governare, in una delle ore più solenni e più cariche di avvenire, l'immenso organismo del cattolicismo nel mondo. Come rapida è stata la sua ascensione e come repentino il maturare del suo destino!
Chi scrive queste righe lo ricorda ancora, sei anni or sono, prefetto della Biblioteca Vaticana, dove, succeduto alla prefettura del duro ed arcigno padre Ehrle gesuita, aveva portato una così larga vena di espansiva cordialità, verso tutti gli assidui frequentatori del grande tesoro letterario, custodito nel recinto dei palazzi di San Pietro. Dalla faccia larga e sorridente, dagli occhi acuti e mobili, sogguardanti al di sopra delle lenti con aria intelligente e bonaria ironia, l'erudito prelato irraggiava intorno a sé un'atmosfera di schietta, perenne serenità. Ma bastavano pochi periodi di conversazione per fare intendere che, sotto la modesta ed arguta semplicità dell'uomo, si nascondeva, non soltanto una perizia scientifica di primissimo ordine, bensì anche una padronanza signorile della cronaca politica contemporanea.
Benedetto XV predilesse il prefetto della Vaticana. La guerra europea era scoppiata da pochi mesi a gettare vampate sanguigne su tutti i tessuti della vita internazionale, che monsignore Achille Ratti era inviato dal Pontefice a coprire uno dei posti più delicati che in quel momento si offrissero alla diplomazia pontificia: la delegazione apostolica in Polonia.»
(Ernesto Buonaiuti, Pellegrino di Roma, p. 195-196. L'autore riporta qui l'articolo pubblicato nel 1922, per l'elezione del papa, sul giornale «Il mondo». La prima edizione del volume uscì a Roma presso Darsena nel 1945).
Cafagna (2004)
«Le mie letture politiche nei mesi della occupazione [tedesca di Roma] furono scarse, scadenti e deludenti. Erano generalmente libri fascisti sul comunismo o sugli Usa, dai quali era difficile estrarre quel che mi sarebbe dovuto interessare. Mi capitò fra le mani, non so come, credo fosse addirittura preso in prestito in una biblioteca circolante di vicolo Doria, una raccolta di scritti di Lenin, resistita ai setacci della censura fascista. Ma erano scritti del tipo militante e d'occasione con dirimpettai polemici a me totalmente sconosciuti: non ci capii nulla e mi delusero profondamente. Il senso di un rapporto fresco con un mondo popolare che mancava alla mia esperienza me lo diedero le opere giovanili di Vasco Pratolini.»
(Luciano Cafagna, Testimonianza sul dopoguerra romano, in: Roma 1944-45: una stagione di speranze, Milano, Angeli, 2005, p. 69-72: 70. La testimonianza fu presentata al convegno tenuto nel 2004 e il libro ricordato dovrebbe essere Nicola Lenin, Pagine scelte, a cura di A. Leonetti, Milano, Facchi, [1921], presente nella Biblioteca circolante de "L'Italia che scrive").
Cajumi (1950)
«Anche Kipling se n'è andato, e l'ho commemorato come si dovrebbe fare con tutti gli scrittori: leggendo delle sue pagine, e qualche buon studio critico. I miei ricordi di Kim erano scolastici, e l'opera m'è apparsa quasi nuova, nella sua originalità, e forza, e poesia. Da anni, non m'era capitato di tornare a lui se non attraverso alcune novelle tra le piú evidenti e cronistiche; e – a San Vittore – mi avevano data una versione alquanto popolare del Libro della giungla, che, tra la foca bianca, e la tigre, e il ragazzo selvaggio, si era riaffacciato sempre pieno di fascino, e di strano vigore.»
(Arrigo Cajumi, Pensieri di un libertino, p. 29. Cajumi era stato arrestato nel maggio 1935 con altri collaboratori della rivista «La cultura» e, a quanto sembra, rimase nel carcere milanese di San Vittore sono un giorno. L'opera, edita parzialmente nel 1947, fu pubblicata nella prima edizione integrale da Einaudi nel 1950).
«non c'è nulla di piú personale di una raccolta di libri (creata da uno che li legga e li ami), ma neppure di piú soggetto a continue variazioni. Probabilmente, i superstiti saranno pochissimi: un'opera dura nel nostro ambito mentale due, tre, dieci, vent'anni, poi un bel giorno ci sembra avvizzita, finita. Possiamo sbarazzarcene senza rimpianti perché non è piú legata a nessuna delle nostre preoccupazioni, non ci dice piú niente. Altre, che sembravano lontane e prive di possibilità, ci si rifanno invece vive ed attuali. Ricordo un Napoleone il piccolo, traduzione italiana con la falsa data di Londra, 1852, che lessi ragazzo e mi travolse per la fulgida retorica, tanto da acquistarlo per sei soldi alla biblioteca circolante dove l'avevo preso in lettura. Passarono alcuni anni, e non sapevo quasi di possederlo: un giorno, mi risuscitò alla memoria, lo rilessi, lo rileggo, l'ho anzi fatto premurosamente rilegare.»
(ivi, p. 162-163).