Tradizionalmente il primo reportage fotografico di guerra veniva erroneamente considerato quello realizzato dall’inglese Roger Fenton nel 1855 durante la guerra di Crimea. In realtà Stefano Lecchi, subito dopo la caduta della Repubblica romana, avvenuta il 3 luglio 1849, realizza una serie di fotografie sui luoghi dove Garibaldi e altri patrioti accorsi da tutta Italia, avevano strenuamente difeso la città, assediata dal corpo di spedizione francese inviato a restaurare il potere papale.
Le preziose immagini realizzate da Lecchi agli albori della tecnica fotografica ebbero diffusione soprattutto in ambito garibaldino e conobbero un’immediata risonanza grazie alla loro traduzione litografica.
Per la prima volta il reportage di Lecchi sull’assedio di Roma del 1849 viene qui presentato riunificando il patrimonio di due istituzioni diverse: la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma e il Getty Research Institute di Los Angeles.
Approfondimento
Il racconto fotografico che sulle rovine di Roma realizzò, plausibilmente già nel luglio del 1849, Stefano Lecchi costituisce il primo esempio di reportage o, più esattamente, di reportage di guerra finora conosciuto. L’immagine trascende la centralità del soggetto rappresentato per diventare memoria storica di un evento fissato non nel suo accadere (il che era tecnicamente impossibile all’epoca) ma documentato dalle sue tracce, effimere e destinate presto a scomparire, che esso ha lasciato dietro di sé.
A partire da allora la rappresentazione dei conflitti si serve della fotografia come nuovo medium; anche se la scarsa sensibilità dei materiali fotografici dell’epoca rendeva necessari lunghi tempi di posa che impedivano la ripresa dei combattimenti e in generale di azioni in movimento.
Il reportage di Lecchi precede di sei anni quello eseguito nel 1855 nella guerra di Crimea dall’inglese Roger Fenton cui era tradizionalmente attribuito il primato cronologico.
L’ungherese Karol Szathmari nel 1853 aveva realizzato centinaia di fotografie, poi andate perdute, all’inizio dell’invasione russa in Valacchia-Moldavia, avvisaglia di quella che sarebbe stata definita guerra di Crimea.
Fenton è stato considerato antesignano di un particolare genere, il reportage, che avrebbe poi trovato altri illustri rappresentanti in Felice Beato che fissa la repressione inglese dei moti indiani nel 1857 e successivamente in Cina la seconda guerra dell’oppio, e in Matthew Brady e il gruppo dei fotografi tra cui Garden e Timothy O’Sullivan che testimoniano la guerra civile americana (1861-1865).
Il reportage di Fenton, commissionato dal governo britannico e pubblicato sul Times, ebbe un’eco straordinaria e fu caratterizzato da numerose ristampe degli originali. Questa vasta diffusione aveva lo scopo di contrastare la campagna di stampa contro l’impegno della Gran Bretagna nella guerra.
In realtà è Stefano Lecchi che subito dopo la caduta della Repubblica romana, avvenuta il 3 luglio 1849, scatta una serie di fotografie sui luoghi dove Garibaldi e altri patrioti accorsi da tutta Italia, avevano strenuamente difeso la città, assediata dal corpo di spedizione francese inviato a restaurare il potere papale realizzando così in assoluto le prime fotografie di un evento bellico che costituiscono un’anticipazione del reportage di guerra del Novecento.
Conosciuto solo attraverso le copie realizzate ai primi del Novecento possedute dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e quelle appartenenti all’Archivio Fotografico del Museo di Roma il reportage di Lecchi è ora noto, possiamo supporre, nella sua interezza.
Nel 1997 Marina Miraglia ha infatti ritrovato quarantuno carte salate di Lecchi presso la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma. Nel 1998 è seguito il ritrovamento di venti carte salate da parte di Silvia Paoli presso la Civica raccolta A. Bertarelli di Milano.
A seguito della pubblicazione nel 2001 di un primo catalogo relativo alle carte salate di Lecchi, i ricercatori del Getty Research Institute di Los Angeles identificavano Lecchi come autore delle quarantuno carte salate rilegate in un album in loro possesso e originariamente appartenente a Edward Cheney.
Al contrario di quanto avvenne per il reportage di Fenton, a quello di Lecchi attinse il mercato editoriale senza neanche citare il suo nome ma segnalando solo che le litografie erano derivate da quelli che erano genericamente definiti “daguerrotipi”.
Non si hanno dati precisi sul numero delle fotografie che costituivano il reportage né sulla loro diffusione e sulla loro valutazione economica: solo poche ma significative indicazioni sulla circolazione di tali immagini in un preciso ambito garibaldino grazie al ricordo di Jessie White Mario e grazie al ritrovamento delle fotografie appartenute a due uomini del ’49: Agostino Bertani e Alessandro Calandrelli.
Pur non potendo escludere a priori l’ipotesi di un lavoro su commissione, è logico supporre che qualche testimone diretto avesse consigliato Lecchi nella scelta dei luoghi da fotografare o che il fotografo stesso fosse in grado di poter fare una sua propria scelta ragionata e meditata.
Lecchi, appassionato ed esperto fotografo, ricorse proprio a tale mezzo tecnico per costruire, attraverso l’immagine, il proprio racconto degli avvenimenti e delle situazioni. Nelle fotografie egli registra, documenta, fissa quanto era sotto gli occhi di tutti: le opere di difesa, i segni lasciati dai combattimenti, l’imponenza della devastazione.
Il reportage non è, né poteva essere per le caratteristiche dei mezzi tecnici del tempo, un resoconto esaustivo dei vari momenti della lotta sostenuta; ma era finalizzato a richiamarli registrandone ed evidenziandone gli effetti. Per chi sapeva e voleva ricordare, i luoghi erano inestricabilmente legati ai singoli episodi di battaglia, di valore, ai fatti e alla memoria degli uomini che vi avevano lottato e che spesso vi erano morti.
Il rapporto di Lecchi con il modo tradizionale di costruire le immagini è chiaro in alcune fotografie legate alla tradizione da un identico codice di scrittura visiva. Ciò è soprattutto vero quando ritrae vedute di Roma: emblematica la fotografia del casale Cenci a villa Borghese che è quasi sovrapponibile, nell’impostazione della scena, all’analoga immagine nella litografia di Landesio e Rosa del 1842. Ciò sottolinea l’incidenza, nella formazione del suo gusto fotografico, di quello che era il modo usuale di riprodurre uno stesso luogo.
Ben osservabile nelle sue fotografie è la puntigliosa esattezza nelle riprese che lo porta a fotografare alcuni edifici da prospettive diverse quasi che l’osservatore possa attraverso le immagini girargli intorno, osservarlo dalle diverse angolazioni, seguendo le orme del fotografo, fino ad immedesimarsi nella sua osservazione e a sostituirglisi.
A volte a un’immediata riconoscibilità di alcuni luoghi fa riscontro la difficoltà d’identificare alcuni soggetti fotografici causata spesso dal taglio della foto che tendeva ad evidenziare alcuni particolari di un edificio e dalla mancanza di ogni riferimento visivo a un luogo, a un edificio già noti.
Lecchi si sofferma anche a fotografare edifici “minori” evidentemente perché legati ad episodi bellici che, pur avendo avuto una minore rilevanza, risultavano significativi per chi avesse una approfondita conoscenza delle fasi della difesa della Repubblica.
Scopo primario di Lecchi è la documentazione. Egli utilizza uno stile piano, da cui sono avulsi la pedanteria, lo spettacolare. Mancano le pose marziali e l’approccio estetizzante basato su immagini accattivanti. La sua è una documentazione minuziosa con una estrema attenzione ai particolari.
Dalle fotografie di Lecchi emerge la volontà di organizzare un racconto per immagini. C’è infatti connessione tra gli avvenimenti e le sequenze fotografiche perché alla selezione di eventi ritenuti rilevanti, segue il racconto fatto attraverso l’immagine dei luoghi. Alla narrazione e alla memoria si aggiunge così l’iconografia.
Alcune delle immagini avevano una valenza commerciale, riproducendo dei luoghi, delle rovine di ville il cui l’antico splendore era ormai irrimediabilmente scomparso. In altre erano rappresentati dei luoghi che richiamavano degli eventi specifici e parlavano pertanto solo a chi sapeva e voleva ricordare.
L’immagine tende a divenire così documento-simbolo, quasi un monumento del ricordo.
L’adesione morale agli ideali della Repubblica da parte di Lecchi pare ulteriormente confermata da un’altra fotografia di Stefano Lecchi da me ritrovata nel fondo iconografico del Museo del Risorgimento di Roma, con la scritta «S. Lecchi 1851». Si tratta della riproduzione della parte centrale del quadro di Filippo Vittori che raffigura i bersaglieri lombardi e i lancieri della morte che trasportano Luciano Manara gravemente ferito a villa Spada.
(Maria Pia Critelli)