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La statuetta è una copia in marmo da un originale greco della fine del IV sec. a. C., che rappresenta il mitodi Narciso. L’opera proviene della Collezione Astuto acquistata nel 1860 dal Museo A. Salinas. Alla fine del XVIII sec. il barone Antonio Astuto di Fargione aveva istituito a Noto un Museo d'Antichità, un Gabinetto di Storia Naturale ed una Biblioteca che si era incrementata di manoscritti e di preziose opere a stampa. La parte più rilevante dei materiali era stata acquistata a Roma nel mercato antiquario. La collezione era costituita da una grande varietà, che comprendeva sia pezzi autentici di elevata qualità, sia oggetti di dubbia originalità, ed anche falsi rinascimentali dell'antico. Il Museo Astuto è rimasto a Noto fino alla metà del secolo scorso. l'intervento di restauro curato da Manuela Martino e realizzato attraverso una sponsorizzazione tecnica finanziata da Zonta International Club di Palermo.
La statuetta si presentava in un discreto stato di conservazione, erano presenti depositi incoerenti diffusi su tutta la superficie marmorea e depositi più coerenti localizzati maggiormente sulla superficie della gamba sinistra di Narciso e sulla figura di Eros. La presenza dei depositi non favoriva la corretta lettura del modellato scultoreo del piccolo gruppo scultoreo. Erano visibili delle macchie di colore giallo sul mantello di Narciso e sul braccio dell’Eros, dovute probabilmente alla presenza di adesivi alterati, impiegati durante interventi restaurativi precedenti. Possibile osservare la presenza di fratture in corrispondenza di entrambe le caviglie e sul braccio sinistro del Narciso; mentre la figura di Eros presentava una più complessa fratturazione delle gambe e delle braccia, già assemblate in precedenza. In corrispondenza della caviglia sinistra della figura di Narciso è visibile una stuccatura, oggi alterata cromaticamente, è quindi non più funzionale per la fruizione dell’opera. Mentre il braccio destro dell’Eros presentava un intervento di integrazione consustanziale forse non originale.
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credits: The British Museum, Collection on line