Il 1849 è il primo test del grado di maturità raggiunto dalla popolazione romana dopo secoli di quasi ininterrotta passività nei confronti del papato e della gerarchia ecclesiastica. Si trattò di un test valido almeno in parte sotto il profilo politico, perché se è vero che l’impulso a creare la Repubblica e a darle un orizzonte unitario viene soprattutto dai circoli del nord dello Stato pontificio, non è da trascurare la partecipazione al voto che il 21 gennaio determina – attraverso il suffragio elettorale – la composizione di quella che sarà l’Assemblea Costituente Romana; né va sottovalutato tutto quel lavorio cospirativo che alcuni ambienti cittadini avevano messo in atto approfittando delle prime concessioni di Pio IX.
Proclamata la Repubblica, mentre clero e aristocrazia si affrettano a lasciare la città, il popolo si viene abituando alle novità con un atteggiamento che, dallo scetticismo iniziale, tende a tradursi in consenso nel momento in cui le truppe francesi si affacciano sul Gianicolo.
Il vero elemento capace di esprimere l’opinione cittadina lo abbiamo dunque nella compostezza con cui gli abitanti dei rioni più esposti reagiscono alla minaccia delle bombe francesi, nello spirito di sopportazione con cui si subiscono la penuria e il rincaro dei beni di consumo, negli indici non particolarmente elevati della piccola criminalità urbana. Soprattutto ha un significato il fatto che i romani deludano le aspettative francesi di una rivolta contro il governo repubblicano che aprirebbe loro le porte della città santa senza dover combattere.
La folla che il 3 luglio si raccoglie sotto il Campidoglio per sentir leggere il testo della Costituzione approvato tre giorni prima è, coi suoi silenzi e con l’acclamazione finale alla Repubblica, la dimostrazione del legame che cinque mesi di governo, i molti caduti, la dignità stessa delle istituzioni e di chi le guida sono riusciti a stringere tra il popolo e i suoi rappresentanti.
Approfondimento
Il 10 gennaio 1849 fu rappresentato al Teatro Argentina il Macbeth di Giuseppe verdi, presente l’autore che da qualche giorno era giunto a Roma per preparare la prima di un’altra sua opera, La Battaglia di Legnano, andata poi in scena nello stesso teatro il 27 gennaio. A leggere queste notizie si potrebbe avere l’impressione di una grande città in piena stagione operistica, con un pubblico anche internazionale pronto a decretare il successo di un musicista già celebre ovunque. E invece proprio le melodie verdiane, dense com’erano di palpiti di patriottismo, animavano un clima di attesa, sospeso tra i colpi di scena del passato novembre (attentato a Pellegrino Rossi, fuga di Pio IX) e un futuro dall’incerta direzione. Si viveva nell’imminenza delle elezioni del 21 gennaio, le prime libere, le prime a suffragio universale maschile, e c’era spazio per l’operosità dei circoli, l’enfasi della stampa, l’attivismo dei primi repubblicani calati a Roma dal Nord per indirizzare l’esito delle consultazioni verso approdi di sicura democrazia: tutto questo in una città abituata da secoli – salvo la breve scossa di fine Settecento – a un tran tran fatto di grandi cerimonie religiose, feste, visite di sovrani, più qualche mugugno facilmente assorbito dalla paciosità complessiva di una popolazione orgogliosa di sé e della sua storia antica ma anche abbastanza indolente. Eppure proprio tra novembre e dicembre qualcosa era cambiato in seno alla società: i grandi dignitari della Chiesa e tutto il corpo diplomatico avevano seguito il papa a Gaeta, il clero aveva cominciato a defilarsi, l’aristocrazia impaurita da qualche avvisaglia di “comunismo” (così lo definiva uno di loro, Michelangelo Caetani) si era come ritirata su se stessa, la borghesia, peraltro non numerosa, oscillava tra voglia di tranquillità e tentazioni di radicalismo, i militari stavano in guardia. E il popolo? Ciceruacchio, che tra il ’46 e il ’48 aveva saputo reclutarne una parte consistente allo scopo di dare un sostegno di folla al riformismo papale, perso il papa era rimasto senza il suo interlocutore preferito e si era come ridimensionato di fronte a figure meglio attrezzate sotto il profilo politico: Sterbini, il principe di Canino, Mamiani, capaci di usare sistemi più sofisticati per portare avanti il loro disegno di secolarizzazione e di rilancio della municipalità romana; e tutto ciò nella prospettiva di una città in cui potesse tornare il papa come sovrano spirituale escludendo però per sempre dal potere civile lo screditatissimo ceto ecclesiastico.
Il ’49 a Roma inizia dunque con un grande vuoto. A colmarlo ci pensano i rappresentanti del popolo eletti il 21 gennaio e convocati in Assemblea a partire dal 5 febbraio. Qui il disegno municipalistico rivela tutti i suoi limiti: se sotto il papa liberale ha avuto una sua efficacia nella politicizzazione delle masse, al cospetto dei portatori dell’ideologia repubblicana unitaria eletti prevalentemente nelle province settentrionali dello Stato deve cedere il passo. Una volta preparata la città alla grande svolta del 1849, quando il 9 febbraio viene proclamata la nascita della Repubblica si trova in minoranza. D’altronde non potrebbe mai essere all’altezza dei compiti che si richiedono ora alla classe politica: dare sostanza e contenuti alle nuove istituzioni repubblicane e poi gestire il difficilissimo rapporto con le Potenze cattoliche decise a riportare il papa sul proprio trono. Anzi, su quest’ultimo punto è la stessa assemblea che, mentre si concentra sui primi provvedimenti di governo e poi sulla stesura della Costituzione, consegna ogni responsabilità all’esecutivo, la cui titolarità viene affidata a un triumvirato nel quale emerge la figura di Giuseppe Mazzini, eletto anche lui in una consultazione suppletiva e giunto in città il 6 marzo.
Mazzini è il portatore irremovibile di un disegno unitario, ma è anche colui che, puntando a fondare la nazione italiana, vuole andare oltre, arrivando fino a concepire un’Europa liberata dalla tirannide dei grandi imperi e riorganizzata sulla base della volontà dei popoli stretti tra loro da un vincolo di fratellanza. Il progetto sa molto di utopia, ma qualcosa della predicazione da lui avviata nel 1831 è già stato recepito e diffuso attraverso la Giovine Italia; a far conoscere il progetto nella sua complessità contribuiscono ora i giornali che del mazzinianesimo sono un’emanazione e coloro che li scrivono: i De Boni, i Mameli, i Dall’Ongaro. Nella visione di Mazzini Roma diventa ora qualcosa di diverso da una città, per quanto carica di gloria essa sia: Roma è un universo, un punto di raccolta di tutte le fedi patriottiche. Forse vuole essere sul piano laico ciò che per secoli aveva rappresentato sul piano religioso: un centro di irradiazione di una religione civile che come la religione cristiana aspiri alla liberazione di tutta l’umanità.
È lecito domandarsi quanto di tutto ciò arrivi alla popolazione romana. Probabilmente ben poco. Ciò però non significa che i romani (e anche gli stranieri presenti in città e gli altri che via via vi arriveranno) non percepiscano almeno in superficie il senso della parte che son chiamati a recitare: il fatto stesso di essere stati interpellati per la selezione dei loro rappresentanti li gratifica e li fa sentire elementi importanti di un progetto di rinnovamento. Nei fatti, però, l’inizio delle ostilità coi francesi sposta la funzione educativa che Mazzini assegnava alla Repubblica verso le occorrenze della difesa. Testimoni diretti riferiscono che l’idea di affrontare i francesi, che nel 1799 non avevano lasciato un ricordo esaltante, confermato per alcuni dall’occupazione di dieci anni dopo, li galvanizza; allo stesso modo, l’esempio di Garibaldi e dei suoi legionari vittoriosi il 30 aprile ha un indubbio effetto se non di mobilitazione di massa quanto meno di partecipazione morale alla difesa delle istituzioni. E’ il motivo per il quale si dimostra subito impraticabile quel punto della strategia d’assalto francese che prevedeva che fossero gli stessi romani ad aprire loro le porte della città, ribellandosi a chi aveva imposto loro un nuovo ordine. Non va trascurato il fatto che l’inizio dell’assedio ha comportato gravi problemi di approvvigionamento e un sicuro rialzo dei prezzi. Oltre tutto l’economia cittadina, molto dipendente dalla presenza del papa e della sua corte, aveva ricevuto un colpo durissimo dall’eclissi del turismo che dopo il 30 aprile si fa ancora più pronunziata. Nulla di tutto questo fu sufficiente a convincere i romani a togliere il loro consenso all’Assemblea.
Ciò nonostante, quando con il 3 giugno cominciano i bombardamenti e svanisce la speranza, a lungo cullata da Mazzini, di arrivare a un accordo che salvi la Repubblica, sono soprattutto i Trasteverini a sostenere lo sforzo e i sacrifici di chi combattendo sui bastioni difende, assieme a un regime politico, anche le loro case e le loro vite. Infatti il rione di Trastevere, collocato com’è sotto il Gianicolo, è esposto più di altri punti della città alle cannonate delle truppe francesi. I cronisti del tempo, il Roncalli in particolare, riferiscono puntualmente sui costi che in termini di vite umane la popolazione romana è costretta a pagare per l’infittirsi del fuoco dei francesi. Eppure, da questi stessi cronisti e da altre testimonianze dirette, apprendiamo che l’emergenza gravissima in cui Roma viene a trovarsi, non modifica più di tanto le abitudini della popolazione, anche se la rende meno spensierata. Così, dopo aver festeggiato il carnevale e celebrato la Pasqua onorando una tradizione religiosa molto sentita, la cittadinanza romana continua con le sue passeggiate ad affollare il Corso, frequenta i teatri, non dimentica le osterie. Perfino il 29 giugno, un giorno prima della capitolazione, si celebra la festa del patrono e si illumina con migliaia di candele la cupola della basilica di San Pietro: sullo sfondo di un cielo notturno solcato dai lampi l’effetto, dicono le fonti, è straordinario. Continuare a vivere come se nulla fosse è il meno che ci si possa aspettare da una città che non sarà particolarmente eroica ma che in duemila anni di storia ha visto e sopportato di tutto, sempre attraversando le circostanze più drammatiche senza abbattersi, senza piagnucolare e cercando di restare fedele a se stessa.
Quando tutto sarà finito e l’ordine imposto con la forza tornerà a regnare su Roma e su tutto lo Stato pontificio, Pio IX farà passare quasi un anno prima di tornare sul trono restituitogli dai francesi. E impiegherà anche più tempo per recuperare non l’affetto, non la stima, ma l’obbedienza dei suoi sudditi. Ci saranno – all’ombra del corpo d’occupazione francese partito con l’intenzione subito frustrata di salvare almeno la costituzione concessa da Pio IX nel ’48 - arresti, processi, persecuzioni politiche, esili; i romani, o meglio i più risoluti tra loro, sfogheranno la rabbia prendendo a pugnalate qualche soldato francese o tendendo agguati ai capi della polizia. Poco alla volta, e tra mille difficoltà, la cospirazione si riorganizzerà senza tuttavia ottenere grandi risultati, e soprattutto senza riuscire mai a ricreare lo spirito del ’49, sepolto assieme a quella carta costituzionale che ne aveva interpretato meglio di qualunque altra cosa l’ansia di rinnovamento.
(Giuseppe Monsagrati)