L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Risultati della ricerca
De Mauro (2004a)
«D. Ma in termini di competitività culturale – per usare un altro termine un po' brutto – siamo o no arretrati rispetto ai paesi a noi più assimilabili?
R. In termini relativi ciò è indubbio. Finora non abbiamo parlato di altri indicatori che segnalano le disparità. Vogliamo parlare dei dati di vendita dei giornali? [...] Ma possiamo aggiungere le cifre sulla lettura di libri, assolutamente catastrofiche. O di un altro settore ancora: la quantità di strutture di pubblica lettura, per esempio le biblioteche di quartiere: lo sa che in Spagna più della metà dei libri letti sono presi in prestito in biblioteche territoriali? Noi abbiamo un pessimo sistema di biblioteche, tolte alcune isole felici nel Nord-Est del paese o in Emilia. [...]
Nell'ultima indagine multiscopo dell'Istat sulla lettura [...] i ricercatori hanno spostato il tiro anche sui non lettori. I non lettori, cioè quelli che non leggono né un libro né un giornale, sono i due terzi della popolazione italiana. E a loro hanno chiesto: perché non leggete? La sgranatura nelle risposte è abbastanza interessante. [...] Un altro risultato che fa riflettere è quel 3 per cento che accoglie tra le diverse una risposta suggerita dai ricercatori: non leggo perché non trovo biblioteche dove andare a prendere i libri. Cosa vuol dire questa risposta? Vuol dire che non esiste neanche la consapevolezza, se non in una porzione minima del campione, dell'esistenza di luoghi pubblici dove si possano prendere e leggere libri. Il 97 per cento dei non lettori non accampa nemmeno come pretesto l'assenza di biblioteche: nemmeno sospetta che potrebbero esistere. D'altronde solo poche persone sanno – non lo sa il Comune di Roma, non lo sa la Regione Lazio, non lo sa forse l'intera popolazione romana – che prima dei bombardamenti, in proporzione agli abitanti, la città di Baghdad offriva ai suoi residenti più luoghi di lettura pubblica che non la città di Roma (lo accertò l'Associazione italiana bibliotecari). A Roma nessuno sa di avere diritto, secondo gli standard internazionali, a trovare entro 600 metri da casa propria una biblioteca che gli metta a disposizione i libri appena usciti. E questo accade a New York o a Parigi, a Madrid o a Salamanca e a Barcellona. Allora, certamente l'Italia vive una condizione di arretratezza, ma è un'arretratezza indotta. Se non ci sono biblioteche, non si sa che potrebbero e dovrebbero esserci. Non sapendo questo, nessuno spinge per avere biblioteche. E quindi si degenera in una situazione di arretratezza collettiva. [...]
D. Funzionano male sia la pubblica fruizione che la conservazione di libri?
R. Funziona abbastanza male anche la conservazione, ma già funziona meglio nel deserto della pubblica lettura. Noi non possediamo nulla di paragonabile alle grandi strutture di altri paesi, alla rete formidabile di tutte le biblioteche – universitarie, pubbliche, di conservazione, locali – che esiste in Germania. Non abbiamo nulla di paragonabile alla Bibliothèque Nationale di Parigi, alla Library of Congress degli Stati Uniti, o alla British Library di Londra. In questi paesi gli investimenti sono consistenti e lo sono da secoli, per cui alimentano il bisogno di strutture del genere. Le racconto un episodio. Fino a metà degli anni Cinquanta la Biblioteca Nazionale di Roma era al Collegio Romano. Poi si decise che doveva essere trasferita in una nuova sede. La decisione fu brusca e brusca fu anche la chiusura della biblioteca, perché si pensava che il nuovo edificio sarebbe stato costruito velocemente. Successe che noi utenti della Nazionale ci organizzammo e facemmo un corteo per via del Corso, fin sotto Montecitorio, per protestare contro la chiusura. Il corteo era guidato dal professor Angelo Monteverdi, un filologo romanzo. Eravamo alcune centinaia di persone e bloccammo il traffico. Una cosa mai vista né prima né dopo! La biblioteca fu subito riaperta almeno in parte e poi, molti anni dopo, richiusa. Il nuovo edificio della Biblioteca Nazionale è stato costruito in modo dissennato – mi dispiace dirlo per i bravi architetti che ci hanno lavorato. In un periodo di vacche grasse, di curiose opinioni avveniristiche, doveva essere tutto automatizzato, ma i fondi per far funzionare l'automazione non c'erano, non ci sono mai stati. L'edificio è di una inutile grandiosità per tanti aspetti, tutti quanti hanno dato il loro contributo alla distruzione per lunghi anni della struttura, che è stata soggetta ripetutamente alla chiusura di sale, più o meno ragionevole. Insomma, nessuno ha più protestato e direi che oramai nessuno più protesta. Immaginare di fare un corteo per il miglior funzionamento della Biblioteca Nazionale è assolutamente improponibile. Qui incappiamo in un'altra forma di arretratezza. Ma è anche rassegnazione. Vede queste nostre case di professori, ingolfate di libri? Questo non accade in altri paesi.
D. I suoi colleghi tedeschi, inglesi o francesi non posseggono libri?
R. Un centinaio, forse qualche centinaio. Ma non mi è mai capitato di vedere più di tre, quattrocento libri in casa di professori stranieri. Si posseggono i libri di affezione. I classici più amati. È del tutto naturale che per il resto si vada in biblioteca. Insomma, queste pile oscene di libri che si ammucchiano sui nostri tavoli e sulle nostre scrivanie non si trovano altrove. E invece qui, a Roma, in una condizione già privilegiata, con grandi biblioteche di conservazione, se vogliamo accedere rapidamente a un libro, l'unica cosa è averlo a casa.
D. Quello che lei dice fa pensare a un altro degli effetti della condizione di minorità, per non usare la parola arretratezza, rispetto agli altri. Essa produce un eccesso di individualismo, una cura esasperata dei luoghi privati a scapito di quelli pubblici, che invece negli altri paesi godono di molta più attenzione.
R. È vero. Possedere i libri diventa un vanto. Giovanni Spadolini aveva una biblioteca di 30 mila volumi. [...] Il mio amico Tullio Gregory ha una splendida biblioteca in casa. Oh, che casa! Umberto Eco ha una spettacolare biblioteca. Un altro mio vecchio amico, morto da tanti anni, diceva di sé: io studio le cose su cui sono riuscito ad avere i miei libri. [...] Se Tullio Gregory e io buttassimo via i nostri libri e dicessimo: «Vogliamo meno libri in casa e più biblioteche», avrebbe forse un effetto. Ma temo anche che la gente si metterebbe a ridere. In molte università abbiamo cercato di arricchire le biblioteche di facoltà, ma da tanti anni scarseggiano i finanziamenti per tenere il ritmo della produzione libraria. Gregory, che per molto tempo ha meritoriamente diretto la biblioteca dell'istituto di Filosofia di Villa Mirafiori, qui a Roma, una biblioteca importantissima che si è andata nutrendo di lasciti, a un certo punto, vista la scarsità di mezzi a sua disposizione, decise di non acquistare più nulla di italiano, solo testi e riviste straniere. È stata una scelta dolorosa e anche paradossale: i libri specialistici pubblicati in Italia qualche volta pure servono. Ma le nostre biblioteche, per esempio nel settore linguistico, non riescono a dar conto di ciò che si stampa all'estero. Per essere aggiornati bisogna ogni tanto andare fuori d'Italia. E poi comprare i libri indispensabili alla propria ricerca.
[...]
Siamo partiti dai libri e stiamo parlando di libri, ma, usando di nuovo la percezione di tanti amici e colleghi stranieri che vengono a trovarci, sono sempre colpito da quanto restino stupefatti non solo per le nostre biblioteche private, ma in genere per le nostre case, per come sono curate, arredate, tirate a lucido. E per la differenza che scorgono con quello che vedono fuori di qui. ».
(Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, p. 28-34).
De Mauro (2004b)
«Molti anni dopo trovai su una bancarella un libro di [Antonino] Pagliaro che si intitolava Teoria dei valori politici, un pregevole saggio di impostazione cassireriana, schierato su posizioni anti-idealistiche, da positivista storico, la cui ultima pagina era un elogio di Benito Mussolini. Lo inserii in una bibliografia di Pagliaro e quando lui se ne accorse rimase stupefatto. Evidentemente non ne aveva piacere. «E questo dove l'hai trovato? – mi chiese – In biblioteca non c'è». «Ma sulle bancarelle sì», replicai.»
(Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, p. 69).
De Mauro (2012a)
«Gli orali della maturità filarono via col vento in poppa. [...] Per ultima mi toccò l'interrogazione di latino e greco con il professor Marchi. L'esame fu minuzioso e lungo. Alla fine Marchi mi chiese che cosa avevo in mente di fare poi. Gli dissi che, in un modo o nell'altro, volevo insegnare nelle scuole, fare il professore. Avevo in mente il modello di Mario Themelly e dei miei recenti professori di liceo. Ma mi ricordavo anche la suorina di prima elementare, suor Rosa, e la professoressa Urban e Nuccia Musatti. Mi pareva il mestiere più bello del mondo. Mario Themelly, quando gli confidai il mio proposito, approvò, condivise la mia valutazione, anzi credo di dovere a lui le parole il mestiere più bello del mondo, ma subito mi mise in guardia sulle difficoltà che avrei trovato nella situazione italiana e sugli assai moderati compensi. Marchi non fece obiezioni, mi chiese solo ragionevolmente che cosa pensavo di insegnare. Ero incerto, gli dissi, tra il fascino della matematica e della fisica, ma anche quello della storia e dell'antico mondo greco. Gli confessai le ricorrenti difficoltà economiche familiari e quindi gli accennai all'idea, discretamente ventilata dai miei, che studiassi giurisprudenza per avere presto più carte in mano per lavorare e guadagnare. Scosse il capo. «Lei», mi disse, «sa che cos'è la Normale?». Non ne avevo idea. Mi spiegò rapidamente, un luogo a Pisa, un collegio, dove studiare duramente, ma spesato di tutto, e con una biblioteca [della Scuola normale superiore] intera a disposizione e professori, spesso i migliori, a disposizione, e non solo italiani. Concluse: «Lei deve prepararsi per fare in autunno il concorso di ammissione alla Normale per la classe di lettere». Gli dissi che accettavo l'idea. «Bene, allora, se vuole riuscire, deve quest'estate precisare e rafforzare la sua preparazione. Può scrivere?». Mi dettò quella che, questa volta, era una vera reading list. Tempo fa, per rispondere in qualche modo a una laudatio, ho dovuto rievocarla dinanzi ai colleghi della Sorbona, perché gli autori di quella lista erano stati tutti grandi maestri di quell'istituzione parigina: da Michel Bréal a Meillet, di cui mi assegnò in pratica l'opera omnia. Unica eccezione, un libro in italiano, Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali.
Seguii quasi subito le sue indicazioni di lettura, ma non fino in fondo il suo consiglio.
Quasi subito, perché terminati gli esami, usciti i quadri, Mario Themelly mi offrì, e io accettai con gioia, due settimane di ospitalità in una sua casetta nella montagna abruzzese, sulle ultime balze del Sirente. Si trattenne un paio di giorni, poi mi lasciò solo a camminare in solitaria per la brulla montagna, a franare insieme a sassi e massi, con qualche incoscienza, lungo coste e canaloni franosi fino a valle, a inoltrarmi nelle gole del Sagittario, a nutrirmi attingendo ai sacchi di fagioli e fiaschi d'olio conservati in casa, a rimuginare sul mio avvenire, a pensare alla mia bella compagna lontana con cui, senza telefono, non potevo corrispondere. Con lei, risceso a Roma, mi lasciai guidare verso l'università e mi inoltrai nella grande sala di lettura dell'Alessandrina. Ordinavo uno dopo l'altro i libri della lista di Marchi, Bréal non suscitò grandi entusiasmi nonostante il tema, ben altro effetto sentii leggendo le due brevi, grandi storie del greco e del latino, l'introduzione allo studio comparativo delle lingue indoeuropee, la grammatica comparata del greco e del latino. Come d'abitudine, leggevo e riassumevo su un quaderno pagina dopo pagina. Ripescai i libri di Galante e cominciai a studiarli, Passy più che la grammatica sanscrita. La mia compagna comprò e mi passò la Storia di Pasquali, che potevo leggere a casa, sprofondando in essa. La prova alla Normale si avvicinava. I quindici giorni di lontananza mi avevano fatto sentire assai forte il legame con la mia compagna lontana. Lei mi spingeva ad andare a Pisa. Preferii non farne niente e restarle vicino a Roma. Tradendo il buon professor Marchi, mi iscrissi alla Facoltà di lettere della Sapienza, lettere antiche, filologia classica.»
(Tullio De Mauro, Parole di giorni un po' meno lontani, p. 165-167).
«Alla licenza liceale il professore di latino e greco che ci esaminava, il professor Marchi di Firenze, un allievo del filologo Giorgio Pasquali, mi propose di presentarmi alla Normale di Pisa. [...] Gli chiesi cosa dovessi fare e lui mi stilò una lista di libri, da Storia della tradizione e critica del testo di Pasquali fino ai libri di Meillet.
[...]
Ho cominciato a seguire questo programma di letture nell'estate dopo la licenza liceale, guidato da una mia compagna che mi precedeva di un anno, una ragazza di cui ero innamorato. Lei era già all'università, faceva Lettere. Mi ha accompagnato lei la prima volta alla Biblioteca Alessandrina e così ho passato l'estate a leggere libri di linguistica. Poi un po' per amore, un po' per altri motivi ho preferito rinunziare alla Normale (chissà poi se mi avrebbero accettato) e restare a Roma, ma ancora con le idee confuse. Ho cominciato a frequentare le lezioni di Antonino Pagliaro, che insegnava Glottologia [...]».
(Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 63-64).
De Mauro (2012b)
«Le biblioteche non devono essere solo teche di libri da tener sotto chiave, ma luoghi attivi di socializzazione. Lo abbiamo sostenuto ripetutamente in molti, lo ha spiegato magistralmente in più d’un suo libro Giovanni Solimine. La Biblioteca Alessandrina già allora rispondeva a questo desiderato. Rispondeva in modo più serio nella sala riservata a studiosi e docenti, la sala Chiovenda, per me in quest’estate preuniversitaria inaccessibile. Ma rispondeva anche nella grande sala di lettura per studenti. In fondo alla sala si apriva una larga porta che immetteva in un ampio locale contornato dai gabinetti per i maschi (le femmine avevano altro locale da tutt’altra parte). Qui i frequentatori maschi avevano modo di soddisfare i loro bisogni, ma anche di soffermarsi a fumare una altrimenti vietatissima sigaretta e a scambiare due chiacchiere. Le chiacchiere erano soprattutto, che io ricordi, notizie sullo studio e i professori e discussioni politiche. Tra una e altra pagina di Meillet, tra una sigaretta e l’altra cominciai a stabilire contatti con studenti più anziani e di varie facoltà. [...]
Nel locale dei gabinetti tuttavia la discussione, quando si accendeva, si svolgeva in forme civili. E sui grandi muri bianchi si depositavano in forma scritta le opposte visioni politiche e qualche testimonianza prepolitica. Abbondavano i «w Nenni», corretti in «ʍ Nenni», ricorretto in «w Nenni», i viva e abbasso il Duce, qualche viva e abbasso Togliatti. Qua e là campeggiavano espressioni olofrastiche: CAZZO oppure FICA, più spesso STRONZO. Scritto con cura si leggeva un più elaborato distico a rima baciata, una precoce critica della scienza e dell’insegnamento trasmissivo: Affinché l’ateneo nulla ci perda / quel che in scienza mi dà gli rendo in merda. L’autore, che io sappia, è ignoto e, per quanto poi abbia cercato, non è rintracciabile con sicurezza nemmeno la prima origine. Rispetto ad altre attestazioni recentiores il 1951 è, allo stato delle indagini, un buon terminus ante quem. Quanto alla forma, ragioni metriche e di stile rendono questa preferibile ad altre varianti (perché invece di affinché, sapere invece di scienza) raccolte sui muri di altre università italiane. Più o meno negli stessi anni (ma io l’ho potuto sapere solo assai più tardi) due allora giovani studiosi della Sapienza, Alessandro Bausani, grande orientalista, e Mario Lucidi, avevano concepito l’idea di una raccolta sistematica delle scritte sui muri di vespasiani e gabinetti e, anzi, avevano cominciato l’impresa e ne avevano già il titolo: Corpus Inscriptionum Latrinarum. Qui il distico avrebbe fatto la sua figura.»
(Tullio De Mauro, Parole di giorni un po' meno lontani, p. 169-171).
De Rinaldis (1909)
«Comincio ad occuparmi, con questa lettera, d’una questione assai grave e complessa, che abbraccia nella vastità dei suoi termini non solo la vita della Biblioteca Nazionale, ma l’organizzazione di tutti i pubblici istituti di coltura di cui Napoli dispone. Mi limiterò, per ora, ai fatti che riguardano direttamente la nostra maggiore Biblioteca – i quali sono i più gravi, – proponendomi di occuparmi anche degli altri che vi si collegano – i quali sono i più complessi e delicati, perchè toccano tutto un ingranaggio rugginoso d’interessi d’ogni sorta, che bisognerà una buona volta conciliare perchè gli istituti napoletani acquistino la possibilità d’un logico ed utile sviluppo futuro.
Non occorre ch’io m’indugi a ricordare o a dimostrare come nell’Italia meridionale difettino le pubbliche Biblioteche e come quelle esistenti non possano in alcun modo rispondere alle necessità degli studi e degli studiosi: se questi ultimi debbono rivolgersi alla nostra Biblioteca universitaria per le opere scientifiche (sopra tutto di scienze mediche e matematiche) non possono non far capo alla Biblioteca Nazionale per quanto riguarda coltura filologica e storica nel più lato senso della parola. Questa biblioteca, dunque, non è soltanto un istituto napoletano, ma dell’intero Mezzogiorno (esclusa la Sicilia, ma solo fino a un certo punto); e se ciò accresce enormemente la sua importanza, rende tanto più gravi le condizioni nelle quali attualmente si trova. [...]
Sappiano ora i lettori che la Biblioteca (posta col Museo Nazionale nell’antico Palazzo degli Studi) possedeva nel 1818 ottantamila volumi e ne ospita oggi circa quattrocentomila, mentre dal 1804 in poi non ebbe altro incremento spaziale che l’aggiunta di due sole sale. La sua topografia conta, per ciò, diciannove vani compresi quelli occupati da scaffali – non esclusi gli altri che ospitano la Raccolta Lucchesi Palli, sezione autonoma con un proprio regolamento ed un proprio catalogo.
Data l’enorme disproporzione tra il contenente e il contenuto, non sarà difficile pensare che, aver portato gli scaffali fino all’altezza massima, averli aumentati nel numero fino ad ingombrare con essi le sale di lettura e ad occupare il centro di molte altre sale (con grave pericolo della statica dell’edificio), non poteva bastare a dar posto a tutti i volumi.
È stato necessario rimpinzare gli armadi – già troppo alti per non esser pericolosi – situando libri (ovunque il loro formato lo permetteva) in due e finanche tre fila – quasi che fosser destinati a non esser mai cercati, mai letti, ma solo a nutrirsi di poco onorevole polvere. È stato necessario trascurare in qualche modo gli ammonimenti dell’Ufficio del Genio Civile – che declina oramai ogni sua responsabilità – e sfidare con rassegnazione il pericolo, aumentando i provvisori scaffali centrali fino a che la prudenza (pur necessaria per quanto assottigliata) poteva consentirlo. È stato necessario, in fine, – e qui comincia il danno maggiore – lasciare che un’enorme massa di libri rimanesse conservata alla rinfusa, un po’ dovunque, e finanche sul pavimento del Salone centrale – già contenente sessantamila volumi – senza che fosse possibile non sottrarla all’uso degli studiosi. E a che serve, dunque, tenere dei libri, se nessuno può vederli né leggerli?
Ma non basta: le raccolte dei periodici, gli atti accademici, le serie e le collezioni non sono ordinate, nè è possibile, per difetto di spazio, tentare anche un provvisorio ordinamento: giacciono anch’essi alla rinfusa, nè v’è luogo ove collocare in utile modo i tremila volumi circa che si acquistano e si immettono ogni anno nella Biblioteca. Da vari anni l’attuale Direzione, per iniziativa propria e per consiglio di parecchi studiosi, pur continuando ad assicurarsi la proprietà delle edizioni rare apparse nel commercio, ha tentato ogni mezzo per sviluppare il contingente della Biblioteca a vantaggio della coltura storica e filosofica, lasciando all’Università il compito del proprio incremento a vantaggio delle discipline scientifiche. Così che oggi la Biblioteca Nazionale possiede tutto quanto è necessario ad una buona e moderna coltura filosofica, e dispone di opere importantissime e costose di archeologia e storia dell’arte medioevale e moderna, che la povera Biblioteca del Museo non avrebbe potuto acquistare senza dichiarare immediatamente bancarotta. Continuare in simili sforzi ormai è inutile: lo spazio assolutamente manca; nè è possibile per acquistare in quantità meschinissima pubblicazioni nuove, tentare nuovi spostamenti di volumi ed aggravare la confusione e l’incompiutezza del Catalogo. Dello stato in cui questo si trova per forza maggiore, dirò altra volta: noto soltanto che un suo supplemento, composto dallo schedario dei volumi di immissione recente, è posto a disposizione del pubblico; ma registra solo una parte di quel contingente – di quello, cioè, che ha potuto trovare un posticino provvisorio ovunque era un buco da occupare. Quanto al resto siamo giunti ormai a questo punto: che quanti sono qui studiosi, non ignari di quel che si opera nel mondo della coltura moderna e desiderosi di seguire da presso il cammino degli studi, sono costretti ad informarsi – non dal Catalogo – dei libri che si acquistano, e rivolgersi direttamente alla pazienza e alla cortesia della Direzione, se vogliono avere il piacere di leggerli e di studiarli subito. D’altronde l’antica minaccia del Direttore, di non acquistare nè accettare in dono un solo volume, diventa oggi una necessità. Non v’è spazio per nulla: a meno che non si voglia continuare a sovrapporre carta stampata sui pavimenti, cioè ad accrescere quei pericoli che la statica dell’edificio minaccia, finchè non si sarà costretti a sgombrar tutto il lato orientale del Palazzo degli Studi – la parte superiore, occupata dalla Biblioteca, e l’inferiore, appartenente al Museo – per accampar ogni cosa, libri e statue, nella pubblica via!
Sarebbe ora una vera ingenuità chiedersi se in questa Biblioteca esista una sala riservata, quale oggi si richiede in ogni istituto di tal genere, – cioè una vera sala di consultazioni, ove chi vi è ospitato possa studiar veramente senza perdere e far perdere tempo; se esista una stanza per la lettura delle riviste e magari dei loro sommarii; e se vi sia infine una stanza destinata esclusivamente alle ricerche di catalogo. Nulla di tutto ciò. I lettori ammessi alle sale riservate prendono posto dov’è possibile concederlo al loro bisogno; e – quel che è peggio – sono costretti a riversarsi nella sala destinata allo studio degli importantissimi manoscritti che l’istituto possiede e ad esigere una continua ubicazione di volumi da consultare, svantaggiosa per tutti; e quanto al Catalogo non me ne occupo per ora – ripeto – giacchè esso, malgrado gli sforzi del direttore [Emidio] Martini per aggiustare e rimediare alla meglio gli inconvenienti gravissimi del suo inevitabile stato attuale, rappresenta lo specchio fedele di tutte le miserie della Biblioteca Nazionale, viste in ciascun dettaglio ed in ciascuna delle loro conseguenze.
La conclusione di tutte queste cose è una sola: la Biblioteca di Napoli ha bisogno di maggior spazio; e nessun ampliamento potrà mai effettuarsi nell’attuale Palazzo degli Studi, occupato in parte dal Museo, anch’esso sofferente per insufficienza di locali che possano almeno permettergli di ospitare le parecchie migliaia di oggetti non esposti in maniera conservativa e non distruttiva.
Parlerò in una prossima lettera delle possibili e delle impossibili soluzioni del problema che si impone, e di quanto fu concretato e proposto dalla Commissione nominata nel 1907 dal ministro Rava e composta dal prof. Martini, direttore della Nazionale, dal comm. [Giovanni] Gattini, direttore amministrativo del Museo, e da due studiosi napoletani, Benedetto Croce e Francesco Torraca.»
(Aldo De Rinaldis, La Biblioteca nazionale di Napoli. I, «La voce», 1, n. 5 (14 gen. 1909), p. 19).
De Roberto (1882)
«Una bella mattina, tra le stampe che la posta gli portava a cataste, ricevette da Palermo il primo fascicolo dell’Araldo Sicolo, opera istorico-nobiliare del Cavaliere don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella. Come lui, tutti i parenti, i sottoscrittori, i circoli ne ebbero un esemplare. L’opera storico-nobiliare cominciava con Brevi cenni amplificati sulle dinastie che avevano regnato nell’isola: Real Casa Normanna, Real Casa Sveva, Real Casa d'Angiò e così via discorrendo fino alla Real Casa Sabauda – così il cavaliere aveva riconosciuto la nuova monarchia per vendere copie del libro alle biblioteche dello Stato.»
«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale, non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studii? L’Araldo Sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto questo è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?»
(Federico De Roberto, I viceré, in Romanzi, novelle e saggi, p. 411-1103: p. 950 e p. 1100-1101. Il romanzo fu pubblicato nel 1882).
De Roberto (1909)
«Tu, caro Diego, nelle parole che hai aggiunto all'ultima lettera della Mamma, mi chiedi di procurarti qui i libri dello Strauss. È una cosa estremamente difficile, e quasi impossibile. La Vittorio Emanuele non è come la nostra Universitaria, dove facciamo ciò che vogliamo; la semplice richiesta d'un libro per leggerlo sul posto è un affare così complicato, che mi viene freddo ogni volta che debbo fare qualche ricerca, e ad alcune ho finanche rinunciato. Farò qualche pratica, ma non ci sperare molto. Piuttosto ricercherò i libri presso qualche libraio antiquario, e te li comprerò, come era prima mia intenzione.»
(Federico De Roberto, lettera alla madre, Roma 18 giugno 1909, edita in Lettere a donna Marianna degli Asmundo, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, Tringale, 1978, p. 224-225).
De Sanctis (1856)
«Zurigo, mio caro Diomede, è di una bellezza superiore alla mia aspettazione. [...] Libri ce ne è in abbondanza. Mi ho già comprato tre dizionari tascabili. Mi sono abbonato al gabinetto di lettura, dove ci è ogni specie di rivista e di giornali. Ci sono tre biblioteche; ed io ho il diritto di portarmi a casa tutt’i libri che voglio. Il Presidente ha fatto subito comprare un Dizionario della Crusca per uso della Scuola.»
(Francesco De Sanctis, lettera a Diomede Marvasi, Zurigo, 2 aprile 1856, pp. 3-7)
Nel 1856 De Sanctis ottenne l’incarico di insegnamento della letteratura italiana presso l’Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. In questi anni tenne importanti lezioni su Dante, i poemi cavallereschi italiani e Petrarca, temi poi confluiti nella Storia della letteratura italiana.
Del Buono (1956)
«Lavorava dalle otto di mattina alle sei di sera, e dalle otto e mezzo di sera all'una leggeva. Era diventato un cliente assiduo di ogni biblioteca, soprattutto di quella del Castello sforzesco. Divorava i libri, anche quelli in apparenza più indigesti. Lo attirava particolarmente la filosofia e il primo articolo che riuscì a pubblicare consisteva di riflessioni su Schopenhauer. Ecco qualcosa che Scerbanenco ricorda sorridendo come la sua promozione a tornitore. Dopo un anno e mezzo di una esistenza simile, tra la Borletti e il Castello sforzesco, fra il tornio e i trattati di filosofia, e a volte anche di teologia, Scerbanenco finì in sanatorio.»
(Oreste Del Buono, Le 60 storie d'amore di Giorgio Scerbanenco, «Oggi», 12, n. 50 (13 dic. 1956), p. 41-42, riprodotto in Cecilia Scerbanenco, Il fabbricante di storie, p. 20).
«La sera e negli altri momenti di libertà dai precari lavori, mio padre andava a studiare nelle biblioteche della città, in particolare quella del Castello sforzesco e quella di Brera, dove si riuniva il mondo intellettuale dell'epoca, ancora vivace, imbevuto di futurismo e D'Annunzio, popolato dai primi poeti e scrittori "maledetti".»
(Cecilia Scerbanenco, Il fabbricante di storie, p. 42).
«Mio padre però aveva frequentato per anni la biblioteca di Brera, anzi, si può dire che lì abbia fatto tutti gli incontri che hanno poi segnato la sua vita, aprendogli e facilitandogli la carriera letteraria. È assai probabile che vi abbia conosciuto anche qualcuno che lavorava all'osservatorio, forse qualche studentessa o scienziata, presa a modello per l'affascinante astronoma del romanzo [Lo scandalo dell'osservatorio astronomico]. Il quartiere milanese di Brera occupò sempre un posto particolare nel cuore di mio padre, che molti anni dopo cercò di comprarvi una casa.»
(ivi, p. 105).
Del Lungo (1923)
«Nell'anno che ero venuto a passare in Firenze per prepararmi all'esame universitario di «baccelliere», la mia compagnia, di giovinetto con maggiori, era stata con Carlo Milanesi che mi ospitava, e con Cesare Guasti, mio alla lontana parente; dai quali appresi l'amore, non pedantesco ma di sentimento, alle ricerche dell'antico, e a frequentare le biblioteche e gli archivi trascrivendo, soltanto per mio diletto ed era immenso, della buona e possente lingua parlata dai Fiorentini de' tre grandi secoli da Dante a Michelangiolo, la quale da quelle vecchie carte originali che io veniva timidamente decifrando, mi s'infondeva con tanta immediatezza nell'anima, quanto non aveva fatto quella de' libri: questi, del resto, avevo letto più latini che italiani; e di moderno, poco e male.»
(Isidoro Del Lungo, A Giuseppe Chiarini, in: Il primo passo, p. 143-149: 144. Il testo, datato «Firenze, 10 maggio 1901», fu aggiunto nell'edizione del 1923).
Devoto (1920)
«Chiarissimo Signor Professore, l’amico [Enrico] Jahier, dopo avermi parecchie volte parlato di Lei, mi diceva, in una lettera recente, ch’Ella aveva avuto la cortesia di chiedergli mie notizie. E io sento il dovere, graditissimo, di ringraziarLa di tutto cuore, con quel sentimento di riconoscenza che chi ha lavorato quasi costantemente da solo, sente per chi porta qualche interesse al suo lavoro.
Io mi trovo ora da due mesi e mezzo a Berlino, completamente a mio agio per la cortesia di Professori e studenti come per la ricchezza di mezzi di studio che l’orario continuato di 11 ore delle Biblioteche mi offre.»
(Giacomo Devoto, lettera a Giorgio Pasquali; Berlino 5 dicembre 1920; p. 170)
Di Giacomo (1909)
La vecchia biblioteca de’ Gerolamini di Napoli – che è, per dire più precisamente, quella dei padri Filippini – è frequentata da pochissimi studiosi, preti per lo più, che vi s’intrattengono a leggere i fascicoli della Civiltà cattolica o qualche ingiallito volume de’ Bollandisti. La sala di lettura è piccola e povera – ma pulita e ordinata. Qui, nell’alta quiete, un mormorio, talvolta, o un di que’ rumori nasali che vi svelano il prete a cento passi: de’ chierici leggono sottovoce e interrogano ò piegati sull’in folio – il latino del poderoso volume che si squadernano davanti: un vecchio prete annusa beatamente la sua presa di tabacco e ne fa rintronare le sue froge capaci. Di fuori è una pace profonda. Il giardino del claustro prospera al sole: le ortensie rosee e azzurrine lo popolano con una variopinta decorazione, qua e là occhieggia vividamente il geranio scarlatto e – di tra il folto d’un agrumeto – gialleggiano, con un riflesso dorato, i limoni. Mi metto a sedere a una delle grandi tavole in sala di lettura e mi faccio portare dal vecchio distributore la copiosa cartella de’ manoscritti di Agostino Gervasio. Tra quelle carte dev’essere una in cui – l’ho appurato da un amico che le ha consultate prima di me – è riferita una conversazione che il Gervasio ebbe con Giovanni Paisiello, in Napoli, quando il maestro era già vecchio e si poteva ben permettere di manifestare sinceramente il suo pensiero intorno a’ suoi contemporanei musicisti.»
(Salvatore Di Giacomo, Paisiello e i suoi contemporanei, p. 211-212).
(Salvatore Di Giacomo a un tavolo della Biblioteca dei Girolamini)
Di Giacomo (1920)
«Il Croce è giovanissimo; io credo ch’egli abbia soltanto superato di qualche anno i soliti cinque lustri, classico spazio di tempo in cui s’aggirano, tradizionalmente, gl’ingegni produttori, col più vivo delle loro forze. Chi lo vede non sospetta il letterato in quell’ometto semplice, sorridente, tranquillo, non ancora insignito del sospirato onore del mento. Egli ha un naso puntuto sul quale stanno a cavallo le lenti; queste lo aiutano a non scambiare un cavallo con un elefante, quello si caccia, tutta la santa giornata, tra le carte grattate dalla penna d’oca, tra i fasci di documenti che sono negli archivii e i libri rari che constituiscono il patrimonio più sacro delle nostre biblioteche. [...]
Questi è Benedetto Croce. Infaticabile lavoratore egli consacra a’ suoi studii tutta la giornata passando dalla Biblioteca Nazionale all’Archivio di Stato e da questo alla Società di storia patria. Raccoglie, annota, fruga da per tutto e, rincasato, nel silenzio della sua camera da studio, dispone i suoi appunti per una novella monografia di cento pagine o per un libro che ne conta ben settecento.».
(Salvatore di Giacomo, Benedetto Croce (Mentre era in viaggio... trent’anni fa), in Benedetto Croce, p. 19-25:19-22; pur essendo stata pubblicata nel 1920, la testimonianza di Di Giacomo fu scritta nel 1889).
Dionisotti (1963)
«Conobbi don Giuseppe De Luca a Roma, vent’anni fa o poco più, durante la guerra. Avrebbe potuto essere non dirò una conoscenza occasionale e senza seguito, perché non era uomo che uscisse di mente a chi una volta si fosse imbattuto in lui, ma per più motivi, una conoscenza difficile, forse aspra. Era, già nel primo aspetto e discorso, uno straordinario uomo certo, ma anche e in ispecie uno straordinario prete. L’orma dello spirito creatore era in lui evidente subito; ma pareva a occhi estranei impressa una cera mista di venature demoniache. [...]
A Roma aveva fatto e continuava a fare esperienza d’una filologia che per il suo oggetto e per il metodo era diversa da quella del sistema accademico, da quella che ivi stesso gli avevano insegnato maestri non dimenticabili, Nicola Festa e Vittorio Rossi. Don Giuseppe era frequentatore assiduo della Biblioteca Vaticana. Ivi era, a paragone di ogni altra biblioteca e accademia e scuola, un diverso mondo. Imperava allora sulla Biblioteca il Cardinale, quello che per tutti noi era senza più il Cardinale, Mercati. In lui, vecchio, d’una vecchiezza prepotente, quasi emblematica e fuori del tempo, lontanamente alto come un astro se anche ci passasse accanto rannuvolato nella sua umile veste nera, e per lui negli Studi e Testi, e via via risalendo, nel sistema antico di una formidabile erudizione ecclesiastica, non era difficile scoprire la durezza e lo splendore del diamante. Era questione di durezza, di un grado diverso nella scala. [...]
A Roma, fra la Biblioteca Vaticana e gli Studi generali dei grandi Ordini, don Giuseppe De Luca vide subito e bene che non sulla aristocratica fragilità di questa o quella filologia poteva essere fondata la sua impresa, ma sulla forza massiccia della erudizione. Egli stesso, come era nato scrittore, così era nato per la ricerca erudita. In questa era stimolato e assistito dalla stessa avidità impaziente che gli impediva di essere propriamente un filologo. [...]
Tante volte mi sono chiesto come e dove, in una vita così stipata d’altre cure e impegni, don Giuseppe De Luca trovasse il tempo della lettura e della ricerca. Tante, quante, per una immediata risposta, mi accadde di vederlo fermo e intento, lui così irrequieto, al suo posto nella sala dei manoscritti della Vaticana. Tante, quante, in questi anni in cui ci trovammo a vivere lontani, mi giungevano le sue richieste e segnalazioni, sempre urgenti, sempre diritte allo scopo, di questo o quel documento in cui si era imbattuto, e che rientrasse nell’ambito delle mie proprie ricerche. Erano per lo più documenti di una rarità estrema.»
(Carlo Dionisotti, Il filologo e l’erudito, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 143-167: 143-151; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura)
Dionisotti (1989)
«Nel 1941 lei si trasferì a Roma. Iniziò così la sua spiemontesizzazione. Quale fu il motivo che la spinse a lasciare il Piemonte?
Torino non ha importanza nel Rinascimento: entra nella cultura italiana tardi, fra Cinque e Seicento. Il primo poeta italiano che casualmente capita a Torino è Tasso; il primo ospite della corte è Marino. Il recupero dell’eredità rinascimentale, artistica e letteraria, fu tardo e inevitabilmente parziale: altri erano i propositi e compiti dello stato sabaudo. Chi studia il Rinascimento è costretto a cercare altrove il materiale che gli occorre. Così dovetti fare io, prima e dopo la laurea, e le ore passate a Venezia, nella biblioteca Marciana, a Roma, nella Vaticana, nella Vittorio Emanuele e nell’Angelica, in parecchie altre città dove potevo trasferirmi per breve tempo durante le vacanze, furono le più belle della mia vita di giovane studioso. [...] Irresistibile era l’attrattiva della Biblioteca Vaticana, ancora aperta e disponibile come in tempo di pace.».
(Carlo Dionisotti, p. 81-82)