L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Prezzolini (1910)
«Caro Croce,
stamani ho cercato alla B. Naz. [Biblioteca nazionale di Firenze] il lavoro del Symonds. Non c’era la traduzione e neppure l’annata 1888 della Fortnightly Rev. dove fu pubblicata a parte l’introduzione. Ho letto l’art. del Masi [Ernesto Masi, Carlo Gozzi e la commedia dell’arte, «Nuova Antologia», 109 (1890), p. 663-684] ed esso mi ha confermato nell’idea che i mutamenti cronologici e d’edizione non siano applicabili alla riedizione nostra, perché il Symonds ha spesso riassunto il testo e corretto dove era errato magari per volere stesso del Gozzi.»
(Giuseppe Prezzolini, lettera a Benedetto Croce, Firenze 28 febbraio 1910, p. 241)
Prezzolini (1923-1940)
«Studio alla New York Public Library. In ogni paese straniero ore di biblioteca, mie case. Domani inizio lezioni. Ho la testa piena di cose da dire, ma non so da dove comincerò.».
(Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, p. 372. Appunto datato New York 8 luglio 1923; in quell’anno Prezzolini accettò di tenere un corso estivo di letteratura italiana presso la Casa italiana della Columbia University)
«Lavoro a due monografie per Formiggini, che me ne ha chiesto una su Mussolini. Ho accettato, a patto di scriverne un’altra su Amendola, e passo dei pomeriggi alla biblioteca della Camera dei deputati per compilarla. Il bello sarà che tutti e due se ne avranno a male.».
(Ivi, p. 390. Appunto datato Roma 22 agosto 1924; quell’anno Prezzolini pubblicò il volume Benito Mussolini, e l’anno successivo Giovanni Amendola, entrambi presso Formiggini nella collana «Medaglie»)
«La Casa Italiana è affidata alla Italy-American Society. Direttore di questa è un professor Burchell. Ma chi fa tutto è il segretario De Bosis, quel caro ragazzo che anni fa raccomandai perché fosse chiamato in America a tener conferenze. De Bosis era un caro ragazzo, è ora un caro ragazzo e sarà sempre un bravo ragazzo, ma soltanto questo. Dirige la Casa Italiana con poesia. La Casa è un poema, in versi liberi. Non c’è ordine, disciplina, coordinazione, scopo. Non si sa perché funzioni e che cosa stia a fare. Le camere-appartamento che occupiamo sono una repubblica. L’ascensore è un mito. Il bibliotecario della Casa passa la notte a suonare i dischi, e ordina i libri più buffi, senza un piano prestabilito. Tutto si fa all’improvviso e talvolta riesce bene non si sa perché. Ma l’impressione generale è la confusione.».
(Ivi, p. 441. Appunto datato New York 1° novembre 1929; Adolfo Lauro De Bosis fu nominato segretario della Italy American Society nel 1928, e in quegli anni, a dirigere la biblioteca della Casa Italiana, era Henry Furst; cfr. ivi, la testimonianza di Mario Soldati del 1989)
«Visita di X. tutto scompaginato dalla notizia della mia nomina. Sa che io so come cura la biblioteca. A un bibliotecario che sta su la notte suonando dischi e dorme il giorno, io non credo.».
(Ivi, p. 452. Appunto datato New York 16 marzo 1930; dopo aver tenuto i corsi estivi nel 1923 e nel 1927, nel 1930 Prezzolini fu nominato professore di letteratura italiana e direttore della Casa Italiana presso la Columbia University a New York; il riferimento è al bibliotecario Henry Furst)
«Ieri visita di Malagodi e di Romoli della Banca Commerciale che nella biblioteca di Columbia trovaron libri e notizie per certi loro affari del Sud America. Gli scoprii un opuscoletto, che capii gli faceva molto comodo, cioè serviva a guadagnar denari. Mio destino: trovarli per gli altri.».
(Ivi, p. 565. Appunto datato New York 11 marzo 1937; il riferimento è a Giovanni Malagodi e Guglielmo Reiss Romoli)
«Curiosità immensa per la letteratura americana. Tutti ne chiedono. Che c’è di nuovo? Da Vieusseux i libri letti son d’autori americani: Faulkner e Hemingway, Lewis e Dreiser. Ma tutti romanzi: Lee Masters è sconosciuto.».
(Ivi, p. 573. Appunto datato 30 agosto 1937; tra luglio e settembre 1937 Prezzolini fu in varie città d’Italia)
«Ho perso, infatti, una cosa rara a New York; io ero solo ad abitare, se abitare vuol dire studiare e dormire, in una casa monumentale di sette piani, con biblioteca aperta, per me, anche di notte, dove passavo giorni interi e dopo le dieci di sera sempre, mezze notti.».
(Ivi, p. 650. Appunto datato New York 31 dicembre 1940; avendo rassegnato le dimissioni da direttore della Casa nel 1940, e conservando soltanto l’incarico di insegnamento, Prezzolini trascorse in quella data l’ultima notte come residente presso la Casa Italiana)
Prezzolini (1971)
«Cospicuo mi pare il silenzio della D.F.B. [Daria Frezza Bicocchi] sui libri, riviste e giornali antifascisti che per mia indicazione furono messi a disposizione del pubblico nella Biblioteca Paterno. Nessun altro si occupava di suggerire al bibliotecario i nuovi acquisti. Fui io che feci abbonare la biblioteca a «Giustizia e Libertà» allo «Stato Operaio» (anche per il mio gusto di sentire tutte le parti) e misi a disposizione di chiunque volesse prenderle dagli scaffali (senza neanche fare una scheda di richiesta) molte, se non tutte, le opere di Nitti, di Gobetti, di Jahier, di Salvemini. È strano che una egregia spulciatrice di frasi isolate non abbia pensato che questo era un fatto degno di nota. Forse perché senza intenzione di scherzare, avrebbe dovuto riconoscere che io ho contribuito alla diffusione delle idee dell'antifascismo, e mi merito una medaglia della Resistenza.».
(Giuseppe Prezzolini, A proposito di Casa Italiana alla Columbia University e di fascismo, p. 406. A seguito della pubblicazione del saggio Propaganda fascista e comunità italiane in USA: la Casa Italiana della Columbia University di Daria Frezza Bicocchi – apparso su «Studi storici» (11, n. 4, 1970) e assai critico verso Prezzolini e la sudditanza che questi ebbe verso il Fascismo durante gli anni della direzione della Casa Italiana –, il giornalista replicò con un saggio apparso sul successivo fascicolo di «Studi storici». Negli anni successivi Prezzolini ritornò in più di un’occasione sul suo operato negli anni newyorkesi, affrontandolo in particolare nel volume La Casa Italiana della Columbia University, Milano, All’insegna del pesce, 1976)
Prezzolini-Casati (1909-1910)
«Ancora non sono stato 1 volta a Fiesole o sui colli! e mai in biblioteca per me.».
(Giuseppe Prezzolini, lettera a Alessandro Casati, Firenze 16 luglio 1909, p. 110)
«Ti mando domani un pacco con molti libri tuoi trattenuti più del bisogno. – Vorrei sapere, anche a nome di Soffici, che libri si potrebbero consultare (con illustrazioni) sul Cremona, sul Bazzaro ecc. e su quelli citati da O.[jetti] nel Corriere.».
(Giuseppe Prezzolini, lettera a Alessandro Casati, Firenze 2 giugno 1910, p. 150)
«sul Cremona v. il volume illustrato di Giulio Pisa, che se non alla biblioteca troverete all’Istituto di Belle Arti di costì; sul Bazzaro un articolo apparso cinque o sei anni fa sull’Emporium. Anche sarebbero da consultare i cataloghi delle Esposizioni Milanesi fra il 70 e l’80: credo di possederne alcuni; ve li manderò appena di ritorno a Milano, fra una decina di giorni.».
(Alessandro Casati, lettera a Giuseppe Prezzolini, Monza 4 giugno 1910, p. 150-151)
«Credo di essere tuttora associato alla Bibliot. filos. – In caso che sì, desidererei avere il libro del Maturi: l’Idea di Hegel. Me lo potresti far spedire quassù? – Non mandarmi al diavolo...».
(Alessandro Casati, lettera a Giuseppe Prezzolini, [Zermatt] 28 luglio 1910, p. 165)
«La Bib. Fil. è chiusa. Però c’è Ferrando e proverò».
(Giuseppe Prezzolini lettera a Alessandro Casati, Firenze 1° agosto 1910, p. 168; in quegli anni Guido Ferrando era direttore della Biblioteca filosofica di Firenze)
«come va? A che cosa devo il tuo silenzio? Verrai a Firenze a tenere una conf. alla B.[iblioteca] F.[ilosofica] come mi dice Ferrando?».
(Giuseppe Prezzolini lettera a Alessandro Casati, Firenze 3 novembre 1910, p. 226)
«Contavo venire a Firenze in questi giorni, ma dovrò forse rimandare la mia gita a mezzo novembre».
(Alessandro Casati, lettera a Giuseppe Prezzolini, Milano 4 novembre 1910, p. 227)
Prezzolini-Croce (1907)
«Caro Croce,
per caso avrebbe lei, o ci sarebbe nella Bibl. Naz. di Napoli la raccolta dei Monatshefte der Comenius-Gesell.[schaft]. A me occorrerebbero, se mai, l’anno 1886, e l’anno 1902, per lavori che riguardano la Deutsche Theologie.»
(Giuseppe Prezzolini, cartolina a Benedetto Croce, Perugia 8 aprile 1907, p. 74. L'anno 1886 dovrebbe essere una svista, dato che la rivista iniziò nel 1892).
«Cariss. Prezzolini,
non vi risposi subito, ma feci ricerca dei Monatshefte der Com.[enius] Gesell.[schaft], e non li trovai nelle biblioteche di qui.»
(Benedetto Croce, cartolina a Giuseppe Prezzolini, [Napoli] 18 aprile 1907, p. 75. Secondo l'Elenco delle pubblicazioni periodiche straniere acquistate dalle biblioteche pubbliche governative del Regno d'Italia, anno 1913, compilato dal dott. Giuseppe Gulì, Roma, Loescher, 1915, il periodico non era posseduto da nessuna biblioteca statale italiana).
Prezzolini-Croce (1910)
«Ho parlato con [Romain] Rolland a Parigi che mi ha detto, fra le altre cose, che la biblioteca musicale di Napoli si trova in uno stato indecente, e che a un suo scolaro, ora in Italia, certo Prumes [?] vengono [sic] rifiutato ogni manoscritto. Rolland che conosce bene le biblioteche musicali di Italia dice che bisognerebbe far cessare questo sconcio, il quale permette anche la facile emigrazione in America di preziosi manoscritti musicali. Nessun controllo viene esercitato. Appena io avrò documenti aprirò una campagna. Intanto ho consigliato lo scolare di Rolland a rivolgersi a lei. E le sarò grato se lei mi saprà dire qualche cosa della questione, forse non nuova neppur per lei.»
(Giuseppe Prezzolini, lettera a Benedetto Croce, Firenze 27 marzo 1910, p. 246)
«Carissimo amico,
[...] Ciò che dice il Romain Rolland non mi stupisce. A capo del Conservatorio di Napoli è un eccellente gentiluomo, di specchiata probità, il Duca del Balzo, il quale, per altro, ha cieca fiducia nel bibliotecario Rocco Pagliara: una mia vecchia conoscenza, che non sono riuscito a conoscere ancora bene. Certo, è geloso, puntiglioso, prepotente, e diffidente. Né ha mostrato mai di aver competenza negli studi di storia musicale. Se lo scolaro del Rolland si dirige a me, procurerò di appianare le difficoltà, adoperando un po’ di diplomazia. Magari, potrò condurlo io stesso dal Pagliara, e, se sarà il caso, dal Del Balzo»
(Benedetto Croce, lettera a Giuseppe Prezzolini, [Napoli] 28 marzo 1910, p. 247)
Prezzolini-Marrucchi (1906-1909)
«Il mio Eckhart sia che lo renda alla Bib[lioteca di] S[cienza] F[ilosofia] R[eligione], o lo tenga io, sarà sempre a tua disposizione.
In Bibl. Naz. esiste il Preger? e quali altre opere di mistici tedeschi? Hai veduto una collezione di testi tedeschi medievali edita dal Denifle? C'è in B. Naz. il solo titolo generale e non so cosa contenga.»
(Giuseppe Prezzolini, lettera a Piero Marrucchi, Perugia 9 dicembre 1906, p. 27-28. Per Eckhart, Prezzolini si riferisce probabilmente alla traduzione in tedesco moderno del 1903, posseduta dalla Biblioteca filosofica).
«Grazie anche del M. Eckhart; avendone bisogno ne profitterò. Il Pfeiffer c'è anche in Bibliot. Naz., 2° volume dei Deutsche Mystiker des 14ten Jahrhun. (il 1° vol. contiene scritti di Hermann von Fritslar, Nicolaus von Strassburg, David von Augsburg). Il Preger, ch'io sappia, non c'è.»
(Piero Marrucchi, lettera a Prezzolini, Firenze 17 dicembre 1906, p. 29).
«Caro Prezzolini,
credo di aver lasciato a casa tua Kokoro di Hearn, che avevo preso dalla biblioteca di P. [piazza] Donatello. Potresti, se ti capita di passare da Borgo Albizi, lasciarlo al mio studio?»
(Marrucchi, cartolina a Prezzolini, Gaville 14 ottobre 1907, p. 42. Marrucchi si riferisce probabilmente alla recente traduzione italiana, ma la Biblioteca filosofica possedeva anche un'edizione in inglese).
«Caro Marrucchi,
a Cecchi occorrono per ragioni di biblioteca i due volumi del Preger. Fa di mandarli più presto che puoi a lui o a me, o di lasciarli allo studio dove ripasserò.»
(Prezzolini, lettera a Marrucchi, [Firenze dicembre 1907], p. 48. Non risulta a quale biblioteca Cecchi dovesse restituirli).
«Troverai le bozze in biblioteca [Biblioteca filosofica].»
(Prezzolini, biglietto a Marrucchi, [Firenze 12 ottobre 1909], p. 50).
«Il tuo ms è in tipografia e lunedì ne avrai le bozze alla B[iblioteca] F[ilosofica].»
(Prezzolini, cartolina a Marrucchi, Firenze 14 ottobre 1909, p. 51).
«Ti prego di lasciarmi una risposta alla Biblioteca Fil.»
(Marrucchi, lettera a Prezzolini, [Firenze circa 1909], p. 60).
Provenzal (1925)
«Il mio ottimo Padre, un po' nella speranza d'arrotondare il magro stipendio e molto per appagare il suo gran desiderio di palpar libri, sfogliarli, averli vicini a sè, fondò, più di cinquanta anni fa, una libreria circolante che i vecchi rammentano ancora a Livorno. Ma dovette chiuderla presto perchè gli affari andavano a rotta di collo; nella mia infanzia è un ricordo quella libreria morta prima ch'io nascessi e di cui restavano tracce nelle migliaia di volumi accumulati in ogni stanza e in ogni mobile di casa, in armadi, cassapanche e credenze, in salotto, in cucina e in soffitta.
[...]
Voi tutti amate i libri perchè sono utili? Va benissimo: ed io, appunto perchè siano utili, li uso, non li serbo [...]: quando di un'opera ho spremuto il sugo, ho copiato ciò che mi occorre, ho scritto -- se proprio non posso farne a meno -- ciò che ne penso, per quale ragione debbo tenerlo [!] lì mentre forse altri la desiderano o forse ne hanno bisogno?
Via, via! La sua sorte è segnata. O lo regalo alla Biblioteca Labronica per devozione di figlio (lì, come ogni uomo di famiglia desidera la trattoria, feci le mie prime letture di adolescente provandoci più gusto che nella ricca biblioteca paterna), o lo presto a qualche persona di quelle che hanno l'uso di non restituire i libri ricevuti, oppure lo brucio.
Ho detto proprio così: «lo brucio»: e prego i bibliomani di non scandalizzarsi. Nessuno più di me è persuaso che anche in libri mediocri si può imparar qualcosa e che il libro di cui non so che farmi io può servire benissimo ad altri, ma quando ho tra le mani un mucchio di scipitaggini pornografiche che è vergogna regalare ad un amico e delitto far catalogare in una pubblica biblioteca io strappo le pagine a una a una e le appallottolo per ficcarle poi nella stufa. [...]
Alla Labronica vanno specialmente gli opuscoli, i libri rari, gli esemplari con dedica, quelli che un giorno sarà difficile trovare allo studioso ed è bene perciò siano collocati stabilmente in un luogo sicuro, in una specie di banca. Il paragone m'è stato suggerito dall'avere osservato che se uno non paga un debito ad un amico è appena un uomo scorretto, se non paga ad una banca è un ladro: così, chi non restituisce un libro avuto in prestito ad un privato è un uomo medio normale, mentre colui che non fa il proprio dovere verso la pubblica biblioteca vede davanti a sè gendarmi, tribunale, carcere e, nella migliore ipotesi, il nome e cognome infamato nel Bollettino della Istruzione pubblica.
Ma i più dei libri sono quelli che presto agli amici non dicendo loro «teneteveli», ma affidandomi al destino che ne sa più di noi. Qualcuno ritorna, ogni tanto, e quasi sempre nel momento meno opportuno [...].
Poi il libro è restituito o, assai più facilmente, è prestato col consenso (o senza) dell'amico prestatore, e così gira di mano in mano finchè lo riceve il barroccino del rivenditore d'onde passa in altre mani meno aristocratiche. Naturalmente anche questa seconda esistenza ha una fine, quella che per gli uomini è più dolorosa e per i libri più bella: finisce allo spedale o in galera: ossia reca un conforto alle ore nere della cella, alle ore bianche della corsia, interminabili le une e le altre: e agli uomini che per colpa o sventura hanno perduto la libertà non racconta la vita vera, quella che è al di là del cancello e ch'essi ricordano con tristezza, ma una vita come la rappresentano gli scrittori [...]».
(Dino Provenzal, Una grande libreria circolante, p. 5-7. L'autore ripubblicò questo articolo nel suo volume Il libro del diavolo, Milano, La Cardinal Ferrari, 1928).
Raimondi (2012a)
«Il libro rappresentava così una sorta di salvatore, un compagno che mi conduceva in un paesaggio diverso. Anche i primi libri di lettura sono stati i libri di scuola: quelli della scuola elementare prima e della scuola superiore dopo. In quegli anni il libro scolastico – il primo e per un certo tempo l'unico disponibile – non era contrapposto al libro di fantasia: era la fantasia ordinata, che permetteva di crescere via via, pezzo dopo pezzo. La prima immagine della biblioteca si lega nella memoria a una bibliotechina di classe: ricordo ancora una lettura azzardata de Il circolo Pickwick di Dickens, di cui capii molto poco; probabilmente gli insegnanti avrebbero dovuto optare per un'introduzione... ma comunque la letteratura ispirava lo stesso, dava le sue impronte, le sue ragioni, i suoi impulsi, i suoi movimenti, le sue aperture. Sta di fatto che il libro scolastico aveva per me questa funzione, anche fantastica, e non lo avvertii mai come alternativo allo sbrigliarsi dell'immaginazione infantile. L'immaginazione infantile si riversava nel libro scolastico e il libro scolastico diventava il luogo del colloquio con un amico maggiore. [...]
Il punto di partenza di questa avventura del senso, l'unico ancoraggio possibile, è la biblioteca, cui sempre si ritorna. Da questo punto di vista si è come il personaggio mitico che ritraeva forza dal toccare terra; la biblioteca è la terra del ricercatore: essa ridà forza, ridà idee, è l'umanità convenuta per servirti, per darti una mano. Solenne e domestica, la biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina.
La scuola mi aveva presentato le bibliotechine di classe, con letture fatte per comando o per scelta deliberata e personale, ma il rapporto con la biblioteca pubblica venne più tardi, quando entrai nel mondo dell'università. In verità il primo incontro risale agli anni dell'istituto magistrale. Ero andato all'Archiginnasio per consultare un libro segnalatomi da un professore – che era un professore colto: il libro era La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz. Entrai nella grande sala di lettura, con il lungo bancone dei prestiti in fondo, e mi trovai di fronte un bibliotecario arcigno che si chiamava Morara – era anche lui un uomo di qualità, un personaggio, a suo modo un'istituzione. Alla mia richiesta, disse in tono minaccioso: «Perché vuoi vedere questo libro?». Ed io, con una voce fievole – forse avevo ancora i calzoni alla zuava – risposi: «Perché me lo ha consigliato il mio professore!». Non poteva credere che fossi un attore così consumato e quindi il libro mi venne concesso. Quando lo ebbi in mano capii il motivo di quella interrogazione sospettosa: fra le tavole del libro vi era la riproduzione della danza di Salomé di Gustave Moreau. Ma dopo questo episodio isolato, l'esperienza della biblioteca in senso pieno, e la percezione iniziale di essa come di un mistero costruito, avvenne, dicevo, quando entrai all'università, nel 1941. A quel tempo facevo spesso supplenze da maestro elementare e le lezioni universitarie mattutine non le sentivo. Il caso volle che alcuni corsi pomeridiani fossero di grande qualità. [...] Costume di [Pietro] Ferrarino era di segnalarci i libri senza darcene la chiave, ma presentandoli semplicemente come possibili aperture culturali, affidate alla curiosità e alla buona volontà di chi ascoltava. Fra questi, citò un libro di Devoto, Storia della lingua di Roma [...]. Ricordo che mi presentai al bancone del prestito della biblioteca universitaria – era la prima volta che salivo lo scalone monumentale, che per me, che venivo da un mondo popolare, aveva qualcosa di aristocratico e di esaltante – e chiesi il volume di Devoto. Lo ottenni ed entrai nella grande sala di lettura, fra le arcate alte e le luci che si piegavano sui tavoli, con un odore unico di paraffina o di petrolio, di pulizia. E, di là dal libro di Devoto, di cui non capivo quasi nulla, mi resi conto che il rapporto con la cultura è sempre un rapporto col nuovo che ci permette di conoscere e, nello stesso tempo, di imparare ad accettare i nostri limiti e a combatterli. Prima e più dei libri mi colpì l'apparato che mi stava intorno: questa specie di solennità intima, silenziosa, con le teste chine sopra il libro e una sorta di stupore, dinanzi alla profusione architettonica dei locali, testimonianza di un grande Settecento che arieggiava il Rinascimento. Era come se la storia, consegnata a un edificio, investisse il ragazzo, non ancora diciottenne, che per la prima volta si iniziava al mestiere della biblioteca. «Che cosa passa per la testa di quelle persone che leggono, ostinatamente, piegate sul tavolo e immerse in un nuovo cielo, dimentiche di tutto il mondo circostante?», come avrebbe detto Rilke, di cui solo più tardi avrei letto le pagine straordinarie del Malte sulla Biblioteca Nazionale di Parigi. I gomiti poggiati sul tavolo, la tenacia e, magari, la comprensione limitata che mi veniva dal libro severo; e intorno a quel tavolo, un mondo fatato, dove le luci delle lampade, che sembravano provenire da un'operazione magica, proiettate sulle pagine, facevano uscire i libri dal buio e lo sfogliare lento pareva dettare il ritmo di un silenzio persistente, nel quale la parola tanto più parlava quanto più era muta.
Quella fu la prima conoscenza della biblioteca. Anche in quel caso, l'occasione era stata il piccolo dovere scolastico, una ragione modesta che schiuse una realtà nuova e produsse un evento i cui effetti erano destinati a permanere nel tempo; dopo di allora, a mano a mano che raccoglievo volumi e prendeva forma la mia biblioteca, c'era sempre quel profumo che mi portavo dentro, era sempre quella luce ad accendersi, quel silenzio gravido di parole nuove e di colloqui possibili a prolungarsi. Consegnato per sempre alla memoria, il primo incontro seguitò a ravvivare i nuovi contatti con i libri, e accompagnò il crescere di statura e di passo di un'esperienza che si andava facendo più diretta e più motivata. Così la biblioteca diveniva l'universo del sapere, da esplorare pezzo dopo pezzo, secondo le scoperte e le opportunità più diverse; il libro non era più quello scolastico, il manuale modesto, bensì l'opera del grande studioso, il grande classico. Ma il processo intellettuale, e l'innesco emotivo dello stupore e dell'avventura, restavano gli stessi.»
(Ezio Raimondi, Le voci dei libri, p. 10-11, 19-21).
Raimondi (2012b)
«Non ricordo esattamente quando ho parlato la prima volta con Giuseppe Guglielmi. Ricordo invece l'immagine di lui stazionante nella piccola biblioteca della facoltà di Lettere, poco più di un appartamento. Siamo nei primi anni del dopoguerra. Mi colpiva questo giovane non molto voluminoso che, rannicchiato, leggeva in una tensione continua, evidente nella pressione dei gomiti sul tavolo, neanche dovesse sfondarlo. Come passassi dall'osservazione al primo colloquio, non so dire. So dire invece che furono i libri a stabilire il contatto. Aveva alcuni volumi di Gallimard, di poeti e prosatori, che lasciavano intuire una cultura francese diretta ed estesa, fuori dal comune per un giovane laureando, in tempi in cui non era facile procurarsi libri stranieri.»
(Ezio Raimondi, Le voci dei libri, p. 81).
Ravera (1961)
«Ho conosciuto soltanto le carceri fasciste femminili e devo dire che, a parte i carceri giudiziari dove il trattamento fatto alle donne era pressoché uguale a quello degli uomini, nelle case penali femminili, invece, c'era una differenza di situazione abbastanza notevole. Gli antifascisti maschi erano molto più numerosi nelle carceri, quindi potevano fare una vita in comune, sviluppare dei dibattiti, studiare, continuare anche lì la loro vita e la loro lotta. Le donne invece, dato il numero esiguo delle detenute politiche, si trovavano in genere isolate e raramente s'incontravano.
Nelle case penali femminili di Trani, Perugia e Venezia la custodia e la funzione di guardia carceraria erano affidate alle suore. La madre superiora era capoguardia, mentre il direttore aveva un'influenza molto limitata nella vita interna del carcere. Come era questo mondo? Come lo trovai a Trani, dove arrivai con una condanna di quindici anni di reclusione? [...]
Alle antifasciste carcerate si presentavano due problemi: il primo era quello del libro. In queste case penali non esistevano biblioteche; le suore sostenevano che nessuna detenuta aveva mai chiesto un libro. In fondo esse erano contrarie all'introduzione di libri nel carcere. Anche all'ordine d'insegnare a leggere e scrivere alle detenute analfabete, le suore fecero una lunga opposizione: c'era in loro l'idea radicata e candidamente sostenuta che era meglio che le donne non imparassero nemmeno a leggere. Nell'opinione delle suore, noi antifasciste eravamo diventate ribelli all'autorità perché avevamo imparato a leggere e avevamo letto dei libri che ci avevano deviate e corrotte. La nostra divenne una vera battaglia, anche perché per il riconoscimento ad avere dei libri né il Ministero né l'Ovra, che ci perseguitava, avevano interessi ad aiutarci. Trovai aiuto nel direttore del carcere, che era in fondo un'onesta persona: potevamo richiedere dei libri a qualche casa editrice, ma i libri sarebbero stati conservati dal direttore e consegnati uno o due alla volta a me e alla mia compagna di cella [Felicita Ferrero]. Ci fu concessa anche un'ora di scrittura al giorno sotto la sorveglianza di una suora che ritirava poi il quaderno e lo portava al direttore perché leggesse e verificasse ciò che avevamo scritto.»
(Camilla Ravera, Nelle carceri fasciste, in Trent'anni di storia italiana, p. 142-144)
Rea (1979)
«Al Gabinetto Vieusseux mi lega un ricordo fondamentale della mia vita di uomo e di scrittore. Nel lontano 1950 vi andai a leggere un saggio che decise il mio rapporto con Napoli e con il suo complicato e misterioso mondo. Recava per titolo: «Le due Napoli» e per sottotitolo: «sul carattere dei napoletani». Uno stato di allegria e quasi di felicità si spezzava e veniva ribaltato in un emisfero tetro dove le cose da guardare non permettevano che impressioni drammatiche. Da quel momento capii che non potevo scherzare in alcun caso con gli orrori del luogo comune che gravitano su quella città, più che cantabile, canzonabile... E ad avviarmi lungo questa strada non erano stati gli scrittori e i filosofi napoletani, ma il Boccaccio, che da Napoli prese molto – certa grandiosa teatralità, alcune nervature rapide dei suoi dialoghi – e che a Napoli diede la più sicura e leale interpretazione, tuttavia valida, con quel terribile, brulicante spaccato che va sotto il nome di Andreuccio da Perugia.
Napoli, dunque, raggiunta via Firenze e il Gabinetto Vieusseux – un mito dei miei verdi anni – conquistato, attraversando Napoli sotto la vigile guida di Messer Giovanni.
A invitarmi era stata Donna Lucia Lo Presti Longhi, questa grande scrittrice italiana e lo stesso inimitabile e irripetibile maestro di prosa Don Roberto, suo marito. Furono giorni vissuti in sogno. Avevo gambe lunghe, leggere come quelle degli astronauti. Ospite della Villa dei Longhi in via Fortini 30 e animato alle più grandi speranze dai conversari folgoranti di Don Roberto e di Donna Lucia, la mattina andavo al Vieusseux dove mi legai anche di affetto, essendovi già la stima, con Betocchi, Bonsanti, Parronchi, Rosai, Umberto Benedetto, legame variamente interrotto dalla distanza, ma non illanguidito dal tempo, dai ricordi e dal comune e laborioso amore per le ingrate lettere.
Firenze per me significava la Villa dei Longhi e il Gabinetto sito in Palazzo Strozzi. E ogni qualvolta vi ritorno, anche in privato e come di nascosto, non mi è possibile non andarvi a passeggiare dattorno; casomai fingendo di recarmi a comprare una cravatta nella ditta Principe dirimpetto. Un così antico istituto dove i nostri bisavoli confabularono sul Risorgimento e trattarono di grammatica e di odi saffiche, alcaiche, tropeiche e anarime, a me sa di giardino incantato, di sfrenata, ardente giovinezza, ahimè, finita in uno sciupìo di giorni, di tra il cinico e il ferino, che nessuno ci invidia.»
(Domenico Rea, in: Testimonianze e ricordi sul Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux, 1979, p. 9-10).
Ricci (1914)
«Benissimo! la sua entrata nella Classense è una festa per me. Da parecchi anni io non mi sentivo più di frequentarla, quantunque avessi per quei libri e quelle sale, un'adorazione antica. Fra l'altro, io amavo di leggere i libri, che avevo chiesto, nella cameretta dei Ravennati, presso la finestra con d'innanzi il placido spettacolo della campagna fertile e i lontanissimi Appennini. Ebbene: mi si negava ciò come al primo capitato o al più indisciplinato scolaretto. Ciò mi disgustava: ma Ella mi lascierà a quel posto. Appena avrò ricevuto l'elenco delle cose mie che la Classense possiede, manderò le mancanti. E saranno molte. Garantito!».
(Corrado Ricci, lettera a Santi Muratori del 3 gennaio 1914, citata in Giuseppe Cortesi, Corrado Ricci amico del libro, p. 141-142. Muratori era stato nominato direttore della Biblioteca Classense poco tempo prima e in seguito Corrado Ricci donò alla biblioteca i suoi libri e le sue carte).
Ricci (1924)
«Nella magnifica biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna càpita, o almeno capitava a' miei tempi, un numero su per giù uguale di lettori, cui era grato, sollevando lo sguardo dai libri per un po' di riposo, riguardare i vivaci trionfi araldici che riempiono le pareti di targhe, di animali, di fronde, di stelle, di fascie, di cimieri, d'iscrizioni.
Invece nella sala di lettura della Biblioteca Universitaria (più che nuda, squallida) il numero dei frequentatori variava sempre (e certo varia ancora) a seconda delle vacanze e degli esami, del caldo e del freddo della stagione. Il freddo, più ancora degli esami valeva a riempire la sala riscaldata, di studenti, tolti spesso all'indugiare nelle vie da un metro di neve e da una temperatura siberiana; ma poi al primo tepore di maggio ben preferivano starsene per le vie piene di gente o andarsene pei bellissimi colli che fiancheggiano, dalla parte di mezzogiorno, tutta la città.
Col luglio, infine, l'Università rimane deserta, e deserta, di conseguenza, anche la sua Biblioteca. D'altronde il caldo, che là non è da meno, per ferocia, del freddo, caccia da Bologna quanti possono sfuggire a' suoi portici, che riparano bensì dai raggi del sole, ma anche dal benefizio di un po' d'aria mossa e ventilata.
Eppure v'era allora un uomo libero, ricco, padrone di sè, d'una villa e d'una campagna, il quale preferiva soffrire nell'afa cittadina e nel tropico d'una saletta della Biblioteca universitaria esposta a mezzodì, piuttosto che permettersi il più ragionevole svago, al solo scopo di registrare quanti più mostri poteva, ricordati o descritti dalle storie e dalle cronache.
Quell'uomo era Cesare Taruffì professore d'anatomia patologica nell'Ateneo».
(Corrado Ricci, Ricordi bolognesi, p. 39-40).
Ridolfi (1957)
«Finchè un giorno [Giovanni Papini] non sentì dire da un ragazzo più grande che c’erano dei luoghi dove si poteva leggere qualunque libro senza spendere nulla, e averne anche più d’uno per volta, e che quei favolosi Bengodi erano le biblioteche pubbliche, ricche non a centinaia, ma a centinaia di migliaia, a milioni di volumi.
Mosse allora alla conquista della Biblioteca Nazionale [di Firenze], che era quella che ne aveva di più; ma fu sulle prime ributtato a causa dell’età. La storia di questo assedio alla città dei libri bisogna sentirla raccontare da lui sulle pagine di un suo libro famoso [Giovanni Papini, Un uomo finito, Firenze, Libreria della Voce, 1913]. Quando, poco più che tredicenne, dopo un intiero anno di assalti e di temporeggiamenti, l’ebbe finalmente espugnata per inganno, fu come un lupo digiuno capitato in mezzo a uno sterminato armamento. Ma non se ne saziò mai: tutt’al più ne fece memorabili indigestioni. [...]
Così il primo libro che chiese quel memorabile giorno, come ebbe espugnato la Nazionale, fu proprio il trattato di Giovanni Canestrini, La teoria dell’evoluzione esposta nei suoi fondamenti. E valeva di prenderne nota, come conferma che solamente un’ansia, una curiosità sfrenata continuavano a regolare, o piuttosto a non regolare affatto, la voracità del bibliofago in erba. Senza voler precorrerne le opere e i giorni, questa tendenza onnivora fu per Giovanni Papini edificazione e distruzione, rovina e salvezza.
Basta vedere le prime prede che azzannò quando fu nel bel mezzo di quel chiuso che ho detto; senza una guida, senza una disciplina, senza un disegno nè, si può aggiungere, un’istintiva regola. Veramente un disegno l’aveva: «saper tutto»; e non sapendo nulla, neppure da che parte rifarsi, sfarfalleggiava da questo a quel libro, secondo le voglie e la fantasia. Finchè, ahilui!, imparò a sfarfalleggiare su quei surrogati di ogni libro che sono le enciclopedie; e tanto lo inebriarono che gli venne addirittura la voglia di compilarne una lui, da solo, a quindici anni. Ed eccolo, ogni giorno libero dalla scuola, o dopo la scuola, in quella o in altre biblioteche cittadine, alla luce dei finestroni o delle lampade ad arco, scarabocchiare enormi quantità di schede e di appunti che la notte nella sua cameretta di ragazzo povero ricopiava in bella scrittura a lume di candela, forzando gli occhi sempre più stanchi, sempre più miopi. Arrivato all’articolo su Achille, certe parole incomprensibili greche lo umiliarono: graecum est, non legitur! Fu un salutare ammonimento e per poco non si ritirò come l’eroe sotto la tenda. Lo salvarono del tutto la sopraggiunta stanchezza e, forse più che un rinsavimento, l’irrequietezza della sua indole. Lasciò dunque l’impresa dopo qualche mese di furioso lavoro; ma il gusto dell’enciclopedie e dell’erudizione raccogliticcia gli doveva restare per tutta la vita.»
(Roberto Ridolfi, Vita di Giovanni Papini, p. 27-30. La testimonianza riassume fedelmente il racconto autobiografico di Papini pubblicato in Un uomo finito).