Stefano Lecchi

Festeggiamenti sul Campidoglio per la proclamazione della Repubblica romana, acquerello, [1849] (Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, Roma)

Scarse e incerte erano le notizie sul “pittore-fotografo” Stefano Lecchi; persino il suo nome di battesimo è stato appurato soltanto nel 1989 da Piero Becchetti. Ma, oggi, grazie alle approfondite ricerche condotte da Roberto Caccialanza e da Giovanni Bonello, possiamo affermare che Lecchi non sia più uno sconosciuto

Nato nel 1803 e formatosi quasi sicuramente in ambiente milanese, s’ignora ad oggi la data della morte.

Abile fotografo, in anni di ricerca e sperimentazioni, aveva creato un metodo per colorare i dagherrotipi e un particolare dispositivo di messa a fuoco.

Dopo un lungo soggiorno all’estero, caratterizzato da numerosi spostamenti in diversi paesi, nel 1847 è in Italia. Di tale periodo sono una veduta della torre di Pisa e la testimonianza di numerose riprese agli scavi di Pompei.

Dal 1849 è attestata la sua attività a Roma, dove abita con la famiglia. Probabilmente faceva parte dei protofotografi della Scuola Romana di Fotografia, tra cui Frédéric Flachéron, Eugène Constant e Giacomo Caneva, che utilizzavano la tecnica del calotipo, la prima a permettere di trarre più copie positive da un negativo di carta, e che eseguirono le più antiche vedute fotografiche di Roma.

Qui sempre nel 1849 Lecchi realizza delle vedute della città e il primo reportage di guerra sui luoghi delle rovine causate dai combattimenti in difesa della Repubblica romana che, proclamata il 9 febbraio, cadde dopo cinque mesi.

Sino a pochi anni fa lo si riteneva morto prima del 1863 ma, grazie a recenti studi, sappiamo che nel 1866 è a Malta ove è titolare di uno studio fotografico a La Valletta. Suo è un ritratto di Giuseppe Garibaldi eseguito durante il breve soggiorno dell’eroe nell’isola nel marzo 1864 nonché un ritratto di uomo del giugno 1866.

 

Stefano Lecchi pittore e fotografo, allievo di Daguerre: la vita svelata 

Al di là di scoprire dove e quando Lecchi sia nato e morto (operazione rivelatasi assai ardua da portare a termine e quindi rimasta per ora incompiuta) una grande mole di informazioni e di aneddoti sono emersi durante le indagini in Italia e all’estero; ricerche lunghe e tutt’altro che semplici (data la frequenza dei suoi spostamenti) hanno svelato – fra l’altro – la sua attività di pittore e di proprietario di un Cosmorama prima che di fotografo.

Nel corso della propria vita Lecchi soggiornò a Malta, in Francia (si ha notizia della sua presenza ad Aix-en-Provence, Avignone, Lione, Marsiglia, Nîmes, Parigi, Tolone, Tolosa e in altre località), nel Regno Unito (St. Helier e Londra), in Belgio (Bruxelles), Germania, Svizzera (Ginevra), Italia (Napoli e Pompei, Pisa, Roma) e infine – probabilmente – ad Alessandria d’Egitto; oltre che per il già citato reportage di Roma del 1849, egli si distinse in particolare per avere apportato miglioramenti al Diorama di Daguerre, del quale fu certamente allievo e collaboratore (altra notizia di grande rilevanza), nonché per avere inventato un efficace metodo di colorazione dei dagherrotipi e un apparecchio fotografico con specchio periscopico, ed anche per avere messo a punto un proprio procedimento di sviluppo e stampa fotografica su carta.

Nella maggior parte degli atti ufficiali Stefano Lecchi affermò di essere originario “di Milano” o comunque “Milanese”: nacque intorno al 1803 da Antonio e Giuseppa Rossi (tuttavia un esame a tappeto degli atti di nascita e battesimo delle parrocchie di Milano dentro e fuori le mura ha dato esito negativo). Sull’atto di nascita deli figlio Mario, redatto il 19 dicembre 1840, è riportato che Lecchi aveva 37 anni. L’origine milanese venne dichiarata per la prima volta nell’atto di matrimonio in seconde nozze con la palermitana Anna Maria (o Marianna) Rizzo, celebrato a Malta il 24 aprile 1831, e successivamente nei documenti di nascita dei quattro figli, tre dei quali venuti alla luce in località francesi (Achille a Parigi nel 1838 ca., Mario a Tolone nel 1840, Antonia a Marsiglia nel 1845), eccetto Adelaide (Roma, 1849).

Nel luglio-agosto 1836 ed ancora nel gennaio 1838 Lecchi fu a St. Helier, sull’isola di Jersey (Isola dipendente dalla Corona Britannica situata nella Manica a breve distanza dalla Normandia), dove  presentò il suo Cosmorama con “magnifiche vedute” che affermava di aver dipinto dal vero: l’incendio della basilica di S. Paolo a Roma, Napoli e i suoi dintorni, Catania, il Monte Etna durante una delle più imponenti eruzioni, le isole di Sabrina e di Malta, Gibilterra, l’incendio di Mosca, il Cairo, il porto e la città de L’Avana, i sotterranei dell’Inquisizione a Siviglia, Madrid, Cadice, Firenze e dintorni, Palermo, il porto di Messina, Reggio Calabria, il Vesuvio in eruzione… A giugno Stefano sbarcò a Londra (la lista dei passeggeri indica “S. Lecchi – pitore [sic] – Milano”), ma purtroppo non è stato possibile trovare informazioni sulla sua presenza in terra anglosassone.

Nel giugno del 1840 il “pittore italiano” Lecchi era “appena arrivato” a Tolosa per mostrare uno spettacolo di Diorama con alcune vedute già presentate a Parigi e nei maggiori centri della Francia (tre grandi scene che rappresentavano l’interno della chiesa di St-Étienne-du-Mont a Parigi, la città di Napoli con il Vesuvio – prima calmo, poi in eruzione – e il tempio di Salomone). Ad agosto l’artista era a Nîmes, a settembre a Marsiglia, a dicembre si trasferì a Tolone, dove presentò il Diorama con un’importante variazione: aveva “riprodotto su tela, per mezzo del Dagherrotipo, le meraviglie della natura e dell’arte. Egli ha definito le vedute in proporzioni meno gigantesche di quelle del Diorama di Parigi, ma su una scala adeguata che consente di distinguere facilmente tutti i dettagli e tutti i contrasti delle immagini”. Dal 20 aprile a domenica 2 maggio 1841 Stefano fu a Ginevra, per promuovere ancora il Diorama “dipinto con il sistema Daguerre”.

Nel frattempo le cronache del marzo 1839 sull’incendio del Diorama di Daguerre in Rue des Marais a Parigi documentarono che Stefano Lecchi era stato uno dei “giovani pittori formati grazie alle […] dotte lezioni” di quest’uomo che aveva appena dato l’impulso ufficiale per la nascita e la diffusione della fotografia nel mondo. Tuttavia, nonostante i rapporti pregressi con Daguerre, Lecchi aprì il suo primo gabinetto di dagherrotipia solo nel marzo del 1842, ad Aix-en-Provence, ma lo fece presentando una novità assoluta di sua produzione: il Courrier de la Drôme et de l’Ardèche affermò che fino ad allora “si era tentato invano di colorare i prodotti del dagherrotipo” e che questo “grande problema” sembrava ormai essere stato risolto “dal Sig. Lecchi, artista dagherriano, che ci ha mostrato degli esemplari davvero sorprendenti…”; il 10 ottobre François Arago – lo stesso scienziato che per conto di Daguerre aveva annunciato la nascita della fotografia – presentò all’Accademia delle Scienze di Parigi, a nome di Lecchi, alcuni dagherrotipi prodotti con il nuovo sistema, apprezzati per la “colorazione piena di verità e la freschezza degli oggetti rappresentati” (il metodo veniva eseguito depositando su ciascuna delle parti dell’immagine successivi e uniformi strati del colore adatto, il cui eccesso dopo breve tempo veniva rimosso lavando la lastra dagherrotipica in acqua calda). Da questo momento gli spostamenti di Lecchi in Francia e in vari paesi europei, spesso frenetici e sempre legati al lavoro svolto, sono scanditi grazie agli avvisi pubblicati sui periodici e attraverso i documenti che testimoniano la sua presenza in numerose città. In quei mesi il procedimento di colorazione delle lastre dagherrotipiche aveva avuto una grande risonanza in Francia e in numerosi paesi europei, fra i quali il Regno Unito, e nel dicembre 1842 la notizia fu ripresa con grande concitazione anche a Bruxelles: “Lecchi, pittore Milanese, […] è arrivato in Belgio per riprodurre i nostri dipinti più belli. Egli potrà così ottenere copie fedeli ed autentiche dei Rubens, dei Van Dyck e dei nostri più grandi capolavori. Di un ritratto all’olio egli produce, in un giorno, un grande numero di miniature ammirevoli…”.

Altra importante – quanto inaspettata – scoperta sulla vita di Stefano Lecchi è stato il rapporto con Vito Mangiamele (1827-1898), un bambino prodigio divenuto famoso in tutto il mondo per le sue straordinarie capacità di calcolo matematico: i due viaggiavano insieme e sbarcarono a Londra il 25 ottobre 1842. Un secondo viaggio è documentato il 28 maggio 1843, quando Lecchi e Mangiamele raggiunsero il porto di Southampton: balza agli occhi, nel registro dei passeggeri, la stridente differenza fra l’ottima grafia di Mangiamele (“viaggiatore siciliano”) e quella assai incerta, quasi tremolante, di Lecchi, che di pugno scrive il proprio cognome, una parola poco comprensibile (“viagato”, intendendo “viaggiatore”, come se egli avesse ormai dimenticato l’italiano) e la città d’origine, “Milano”.

Intanto, il 1° ottobre 1842, l’artista domiciliato a Parigi aveva inoltrato la domanda al fine di poter ottenere un brevetto d’invenzione di cinque anni per procedimenti propri a colorare all’acquerello le prove ottenute con il Dagherrotipo (concesso il 2 dicembre). Nell’incartamento Lecchi incluse la descrizione del metodo e un “disegno-ritratto” quale campione dimostrativo (oggi purtroppo introvabile) e in una nota precisò che la scoperta era stata fatta ad Avignone il 18 agosto di quell’anno. Il 10 dicembre 1842 Lecchi cedette i diritti di utilizzo della sua invenzione sia ai parigini Jean-Thomas Rameye e Jean-Pierre Glenisson che a Edme Bailly e Joseph Belnot della ditta ‘Bailly et Belnot’, i quali ne fecero uso in alcuni dipartimenti della Francia.

Al brevetto originario seguì un certificato d’addizione e di perfezionamento, rilasciato il 31 dicembre. Nella descrizione Lecchi parlò di una “nuova scoperta utile a rendere il colore naturale a tutti gli oggetti che si riproducono col mezzo del Dagherrotipo, come ritratti, monumenti, vedute, paesaggi, ecc., che siano essi vecchi o nuovi; si dona loro il colore naturale, poco importa che siano stati prodotti più o meno recentemente; più si ottengono nitidi e trasparenti con il Dagherrotipo, più il loro colore sarà naturale e riuscirà al meglio. Con il procedimento […] si ottengono tutti i colori naturali con una trasparenza perfetta, brillante, identica a quella uscita dalla camera oscura. […] I colori che si applicano sono: il rosso, il giallo, il blu, il verde, le vernici di tutti i colori, e tutti gli altri colori utilizzati nella pittura. Dopo avere applicato i colori adatti all’oggetto che si vuole riprodurre, l’immagine verrà lavata con acqua fredda e calda, come si fa abitualmente…”.

Nella rubrica delle ultime novità del Bulletin de l’Alliance des Arts di Paul Lacroix del 10 gennaio 1843 si trova che Lecchi, “conosciuto in Germania ormai da alcuni mesi”, sarebbe arrivato ben presto a Parigi per dimostrare l’eccellenza del suo metodo di colorazione dei dagherrotipi; di lui parlò anche Noël-Marie Paymal Lerebours nel Traité de photographie.

L’importanza della figura di Lecchi nel campo della fotografia in Francia nei primi anni Quaranta dell’Ottocento è provata anche dal fatto che il dagherrotipista Jean-Thomas Rameye lo citò quale suo maestro insieme a Daguerre e a Chevalier. Ma Stefano aveva già allo studio un ennesimo ritrovato, che sottomise nel corso della seduta dell’Accademia delle Scienze del 22 aprile 1844: si trattava di un apparecchio fotografico innovativo, differente dagli ordinari per il fatto che la camera oscura veniva privata dell’obbiettivo, ma allo stesso tempo dotata di uno specchio periscopico in vetro ricoperto di “stagnola amalgamata” che rifletteva l’immagine sulla lastra, ribaltandola; inoltre diveniva possibile operare regolando la lastra medesima e lo specchio al fine di ottenere il massimo della nitidezza e quindi della messa a fuoco agendo su un indicatore posto sul quadrante (che riportava le misure delle distanze normalmente usate per fare i ritratti). Edmond De Valicourt stroncò il nuovo dispositivo, che – anche per questo motivo –  non ebbe fortuna.

Entrata dei francesi in Roma, litografia colorata a mano di Pietro Barabino, in “Storia della rivoluzione romana per Biagio Miraglia da Strongoli”, Genova, 1850 (Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, Roma)L’infaticabile Lecchi, “uno dei primi divulgatori del procedimento dagherriano a Marsiglia”, continuò a sperimentare fino a mettere a punto un procedimento chimico di stampa fotogenica su carta i cui effetti somigliavano molto all’acquaforte: i risultati lasciarono esterrefatto persino il celebre fotografo amatore anglosassone rev. George Wilson Bridges, corrispondente di William Henry Fox Talbot: L’invenzione permetteva di applicare un foglio di carta preparata chimicamente in modo diretto sopra ciò che si voleva riprodurre per ottenere “una tavola di una esattezza matematica”, grazie alla quale era possibile ricavare copie a volontà. I primi esemplari creati con questo nuovo procedimento vennero esposti nell’ottobre 1844 ad Aix-en-Provence e in seguito a Marsiglia, dove Lecchi dimorava ormai da tempo con i propri famigliari, mentre la prima dimostrazione pubblica venne fatta a Lione il 30 novembre 1845: in una lettera del 1° dicembre inviata da La Valletta a William Henry Fox Talbot, il reverendo Richard Calvert Jones affermò di avere notato nelle vetrine di alcuni fotografi e negozianti di Lione, Avignone e Marsiglia, dei calotipi molto simili a talbotipie (prodotti da Lecchi) caratterizzati da macchie identiche su copie diverse.

Il ritorno in Italia portò Lecchi prima a Napoli-Pompei (George Wilson Bridges lo incontrò a Napoli nell’agosto 1847), poi a Pisa (è conosciuta una veduta del 1848 che ritrae una porzione dell’abside della Cattedrale e la torre pendente) e in seguito a Roma. I Lecchi dimorarono nella Città Eterna per oltre un decennio prima di trasferirsi a Malta, dove peraltro nel frattempo Stefano si recò spesso anche per vicende legali (al riguardo s rimanda all’interessante approfondimento di Giovanni Bonello sulla presenza di Lecchi a Malta); due ritratti in carte de visite eseguiti in studio, l’uno di Giuseppe Garibaldi e l’altro di un uomo distinto appoggiato ad una sedia, documentano la sua attività fotografica a Malta (La Valletta) certamente nel marzo 1864 e nel giugno 1866.

Le tracce di Stefano Lecchi, per il momento, finiscono qui. È tuttavia possibile che egli abbia condotto o seguito la moglie e il figlio Achille ad Alessandria d’Egitto: quest’ultimo, che riuscì a costruirsi una reputazione di pittore piuttosto apprezzato in questa città, morì nel 1898 dopo che la madre vi era deceduta nel 1882.

(Roberto Caccialanza)


Nel marzo 2017, dopo un serio e rigoroso processo di valutazione e di controllo, la European Society for the History of Photography (ESHPh) decise di pubblicare – in fruibilità open source e in lingua inglese – un estratto della biografia di Stefano Lecchi (Stefano Lecchi, from Milan, Pupil of Daguerre: the Last Biography), frutto di un lungo e complesso lavoro di ricerca a livello internazionale che rese note, per la prima volta, la vita personale e l’attività professionale del fotografo divenuto celebre per avere documentato i danni provocati dall’assedio di Roma del 1849. Lo studio originale a mia cura (in realtà ben più esteso e ricco di informazioni) da allora si è ampliato con importantissime novità in alcuni casi sorprendenti, che intendo divulgare appena possibile nel corso del 2020 quale nuova puntata della collana Storie di fotografi”.

COSMORAMA

Il nome significa vista, rappresentazione dell’universo. Si trattava di un apparecchio che, per mezzo di illusione ottica, permetteva di mostrare una serie di immagini o di quadri panoramici di città e località di diverse parti del mondo, con effetto di ingrandimento e di rilievo. Il Dictionnaire chronologique raisonné des découvertes en France, de 1789 à la fin de 1820, edito a Parigi nel 1822, spiega: “Cosmorama – Ottica – Invenzione – Verso il 1806 – Con l’aiuto di diversi effetti di ottica e di luci disposte ad arte, si fa apparire, a grandezza quasi naturale, delle vedute pittoresche disegnate all’acquarello e alla gouache. Gli inventori di questo spettacolo offrono, nel corso di ogni anno, i luoghi più curiosi di alcune parti del mondo. Il Cosmorama è uno spettacolo tanto gradevole che istruttivo per i viaggiatori, gli artisti e gli amatori delle belle arti”.

DIORAMA

Spettacolo messo a punto da Louis-Jacques-Mandé Daguerre (inventore anche del Dagherrotipo) e da Charles-Marie Bouton, e andato in scena per la prima volta a Parigi l’11 luglio 1822. Consisteva in grandi teloni dipinti e tesi a varie distanze l’uno dall’altro, con parti trasparenti che, regolando opportunamente l’illuminazione, davano agli spettatori l’illusione di una veduta prospettica diurna o notturna di paesaggi, edifici, persone e oggetti. Funzionava così: sulle facce di tele trasparenti, tese verticalmente, venivano dipinti soggetti diversi in trasparenza, a tinte tenui sulle facce anteriori, a tinte forti su quelle posteriori. Da finestre invisibili allo spettatore, che si trovava al buio in una sala di forma circolare il cui pavimento talune volte poteva essere rotante (“come un mulino a vento”), veniva illuminata la parte anteriore delle tele i cui soggetti erano osservati in luce diffusa, con effetto simile alla luce diurna; se, invece, le tele venivano illuminate da dietro, diventavano visibili i soggetti sui lati opposti, tanto che le immagini dipinte apparivano come viste in luce notturna.

Atto di matrimonio tra Stefano Lecchi e Maria Anna Rizzo. Malta, La Valletta, Porto Salvo, chiesa di S. Domenico, 24 aprile 1831 The Argus, avviso apparso il 19 luglio 1836 Le Courrier Belge, avviso apparso il 22 dicembre 1842 Le Courrier du Gard, avviso apparso nei giorni 26 marzo, 5, 10, 12 e 23 aprile 1844 Stefano Lecchi, Ritratto di uomo, Malta, La Valletta, 1866, carte de visite. (collezione Ruggero Pini, Mandello del Lario)