L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Risultati della ricerca
Barba (2007)
«Devo confessare che sono figlio di una biblioteca, quella di Oslo, dove ero nel '54. Ogni sera, verso le cinque, entravo e mi sedevo a leggere. Allora ero un migrante, lavoravo in un'officina, e per me la biblioteca era un momento straordinario di sopravvivenza. [...] Attorno a me c'era silenzio, un silenzio impressionante, specie per me che le altre ore le avevo trascorse in officina tra il fragore dei metalli, C'erano ragazzi e ragazze, giovani assorti in questi libri enormi che erano vicini, ma era come se ognuno vivesse in un suo proprio mondo. Per me i libri sono stati fondamentali, tant'è vero che quando sono diventato direttore, quasi proprietario di uno spazio teatrale ad Holstebro, la prima sala era una sala prove per la costruzione di spettacoli, ma la seconda era la biblioteca. È stato uno dei motivi di orgoglio, a Holstebro, in questa cittadina di diciottomila abitanti perduta nello Jutland settentrionale, dare lezioni teatrali e intanto riunire più di cento testate di riviste teatrali da tutto il mondo nella biblioteca che nasceva. Chi di voi visita l'Odin sa che la biblioteca è il cuore stesso del nostro Centro. Lì mangiamo, lì facciamo le riunioni, lì circolano costantemente persone. All'Odin, in biblioteca c'è sempre qualcuno.»
(Eugenio Barba, seminario tenuto il 4 giugno 2007 alla Biblioteca di area delle arti, Sezione Spettacolo "Lino Micciché", dell'Università degli studi Roma Tre, p. 13-14).
Barbieri (1979)
«Alle Murate incominciai nuove letture, sui libri disponibili nella biblioteca, e su quelli che mi inviava mio padre; ma senza un programma, perché fra l'altro non conoscevo, come non conosceva quasi nessun altro compagno, la letteratura marxista. Ma la vigilanza, anche se meno rigida, era sempre rigorosa per i detenuti in attesa di giudizio. In modo particolare per i politici. Rimasi nel carcere delle Murate per tutto il 1929.»
(Orazio Barbieri, in: I compagni di Firenze: memorie di lotta antifascista, p. 109-189: 140. B. era stato arrestato il 19 ottobre e trasferito in carcere dopo circa una settimana. Poi l'8 gennaio 1930 venne trasferito al carcere romano di Regina Coeli).
«Mi piace ricordare quei due primi compagni del carcere di Regina Coeli, perché mi furono molto utili. L'italiano era Ettore Vacchieri di Perosa, arrestato col gruppo milanese per la bomba. Era stato in Russia, aveva compiuto seri studi, ed in carcere continuava a studiare almeno quindici ore al giorno. Conoscendo la letteratura marxista ed una vasta bibliografia, sapeva procurarsi dalla biblioteca del carcere e dai parenti, molti libri di storia, filosofia, classici della letteratura italiana che – pur editi dal fascismo o da case editrici cattoliche – contenevano spesso brani o riassunti riferiti a testi marxisti o politici. Ricordo una serie di annate di «Civiltà cattolica» dalle quali sapeva spulciare brani interessanti.
Vacchieri non aveva compiuto studi regolari in Italia e perciò voleva approfondire lo studio della lingua italiana. Mi disse che aveva letto dieci volte «I promessi sposi» di Manzoni e dieci volte «Guerra e pace» di Tolstoi. [...]
In quella cella, dunque, bisognava studiare. Prima cosa farsi un programma e procurarsi libri. Su consiglio di Vacchieri, feci una lista di libri che cercai di procurarmi: Storia della letteratura italiana del De Sanctis, Storia della filosofia di De Ruggero, Filosofia e scienze della natura di Schopenhauer, Clausewitz, Pareto, i classici della letteratura italiana, la Storia della Rivoluzione francese di Mathiez, Napoleone del Tarle, la Storia greca del Ciccotti, la Storia dell'antico oriente di Hauslik, Il Risorgimento di L.M. Hartman della Collana storica a cura di E. Codignola, gli otto volumi della Storia di Roma del Mommsen, l'Enciclopedia Sonzogno che era uscita a dispense, ed altri libri che non ricordo, oltre ad alcuni della biblioteca del carcere. Molti di quei libri, col timbro di censura del Carcere Giudiziario di Regina Coeli li conservo ancora. I miei autori preferiti furono subito Saint-Just e Darwin.
Ma quanti anni di carcere bisognava fare per condurre seriamente quegli studi? Questo infatti era il problema che si poneva subito, per chi intendesse farsi una preparazione. [...]
Dal carcere fui liberato nell'ottobre 1930.»
(ivi, p. 143-144, 146. Non sono segnalate alcune piccole imprecisioni nelle citazioni delle letture).
Bargellini (1956)
«Dico subito che la mia biblioteca è la Marucelliana, di Firenze. Anche oggi, dopo più di quarant'anni, non posso entrare in quel palazzetto settecentesco, posto nell'antica Via Larga (ora Cavour), senza provare un'acutissima commozione.
Ho detto, senza esagerare, acutissima commozione, e spero che mi si crederà, dopo aver detto quello che la Biblioteca Marucelliana è stata per me.
Non avevo che dodici anni, e venivo, ogni giorno, dal Mugello in città, per frequentare una di quelle scuole, che oggi si chiamerebbero d'avviamento al lavoro, e che allora si chiamavano tecniche.
A Firenze, dove pure ero nato, non avevo casa, non avevo parenti, non avevo neppure conoscenti. Partivo dal Mugello all'alba e vi ritornavo a notte fatta. Come e dove avrei potuto passare le ore fuori di scuola, studiare e fare le lezioni?
Mio padre conosceva un bibliotecario della Marucelliana, il signor [Giuseppe] Mariotti. Ne parlò a lui. Il signor Mariotti ne parlò al direttore [Angelo] Bruschi, il quale, per quanto severissimo, prudentissimo, fece per me uno strappo al regolamento e mi ammise, dodicenne, in sala di lettura.
Sapevo dunque di essere un irregolare, un sopportato. Perciò entravo quasi furtivamente e salivo con rispetto le scale sorvegliate da una Minerva di marmo giallastro. Nelle giornate umide, sugli scalini veniva steso un velo di segatura, e ho ancora nelle narici l'odore di legno bagnato, al quale s'univa quello della pergamena arida.
Spingevo cautamente la porta verde, imbottita e orlata di nero lucido incerato, con due occhi ovali di vetro, dai quali spiavo, in punta di piedi, prima d'entrare, se c'era in vista il direttore Bruschi.
Entravo, cercando di non fare rumore, e prima di sedermi, sostavo sulle griglie del calorifero ad aria. Saliva, da quelle griglie d'ottone consunto, un calduccino delizioso, che mi fasciava le gambe nude e gelate. Le scarpe, molto spesso bagnate dalla mattina, fumavano per l'umidità che evaporava. Sarei rimasto volentieri a lungo, ritto sulle griglie esalanti aria calda, ma temevo di dar troppo nell'occhio e di venir sorpreso in quella posizione dal direttore. Mi sedevo, spostando la sedia con estrema cautela, all'ultimo posto del lungo tavolino, col panno verde, costellato di macchie d'inchiostro.
Slegavo il pacco dei libri, badando che la fìbbia della cinghia non sbattesse sull'orlo di legno. A ogni scricchiolìo, vedevo la fronte del signor Mariotti corrugarsi. Dopo tutto, era lui il responsabile della mia condotta.
Studiavo e facevo i compiti nel più perfetto dei silenzi, sbirciando, di quando in quando, chi giungeva, facendo sbattere con noncuranza, beato lui! la porta imbottita, o chi si recava con disinvoltura, fortunato lui! allo sportello della distribuzione, per non parlare dei privilegiati, ai quali era permesso, nientedimeno! il prestito dei libri.
Dopo qualche mese, conoscevo ormai di vista tutti i frequentatori più assidui: il vecchietto tossicoso, che riempiva d'appunti i suoi taccuini ricoperti d'incerata; il giovane col fiocco nero svolazzante, certamente un poeta anarchico, che allungava le magre gambe sotto il tavolino e, con le mani in tasca, fissava lungamente il soffitto; il signore calvo, certamente un professore, al quale era consentito aprire i grandi scaffali a rete metallica, per tirar giù i grossi volumi rilegati di cartapecora; ma la figura che più mi distraeva era quella d'uno strano maniaco, che gesticolava, parlando con se stesso, e perdeva da ogni tasca fogli sgualciti e bisunti.
Ad un certo momento, di dietro la vetrina, usciva un'ombra che scivolava, senza rumore, rasente gli armadi. Il direttore Bruschi sembrava davvero un'ombra priva di corpo. Piccolo, curvo, con la testa inclinata sulla spalla destra, incedeva a brevissimi passi: non camminava, ma pedinava con estrema levità. Pallidissimo, quasi esangue, vestiva sempre di nero, e su quel colore, il volto sembrava anche più bianco. Gli occhiali d'oro, sul viso emaciato, erano l'unica nota salda di vita.
Dalle maniche lunghe, uscivano i bianchi polsini, ai quali parevano appuntate le mani diafane.
Al suo apparire, per me era come quando una nuvola passa sul sole. Ne avvertivo la presenza, con un senso di freddo e di timore.
L'ombra si avvicinava silenziosamente. Come un uccello, al giunger della notte, mette il capo sotto l'ala, nel più folto dell'albero, anch'io abbassavo la testa tra i libri; forse chiudevo anche gli occhi, quando capivo, non so per quale sensazione, che il direttore era fermo alle mie spalle. Certo mi osservava, scrutava i miei libri; scorreva le mie lezioni. Tremavo di quel suo interessamento, che temevo ispirato a severità (seppi poi che invece era ispirato a compassione).
Poi l'ombra passava ed io, con un sospiro di sollievo, tornavo a respirare e a vedere; anche a sbirciare curiosamente.
E un giorno mi feci ardito, d'avvicinarmi allo sportello della distribuzione. Nel testo di stilistica (allora si studiava, non l'estetica, ma la stilistica), avevo trovato, tra gli esempi di prosa autobiografica, il titolo del Fuoco, di Gabriele d'Annunzio.
Forse perchè da mio padre avevo udito citare quel poeta, insieme con il Carducci, mi venne l'idea di chiedere il libro in lettura.
Mi accostai, sulla punta dei piedi, allo sportello di vetro. Presi una scheda (rosa) e la riempii. Attesi, con trepidazione, il momento di porgerla al distributore. Questi (ma non era il signor Mariotti) la prese, la lesse e mi guardò. La rilesse; mi riguardò. Scosse la testa.
– Quanti anni hai? – mi chiese sarcasticamente.
– Dodici – risposi con poca voce.
Il distributore si tenne la scheda dinanzi agli occhi, come si osserva un biglietto di banca, per vederne la filigrana; riabbassò lo sguardo su di me, poi disse con meraviglia mista quasi a dolore:
– E a dodici anni chiedi già libri di questo genere?
Strappò la scheda (rosa) ed aggiunse:
– Ringrazia Dio, che non lo dico al direttore!
Non so come tornai al mio posto, tanto le gambe mi si erano perse. Sentivo su di me gli sguardi del vecchio raccoglitore di schede, del giovane poeta, del professore, del maniaco. La sala mi era come piombata sulla testa, con i suoi pesanti scaffali di noce, che turbinavano pazzamente.
E sorte che l'ombra del direttore Bruschi non uscì fuori, severa e agghiacciante, da tutto quel rovinìo!»
(Piero Bargellini, La mia biblioteca, «Almanacco dei bibliotecari italiani», 1956, p. 61-65. Mariotti era uno degli uscieri della Marucelliana).
(Il bancone della distribuzione della Biblioteca Marucelliana, installato nel 1899)
Barile (1966)
«vorrei scavalcando i decenni ritrovare nella memoria il Montale ancora ignoto della vigilia che conobbi a Genova verso il 1920. [...]
Ci si vedeva ogni tanto, la sera, al caffé Diana in galleria Mazzini [...].
Si parlava di poesia, si commentavano fatti e figure della vita letteraria, ci s'informava delle nostre letture. Molte, e sagaci, quelle di Montale, che passava lunghe ore delle sue giornate alla Berlo o alle Letture Scientifiche. Nel 1920, dopo la «Teoria dello Spirito come atto puro» del Gentile e i «Cento anni» del Rovani si proponeva di riprendere in mano il «Don Chischiotte» e «I promessi sposi», mentre seguiva attento le riviste, particolarmente «La Ronda », e me ne segnalava i nomi e gli scritti a parer suo più notevoli».
(Angelo Barile, La vigilia genovese di Montale, p. 257).
Bartoli (1882)
«Venne il tempo di andare all'Università. Il mio povero padre, che vedeva le cose dal lato pratico, desiderò che studiassi legge. Figurarsi, in un cervello com'era il mio malato di letteratura, se potevano entrare le Istituzioni e le Pandette! [...] Però, piuttosto che andare a sentire le lezioni di Diritto Canonico o quelle di Diritto Civile, spesso mi chiudevo nella Biblioteca di Siena a copiare manoscritti antichi: copiai così tutta da me la Tavola Rotonda e le Lettere del Beato Colombini. Era un gusto come un altro. Non sapevo bene io stesso perchè facessi quel lavoro; ma mi pareva di divertirmici, e tiravo avanti.»
(Adolfo Bartoli, Le lettere d'un beato, in: Il primo passo, p. 17-22: 19. Il contributo era comparso già nella prima edizione, 1882).
Barzilai (1937)
«Io, frattanto, a 14 anni, con qualche preoccupazione del genitore, non dissimulata da burberi moniti circa i pericoli di certe imprudenze, mi ero immischiato a fondo nella politica; la quale, talora, poi, per necessità di circostanze, assumeva le forme della cospirazione...
Recatomi un giorno a San Daniele del Friuli, in un albo di visitatori della Biblioteca Comunale, disegnavo gli stemmi di Trieste e di quel paesello, mettendovi sotto questi poveri versi:
Quando lo sguardo volgesi al felice
Delle suore città redento stuolo,
Freme il mio core e d’Austria usurpatrice
Ricorda i ceppi e del servaggio il duolo.
Bruno vestita, discinta la chioma,
Piange Trieste e maledice al fato;
Piange ma spera, è vinta ma non doma,
Ed il suo stemma dello stemma a lato
D’una sorella ricongiunta a Roma
È quella speme, nel diman bramato.
Si trattava di una birbonata poetica ed anche di una imprudenza politica, essendo l’albo a disposizione delle spie d’oltre confine che pullulavano nel Friuli.
Angustie, allarmi, in casa mia per una possibile improvvisa discesa di polizia; ma la cosa passava liscia.»
(Salvatore Barzilai, Luci ed ombre del passato, p. 6).
Bassani (1951)
«il signor Cesare Rovigatti [...] fu per più di vent’anni il ciabattino di casa nostra, a Ferrara [...]. Dal ’39 al ’43 (gli anni, all’incirca, della guerra), nella penuria di amicizie che per me distingue il ricordo di quel tempo, io mi recavo spesso a conversare con lui, nella sua bottega [...].
Eppure, a parte la politica, di cui, come ho detto, egli non amava troppo discorrere, e che tuttavia ci affratellava [...] c’erano molti altri temi di conversazione [...]. La letteratura, per esempio. [...] Lui non aveva tempo di tenersi al corrente: la Biblioteca Comunale la chiudevano alle 7 di sera, molto prima che la sua giornata di lavoro terminasse; ed era peccato, perché se il regolamento fosse stato fatto in modo che anche la povera gente, la gente che lavora, potesse, volendo, istruirsi, lui, scapolo com’era, avrebbe potuto approfittare con vantaggio di quel “pubblico servizio”.»
(Giorgio Bassani, Il signor Rovigatti, «Il giornale», 2 novembre 1951, p. 3. Il testo è stato poi raccolto in Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di Piero Pieri, Milano, Feltrinelli, 2014).
Bassani (1962)
«Avevo avuto la bella idea – cominciai a raccontare – di trasferirmi coi miei libri e le mie carte nella sala di consultazione della Biblioteca Comunale [Ariostea], in via delle Scienze: un luogo che negli ultimi anni avevo bazzicato spessissimo, ma dove mi conoscevano fin dall’epoca del ginnasio, intendiamoci bene, dato che là, appunto, ero solito riparare ogniqualvolta un’incombente interrogazione di matematica mi consigliava di marinare la scuola. Era quella una seconda casa, per me, dove tutti, specie da quando mi ero iscritto a Lettere, mi avevano sempre colmato di gentilezze. Da allora il direttore, dottor Ballola, aveva cominciato a considerarmi del mestiere, per cui non c’era volta che, scorgendomi in sala, non venisse a sedersi accanto a me, e non mi mettesse a parte dei progressi di certe sue ormai decennali ricerche attorno al materiale biografico dell’Ariosto custodito nel suo studiolo particolare, ricerche con le quali si riprometteva (era lui a dirlo) di superare decisamente i pur cospicui risultati raggiunti in questo campo dal Catalano. E cosa dire dei vari inservienti? Essi si comportavano nei miei confronti con tale confidenza e familiarità da dispensarmi solitamente dalla noia di riempire l’apposito modulo per ogni volume richiesto in lettura, nonché da consentirmi, nei giorni di scarso pubblico, di fumare addirittura qualche sigaretta.
Dunque, come dicevo, quella mattina m’era venuta la bella idea di passarla in biblioteca. Senonché avevo avuto appena il tempo di sedermi ad un tavolo della sala di consultazione, e di tirar fuori dalla borsa di pelle quanto mi occorreva, che subito uno degli inservienti, tale Poledrelli, un tipo sui sessant’anni, grosso, gioviale, celebre mangiatore di pastasciutta, e incapace di mettere insieme due parole se non in dialetto, mi si era avvicinato per intimarmi di andarmene immediatamente. Facendo rientrare il pancione, tutto impettito, riuscendo perfino ad esprimersi in lingua, l’ottimo Poledrelli aveva spiegato a voce alta, ufficiale, come il signor direttore avesse dato in proposito ordini tassativi: per cui – aveva ripetuto – facessi senz’altro il piacere di alzarmi e sgomberare. La sala di consultazione, quella mattina, era particolarmente affollata di ragazzi delle Medie. La scena era stata seguita, in un silenzio sepolcrale, da non meno di cinquanta paia d’occhi e da altrettante paia d’orecchi. Ebbene, anche per questo – seguitai –, non era stato affatto piacevole, per me, tirarmi su, raccogliere dal tavolo libri e carte, rimettere il tutto nella borsa, e quindi raggiungere, passo dopo passo, il portone a vetri d’ingresso.»
(Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 169-170)
Ispirato al romanzo, nel 1970 uscì il film Il giardino dei Finzi Contini (con la regia di Vittorio De Sica), che ottenne un grande successo di pubblico aggiudicandosi tra l'altro l'Oscar come miglior film straniero. Dopo un'iniziale collaborazione, lo scrittore e il regista entrarono in conflitto e Bassani ottenne che venisse tolto il suo nome dai titoli di coda del film. La scena in biblioteca (min. 00-37,01-00-38,53) presenta sostanziali modifiche rispetto al libro, come ad esempio il colloquio che avviene tra Giorgio e il direttore della biblioteca (rispettivamente interpretati da Lino Capolicchio e Edoardo Toniolo). Una testimonianza del conflitto nato tra Bassani e De Sica è stata poi data dallo stesso scrittore in un articolo significativamente intitolato Il giardino tradito (pubblicato in Di là dal cuore, Milano, Mondadori, 1984, p. 311-321), dove a proposito della scena in biblioteca presente nel film, lo scrittore scrive: «Ed infine la colonna sonora. Siamo a Ferrara, che diamine, nel cuore dell'Emilia, non siamo mica in un paese immaginario! Ebbene, l'inserviente della biblioteca pubblica si esprime in un dialetto genericamente settentrionale quale possono immaginarselo soltanto i doppiatori romani lasciati a se stessi, senza guida: un dialetto costruito in provetta che ben poco ha a che fare col ferrarese." (p. 320)».
Bassani (1984a)
«Per il resto sto bene, e non m’annoio neanche. Sono riuscito a avere un certo numero di libri, perfino un libro di Momigliano, e li vado dividendo lungo tutte le ore. Certo che se potessi avere quelli che vi ho raccomandato di portarmi nella mia lettera precedente, mi sembrerebbe di utilizzare di più tutto questo tempo prezioso.»
(Giorgio Bassani, Di là dal cuore, p. 10)
«Il tempo passa con lentezza, ma non più col ritmo esasperante del principio. Allora lo strappo dalla vita era stato troppo brusco e violento. Ora mi vengo adattando a una condizione di esistenza in cui ogni più piccolo accadimento sparge intorno a me una specie di risonanza, di eco: come un breve suono entro un vasto silenzio. La giornata mi si riempie con poco, con questi scarsi avvenimenti suscitatori di infinite fantasie, di calcoli assurdi. La sera m’addormento, in genere, verso le nove, e faccio tutto un sonno fino alla sveglia del mattino dopo. Durante il giorno, quando non sono occupato in altro, leggo, leggo molto. Rileggo Dante, Manzoni, qualche altro classico. Ho trovato poi il Gil Blas di Lesage, una specie di romanzo-fiume del Settecento, e mi diverte come una volta mi divertiva Dumas. In quella lettera che non vi è pervenuta vi chiedevo di mandarmi alcuni libri di critica letteraria che stanno giù nel mio studio, credendo che si potesse. E sarebbe stato un gran sollievo poter continuare il corso delle letture che avevo avviato in questi ultimi tempi.»
(Ivi, p. 12)
«Cara mamma, ho ricevuto le tue lettere, che m’hanno fatto molto piacere. Sento anche da Valeria che ti stai rimettendo in forze, e questo è il più bel regalo che tu mi possa fare. Grazie per le squisite pietanze che mi mandi. Tutto è perfetto, e la tua mano maestra si sente dovunque. In questi giorni ho riletto Guerra e pace, e chissà perché pensavo spesso a te, voltando pagina. Certo, qualcosa di te circola nelle scene famigliari di quel gran libro. Eppoi il modo che ha Tolstoi di mettere in ridicolo quel suo tetro Napoleone è un po’ il tuo, popolare ed entusiasta, quello che dà tanto sui nervi al papà, che mira all’obbiettività storica. Insomma sei una gran donna, e hai un monte di qualità.»
(Ivi, p. 14)
«Sto bene, sono soltanto un po’ fiacco e debole, causa l’inazione e la noia che in certi giorni mi prende fortissima. Ma nel complesso, tra libri, giornali, parole incrociate, passeggiata, eccettera eccetera, mi sono organizzato abbastanza bene. Rimpiango però i miei libri, tutto questo tempo inutilizzato, e darei non so che cosa per avere di scrivere. Ho fatto domanda perché mi si possa mandare da casa una pipa.»
(Ivi, p. 19)
«Non ho altro da raccontarvi, se non che vedo diminuire con spavento la riserva di libri d’un qualche interesse per me. L’arrivo della «Gazzetta dello Sport» è sempre un momento molto importante, come quello che mi riallaccia in qualche modo alla vita. Catturo, portati sul vento, brandelli di giornale-radio, romanze d’opera, ed è tutto un lusso. Perché la noia, a volte, è insopportabile.»
(Ivi, p. 21. Questo gruppo di lettere, scritte da Bassani durante la reclusione nel carcere di Ferrara e dirette ai familiari, è apparso originariamente nel «Corriere della Sera» il 21 giugno 1981, per poi essere raccolto, con lievi varianti testuali, in Di là dal cuore).
Bassani (1984b)
«Da oggi soltanto, anzi da stamattina, si è ritornati all’ansia dei primi giorni dopo lo sbarco sulle coste del Lazio, quando la situazione dei tedeschi pareva insostenibile e ci si aspettava la presa di Roma da un’ora all’altra. Il cannoneggiamento si è improvvisamente avvicinato (i vetri delle finestre ogni tanto ne vibrano), ed è ormai un continuo, cupo, minaccioso suono di bordone che sussulta a volte in scoppi prolungati, in boati fragorosi. Che ci sia qualcosa di mutato nell’aria lo dimostra il contegno degli stessi tedeschi, nei giorni scorsi distratto, quasi assente, oggi di nuovo irritato e febbrile. Il solito monsignore ci comunica che stanno demolendo a colpi di dinamite tutta la zona di Centocelle, fortificando la Flaminia e terminando di rendere impraticabile la Casilina. E non si limitano a questo. Dopo una mattina tranquilla, spesa per le botteghe di libri attorno al Pantheon e alla Biblioteca Nazionale (senza aver tuttavia combinato niente di niente), di ritorno a casa ho trovato la pensione in preda al panico più vivo.»
(Giorgio Bassani, Di là dal cuore, p. 31)
Bassani (1984c)
«Non so più quando ho cominciato a frequentare Tolstoj. Credo da ragazzo, sentendone discorrere soprattutto a tavola dal papà e dalla mamma. Certo è che da giovanotto, quando già studiavo lettere a Bologna, Tolstoj era diventato uno dei miei livres de chevet. A differenza di altri miei condiscepoli, le cui letture preferite erano ormai quelle di Baudelaire, di Rimbaud, eccetera, e, magari, dei loro tardi seguaci nostrani, io ritornavo sempre là, a riprendere per conto mio a fantasticare su Nataša, sul principe Andrea, su Ivan Il'ič. Leggevo ormai anche Dostoevskij e Čechov, si capisce, e Gogol, e Puškin (questi due ultimi nelle mirabili traduzioni di Landolfi e Lo Gatto), ma per tornare sempre, non appena mi se ne dava il destro, al più grande, a Tolstoj. Era con lo stesso spirito, con lo stesso abbandono, che tornavo anche ad Omero.
La rilettura di Tolstoj che più mi è rimasta impressa avvenne tuttavia nella primavera del ’43. Durante i duri tre mesi che trascorsi in carcere, a Ferrara, dai primi di maggio al 25 luglio, rilessi con immenso trasporto Guerra e Pace. [...] In entrambe le circostanze mi sentivo disperato, addirittura prossimo alla morte. D'istinto cercavo conforto nella poesia, in quella vera, la quale, pur essendo diversa dalla vita, in fondo, il suo contrario, non può non tendere che a restituirtela, la vita, a farti sentire di nuovo al centro di essa.»
(Giorgio Bassani, A proposito di Tolstoj, in Di là dal cuore, p. 343-344).
Bernari (1977)
«Gli illustrai [a Togliatti] il metodo osservato nei contatti con Cantimori allo Istituto Universitario come alla Biblioteca Alessandrina, o con Felice Platone all’Istituto di lingue orientali, dove gli avevo trovato un rifugio con falso nome, e dove per due volte mi accolse con un certo allarme, essendosi diffusa la voce del mio arresto»
(Carlo Bernari, Gramsci entra nel catalogo)
Bertolucci (2000a)
«Di questo passo, sul filo della memoria, arrivo ai miei anni liceali, in una città dagli autunni e dagli inverni favolosi, fra il morire degli anni venti e il nascere degli anni trenta.
Diciamo pure che c'era il fascismo, il fascismo di bonaccia plumbea, dopo Matteotti, che Gadda ha dipinto da par suo nel Pasticciaccio: ma a un ragazzo sveglio capitato a vivere in una città intelligente non mancavano le possibilità, attraverso professori, librai e clienti di libreria ed edicola e magari tranvieri con idee giuste e un po' di coraggio, almeno per chiacchierare, di vaccinarsi. E c'era la Biblioteca Palatina ad accoglierci, le mattine che per colpa di un sole troppo vivo sui platani già nudi o di una neve troppo fresca sui marciapiedi consueti ma adorati perché usi a venir percossi da certi tacchi ogni anno più alti, avevamo rifiutato di richiuderci in classe: la Biblioteca Palatina con il più recente numero della «Critica» da leggersi immediatamente nelle ultime pagine dove la sigla b.c. garantiva delle sacrosante, confortanti, eccitanti noterelle, all'apparenza marginali, in realtà fondamentali per gli italiani.»
(Attilio Bertolucci, Inizio di stagione, in Ho rubato due versi a Baudelaire, p. 191-193: 191-192. Pubblicato originariamente in «L'illustrazione italiana», 89, n. 11 (nov. 1962)).
«Ho letto la prima volta I fiori del male nella traduzione (la prima, che io sappia, in italiano e in prosa) dovuta a Riccardo Sonzogno. Avevo tredici anni, frequentavo la terza ginnasio inferiore, una sorta di scuola media molto più difficile, molto più formativa, molto meno democratica, forse.
E da «bambino innamorato di stampe e di mappe», avevo su una bancarella scovato quella traduzione di Riccardo Sonzogno uscita proprio nella benemerita, benedetta Biblioteca Universale Sonzogno [...].
Ma ecco che sui sedici anni, posso accedere alla Biblioteca Palatina di Parma dove, finalmente, mi è dato leggere Les fleurs du mal. Da allora, in varie edizioni sino alle due della Pléiade non ho fatto che leggere il mio Baudelaire».
(Attilio Bertolucci, Ho rubato due versi a Baudelaire, nel volume con lo stesso titolo, p. 335-338: 335. Pubblicato originariamente in «La repubblica», 5 marzo 1996).
Bertolucci (2000b)
«La fortuna degli scrittori, e delle scrittrici naturalmente, cosiddetti «popolari», è in genere abbastanza malinconica. [...]
Ma come la moda cambia, e il vento del successo capricciosamente muta direzione, spingendo avanti altri nomi, i libri di cui non si contavano le ristampe escono, con misteriosa rapidità, di circolazione [...].
E le biblioteche pubbliche? La maggior parte di esse non si è mai degnata di acquistare opere simili, e quando le ha ricevute dall'editore per legge, le ha confinate nelle cantine più fonde, catalogandole a dispetto e con rabbia, scoraggiandone con ogni mezzo la consultazione e la lettura.»
(Attilio Bertolucci, Carolina Invernizio, in Ho rubato due versi a Baudelaire, p. 254-260: 254. Pubblicato originariamente in «II cammeo», 1976).
Biagi (2000)
«Ho avuto il privilegio, visto i legami di parentela, di «fare la prima», come si diceva, a cinque anni: fu una bellissima avventura, leggevo come adesso, e siccome ero un bimbetto malaticcio me la passavo con i libri che trovavo nella bibliotechina della scuola: ho in mente la Bibbia e I miserabili. E ripenso alle considerazioni che facevo allora. Mi piaceva tanto Gavroche, il monello inventato da Victor Hugo, detestavo l’obbediente Abramo, pronto a sacrificare l’innocente Isacco per fare contento il Signore, che lo voleva mettere alla prova con un gesto ignobile.»
(Enzo Biagi, La vita è stare alla finestra. Il brano era stato pubblicato per la prima volta nel 2000: La mia pagella a quei maestri, «Corriere della sera», 125, n. 262 (4 nov. 2000), p. 1).