L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Togliatti (1935)
«Dobbiamo ricordarci che il Dopolavoro è l’organizzazione piú larga del fascismo, che la nostra tattica deve essere piú larga che altrove perché, dato il modo in cui il Dopolavoro è organizzato, noi possiamo legare a noi degli strati piú larghi di lavoratori che in altre organizzazioni. [...]
Ma a parte questa considerazione, se noi prendiamo la via dell’astensionismo, la via della disgregazione, noi ci togliamo una possibilità di fare un lavoro organizzativo tra la massa dei giovani lavoratori, e non solo dei giovani, ma dei lavoratori in generale, per i quali una biblioteca è qualche cosa, una gita ecc. è qualche cosa e aderiscono a questa organizzazione. Se noi prendiamo questa posizione, ci tagliamo dalle masse.
La nostra linea dev’essere quella dell’entrata nel Dopolavoro senza scrupoli e senza riserve. [...]
La linea fondamentale che noi seguiamo oggi è quella della conquista delle organizzazioni del Dopolavoro da parte dei lavoratori. [...]
Nel primo campo abbiamo fatto molto poco. [...] Poco, per esempio, nel campo culturale. Pochi sono i casi di compagni i quali abbiano cercato di organizzare una biblioteca con libri che abbiano un contenuto di classe. Pochi, ma anche in quei pochi casi in cui ciò si è fatto ci si è fermati a mezza strada. Bisognava fare un lavoro culturale, dare a leggere e spiegare i lavori di Gorkij, Tolstoj ed altri che possono oggi avere in Italia un contenuto sovversivo ed opporre le idee contenute in questi libri alle idee del fascismo. Si possono creare dei conflitti anche su questo terreno; è però difficile. [...]
Bisogna chiedere nelle biblioteche dei libri che parlino dell’Urss. In Italia ve ne sono molti legali. Iniziare una discussione sulle questioni sovietiche. Si crea cosí una forma legale e semilegale di organizzazione degli amici dell’Urss.»
(Palmiro Togliatti, Corso sugli avversari: le lezioni sul fascismo, p. 107-108, 110-112 (Lezione VII: Il Dopolavoro, tenuta il 5 febbraio 1935). Le Lezioni sul fascismo furono pubblicate per la prima volta nel 1969 nella rivista «Critica marxista» e poi nel 1970 in volume).
Togliatti (1954)
«A distanza di tre anni dal libro di Luigi Dal Pane [Antonio Labriola: la vita e il pensiero, prefazione di Gioacchino Volpe, Roma, Edizioni Roma, 1934], nel 1938, venivano però ripubblicati, a cura di Benedetto Croce, i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia, opera fondamentale, allora da anni e anni esaurita e scomparsa anche dalle biblioteche, e di cui solo il primo era stato ristampato nel 1934, in una collana scientifica.»
«La rivista A.B.C., diretta da Giuseppe Bottai, protesta, in una sua noticina, contro l’affermazione, da noi fatta nel numero passato, che “per almeno quarant’anni, a partire dalla morte di Antonio Labriola in Italia quasi non si è parlato ecc.”. Ci rinfaccia, per smentire questa constatazione da noi messa in diretto rapporto col dominio del fascismo nella vita politica, quelle pubblicazioni, avvenute durante il “ventennio”, di cui noi stessi abbiamo scrupolosamente reso conto. [...] Infine, è vero che in una collezione scientifica diretta dallo stesso Bottai uno scritto del Labriola fu compreso, in un volume che raccoglieva scritti sulle questioni sociali; ma è altrettanto vero che il cittadino il quale si fosse fatto dare in lettura quel volume in una pubblica biblioteca, era segnalato alla pubblica sicurezza e al fascio. Di solito andava al confino, dove i testi del Labriola circolavano con maggior libertà.»
(Palmiro Togliatti, Per una giusta comprensione del pensiero di Antonio Labriola: nel cinquantesimo anniversario della morte, «Rinascita», 11 (1954), n. 4, 5, 6 e 7. La convinzione che chi leggeva nelle biblioteche testi politicamente pericolosi anche se non vietati fosse, durante la dittatura fascista, controllato e segnalato alla polizia era largamente diffusa. Tuttavia non sembrano essere emersi finora riscontri concreti e specifici di quel fenomeno).
Tomizza (1981)
«Nel giugno 1976, consegnato all'editore il romanzo La miglior vita, al quale mi aveva indotto la lettura stimolante e traumatizzante del registro dei morti nella mia parrocchia, presi a interessarmi del movimento luterano in Istria, sorto in parte spontaneo e in parte sviluppatosi in seguito all'apostasia di Pier Paolo Vergerio, vescovo di Capodistria, e all'azione di altri ecclesiastici riformati [...].
Il primo incitamento lo avevo ricevuto da uno scritto inedito di Pier Antonio Quarantotti Gambini, comparso postumo sulla rivista Trieste, nel quale lo scrittore capodistriano sosteneva tra l'altro che al tempo della Riforma la nostra terra di confine "aveva espresso davvero qualcosa del suo carattere [...]" . Non molto tempo dopo uscì l'affascinante saggio Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg [...].
Nella Biblioteca civica di Trieste riuscii a scovare i primi numeri della rivista Atti e Memorie della Società istriana di archeologia e storia patria, recanti i verbali di dibattimenti a carico di alcuni eretici di Dignano e persino un elenco di tutti i processi indetti dall'Inquisizione veneta contro persone originarie dell'Istria e della Dalmazia. All'Archivio di Stato di Venezia, che dedica un reparto ai documenti di quel Sant'Uffizio, fui pertanto in grado di ampliare l'indagine sul movimento della setta di Dignano animata da maestri artigiani e persino da preti e loro figli di origine greca, trasferitisi sulla costa veneta dell'Istria in seguito all'occupazione delle loro terre da parte dei Turchi. [...]
Il prezioso elenco portatomi a Venezia non comprendeva soltanto processi per casi di protestantesimo dibattuti nella seconda metà del Cinquecento; indicava con gran diligenza anche quelli successivi di oltre un secolo e aventi per oggetto i reati più ricorrenti nell'universo contadino: stregherie, sortilegi, abuso di religione, concubinato da parte di ecclesiastici, seduzione in confessione, ecc. Fra tutti questi, una volta ultimato il mio studio, avrei dato un'occhiata agli atti di una causa riassunta nel titolo Finzione di santità e sostenuta contro una Maria Jani da Vertova.»
(Fulvio Tomizza, La finzione di Maria, p. 201-203).
Torraca (1907)
«Mi piace che siate nella «turrita Cesena». Avete veduto già la Malatestiana e conosciuto forse il cav. [Nazzareno] Trovanelli, stimabilissima persona, illustratore della storia cesenate. Non trascurate di farvi portare ai Cappuccini, e fate una gita a Cesenatico, non solo per vedere quella graziosa cittaduzza, ma anche per mangiarvi il brodetto di pesce. [...]
La signora Angelina sarà contenta di trovarsi nella sua Romagna e di farvi un po' da cicerona. Mi auguro che v'ispiri l'idea di salire a Bertinoro, donde potrete con l'occhio abbracciare tutta la bella terra «tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno».»
(Francesco Torraca, lettera a Benedetto Croce, Cava dei Tirreni 7 settembre 1907, p. 147-148).
Tozzi (1907)
«[Roma] 7 marzo 1907.
........... Ho studiato assai in biblioteca, e sono quasi a raggiungere il nuovo mondo, che sentivo muoversi dentro di me. Vorrei che tu credessi come io a qualche cosa di nuovo che io porterò nel pensiero. Leggendo, ora mi tornano tutte le sensazioni, che prima si perdevano in tutto il male che era penetrato fino alle ossa della mia anima.»
(Federigo Tozzi, Novale, p. 80. La prima edizione di questa scelta di brani di lettere alla fidanzata, curata dalla vedova Emma, fu pubblicata da Mondadori nel 1925).
«22 marzo 1907.
[...]
Ma che fa lo studiare, e la Biblioteca?.............
Non devo studiar più, come studia – per esempio – un professore; cioè per sapere. Conviene che studi come prima, cioè torni a vedere ciò che mi è intorno. Questa sala non mi deve interessare se non come un oggetto della mia attenzione creatrice. Ma devo aver pazienza che si combinino insieme tutti i frammenti disparati che ho nella mente. Allora sorgeranno le idee...........»
(ivi, p. 88, dalla Biblioteca nazionale di Roma).
Tozzi (1907-1908)
«[Siena] Ancora 13 giugno 1907.
[...]
Più che l'amore non c'è. L'inchiostro s'è appastato dentro i calamai. In media vanno tre lettori il giorno. E che lettori!.......»
(Federigo Tozzi, Novale, p. 109-110, dalla Biblioteca comunale di Siena. La prima edizione di questa scelta di brani di lettere alla fidanzata, curata dalla vedova Emma, fu pubblicata da Mondadori nel 1925)
«15 giugno 1907.
[...]
Ma in Biblioteca io studio bene. La gente non dà noia. Solamente gli impiegati non hanno molta garbatezza! E poi, quando voglio trovare un libro, bisogna che, stando col naso su la spalla dell'impiegato che sfoglia le schede, agguanti con gli occhi il nome dell'autore, mentre che sta per sparire. Non so se m'hai capito. E gli autori, che domando io, non sono molto noti. Conviene che li presenti scritti all'impiegato, il quale, brontolante un poco, se ne va allo schedario. Per trovare il Bartsch, dovetti bisticciare quasi.
Osservare queste cose potrebbe essere bene. Ma non le so scrivere!
[...]
Che pasticci... poetici ancora! Da Dante alla Bibbia, dalla Bibbia a Omero, da Omero a Platone, da Platone al Maeterlinck, dal Maeterlinck al Leibniz, e dal Leibniz a Dante e via in un cerchio d'imagini. Mi vergogno perfino a scriverlo. Ne faccio il viso rosso. Ma come mi si potrebbe comandare un certo ordine, se io ho appetito di tutti? In questo momento ho ripensato a Virgilio, e sono stato proprio lì per aprirlo.
[...]
Oggi t'avrei fatta arrabbiare per un certo nome biblico. L'ho dovuto cercare in molti libri, perché in principio non sapevo se fosse biblico o no. Dunque, prima ho dovuto con la mia ignoranza conoscere questo. Poi ritrovarlo in un dizionario scritto in latino. E perché non mi piaceva la spiegazione che ne derivava, ho guardato nell'Enciclopedia italiana e francese, nel dizionario geografico, nel dizionario latino, nel dizionario d'antichità, in quello mitologico, ecc. L'impiegato mi guardava. Sai: tutti questi libri sono in quello scaffale basso che è vicino alla porta, ed io li prendevo di mano in mano che li scorgevo.»
(ivi, p. 110-111).
«3 settembre 1907.
[...]
Il Donati, che ha negato a me i libri ch'egli chiama di lettura amena, quelli del d'Annunzio, dell'Ibsen ecc., li dà, al contrario... ai consiglieri comunali. A que' pochi che vanno in Biblioteca. Naturalmente, gli domanderò se per studiare è necessario essere prima consiglieri. A me li negò per questa ragione: «Li ha letti già, e può far a meno, quindi, di riprenderli!». I consiglieri, si capisce, non li conoscono ancora, e quindi... bisogna che li prendano. Mi pare d'essere molto più giù che a Siena. Si vede che le zucche s'incontrano da per tutto. Rimetto un po' d'onore ai nostri babbi...........»
(ivi, p. 145. Fortunato Donati era il direttore della Biblioteca comunale).
«28 dicembre 1907.
......... Fui fermato dinanzi al Greco dal Rondini, che è il corrispondente della Nazione e uno degli egregi redattori della Vedetta. Il quale mi chiese se avevo letto la sua polemica intorno alla biblioteca, avendogli io promesso, quando ti scrissi delle sciocchezze del direttore, di scrivere qualche cosa...........»
(ivi, p. 197).
«30 dicembre 1907.
Sono in Biblioteca da un'ora. Ma capisco che se voglio lavorare devo studiare meno che mi sia possibile ............»
(ivi, p. 198).
«31 dicembre 1907.
................ i versi che ti son piaciuti sono di Elena Vacaresco........... è una grande poetessa............ Stasera ho letto, in biblioteca, un novelliere del cinquecento: un realista, che m'è piaciuto.............»
(ibidem).
«29 gennaio 1908
[...]
............ Ho intenzione di andare in biblioteca, per leggere un libro molto raro del '400 (l'autore è del '300). La Nave c'è, ma non la leggo, per non disturbare l'ordine dello studio. Ora influirebbe (lo stile) con danno, forse. Leggo le prose scelte. Ho capito che prima di leggere un libro, in questo tempo, devo riflettere se esso mi sia utile o dannoso. E la Nave è troppo differente da quel che leggo qui a casa: Platone.»
(ivi, p. 211).
«23 febbraio 1908.
............ Guarda tu nel Fanfani se c'è fuora = fuori. Poi, se non c'è, io guarderò nel codice dei vocabolarii, nella Crusca. Ti piace questo principio di lavoro? – Trenfiare non c'è, ma lo lascio perché mi piace. Ci guardai l'altra sera.»
(ivi, p. 218).
Tozzi (1908)
«A ventidue anni, Roberto Falchi ebbe una terribile menengite; e perdé ogni segno d’intelligenza.
Che cosa avvenne, dunque? Egli abbandonò il secondo anno dell’istituto tecnico e si dette a vagabondare con altri oziosi, senza avere dinanzi un pensiero di sé. I suoi costumi, e il suo volto improntato dall’idiozia gli suscitarono intorno una curiosità schernevole.
[...]
Roberto Falchi anche andava alla biblioteca pubblica, a chiedere opere di filosofia antica, cui non sapeva leggere.
[Si sedeva presso il bancone della distribuzione, onde gli impiegati, non essendoci se non due o tre lettori, lo guardavano con rispetto e interesse.]
E lì fece amicizia con un decoratore, che s’appassionava ai romanzi di Giulio Verne.»
(Federigo Tozzi, Il musicomane, in Novelle postume, Ospedaletto, Pisa, Pacini, 2009, vol. 1, p. 65-71: 65, 71. Il racconto, scritto nel 1908, fu pubblicato per la prima volta dopo la morte dell'autore, in Le novelle, a cura di Glauco Tozzi, Firenze, Vallecchi, 1963, p. 53-59).
Tozzi (1916)
«Quand’era per finire la sigaretta, sentì bussare. Come se avesse avuto paura, gridò:
– Ora vengo ad aprire! Vengo subito! Vengo subito, veh! Chi è?
Egli sentì ridere, e riconobbe la voce di Livia; una signorina, professoressa, conosciuta alla biblioteca. Infilò la giubba e andò, dopo aver posato la sigaretta sul marmo del cassettone. Livia, ridendo ancora, gli porse l’ombrello bagnato e si guardò le scarpe motose.
[...]
La professoressa escì. Guido si sentì meno triste.
Egli conosceva Livia fin da quando era andata al magistero di Firenze. Durante le vacanze si ritrovavano alla biblioteca comunale; e Guido l’aveva anche aiutata per la tesi.»
(Federigo Tozzi, Una passeggiata, in Novelle postume, 2: 1914-1917, Ospedaletto, Pisa, Pacini, 2009, p. 361-368: 363, 365. La novella, scritta probabilmente nel 1916, fu pubblicata per la prima volta dopo la sua morte, in Le novelle, a cura di Glauco Tozzi, Firenze, Vallecchi, 1963, p. 396-403).
Tozzi (1917)
«Qualche mattina, anzi giorno, sono entrato nella Basilica di San Francesco; a Siena. [...] Dopo ogni cappella la mia esaltazione mistica si faceva sempre più completa; e mi veniva in mente di non escire più dalla Basilica. Tutto il mondo, attorno alle sue alte mura, diveniva sempre più dolce e più religioso. [...] Gli organi cantavano insieme con la mia anima, che fruttificava come un miracolo fatto sopra una vigna. (Certo il ricordo di qualche leggenda manoscritta, letta alla Biblioteca Comunale.) Le campane suonavano, le ore battevano; e tutto era musica.»
(Federigo Tozzi, Bestie, p. 68-69).
Tozzi (1919)
«Francesco Appesi si sentiva sempre più solo. [...]
L'Appesi è impiegato a una biblioteca di Firenze. I suoi baffi sono di un bianco che pare ancora biondo. La calvizie gli ha fatto una fronte che dalla radice del naso gli va fino al mezzo della testa; ha gli orecchi così lunghi che sono alti quanto la testa; è piuttosto magro e ha tutte le dita pelose. Quando parla, fa l'effetto che la voce gli scenda giù da dentro la fronte. [...]
Però, quando egli entra in biblioteca, gli pare che tutti i libri siano vivi e si movano da sé: basta che egli ci pensi. La biblioteca è immensa. Ci sono sale piene di scaffali, che conosce soltanto lui. Le schede riempite da lui, con quella calligrafia tutta filettata, sono state fatte proprio allora; benché siano vecchie di parecchie diecine d'anni. Se confronta le ultime con le prime, egli stesso vede come la sua calligrafia da un anno all'altro s'è cambiata; ma anche la sua calligrafia è una cosa viva, come i nomi e titoli su le costole dei libri. [...]
Ma in biblioteca lo prese una manìa nuova: a ogni libro che gli capitava di vedere, su allineato negli scaffali, aveva bisogno di conoscere a mente quel che c'era scritto. Lo voleva sapere a tutti i costi. Pigliava la scaletta, cavava il libro; e lo leggeva in fretta in fretta, qua e là, come gli capitava. E poi faceva lo stesso con un altro; e poi con un altro; senza smettere mai; finché non gli mancava il respiro e gli occhi reggevano.»
(Federigo Tozzi, Il miracolo, in Opere, p. 1145-1150. La novella fu pubblicata per la prima volta sul giornale «Il tempo» il 4 dicembre 1919).
Trevi (2004)
«Durante le ore più calde del giorno, se avevo la forza necessaria a staccarmi dal letto e dai miei pensieri, che spesso assumevano l'aspetto di paranoie ritmiche e regolarmente cadenzate per interi pomeriggi, me ne stavo spesso alla Biblioteca Nazionale, dove il tempo scorreva silenzioso e l'aria condizionata filava a gonfie vele fino alle sette di sera. L'unico problema era attraversare lo spazio desertico, accecante e infuocato, tra il parcheggio e l'edificio della biblioteca. Più di una volta, procedendo in uno stato di assoluto torpore, mi sono imbattuto in un capannello di persone che soccorreva qualcuno che non ce l'aveva fatta, crollando semisvenuto anche a pochi passi dalle porte a vetro automatiche dell'entrata.
Molta gente, come me, andava lì solo per godersi il fresco, sfogliare distrattamente qualcuno dei libri in esposizione, schiacciare un pisolino nella posizione più dignitosa possibile.
Dopo qualche giorno, mi era venuto in mente di fare delle ricerche, sia sul dio Mitra che sui sotterranei di San Clemente. Sfogliavo i due grossi volumi della massima autorità m materia, l'opera di François Cumont, professore all'università di Leida [ma Gand] e massimo esperto di astrologia e scienze occulte antiche, intitolata Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra, pubblicata a Parigi [ma Bruxelles] tra il 1896 e il 1899. Mi aveva incuriosito, leggendo l'indice topografico alla fine dell'opera, stampata in carta pesante e piena di centinaia di illustrazioni, il numero di bassorilievi e iscrizioni che erano venuti fuori, nel corso del tempo, proprio nella zona che va da piazza Dante a piazza San Giovanni. Una concentrazione di immagini veramente sbalorditiva di questo dio persiano sempre coperto dal suo berretto frigio, sia che emerga dalla Pietra Genitrice, perché il dio fu partorito da una roccia, sia che uccida il Toro. È questa la scena fondamentale dell'arte ispirata a Mitra, l'uccisione del Toro Primordiale, e la si vede anche sulla facciata di Villa Massimo, tra i tanti bassorilievi antichi murati lì dal primo proprietrio, come anche al centro del Mitreo di San Clemente, su una faccia di un cippo quadrangolare [...].»
(Emanuele Trevi, Senza verso: un'estate a Roma, p. 65-66).
Turati (1905)
«Le Biblioteche popolari sono uno dei vecchi dada «riformisti» di chi dirige questa Rivista. Sarà forse una diecina di anni, egli si lasciò intrufolare nel Consiglio di Amministrazione di una vecchia «Società promotrice delle biblioteche popolari» esistente in Milano, sorta con grandi speranze nel 1867, sotto gli auspici del Baravalle, del Cremona, del Fano, di Luigi Luzzatti e di altri valentuomini, che l'avevano, il 12 maggio di quell'anno, solennemente inaugurata, proponendole come ideale i risultati meravigliosi delle Società analoghe dell'Alsazia, del Belgio, della Germania, dell'Inghilterra, dell'America: dei paesi dove fin d'allora si era intesa la potenza del libro come educatore, come consolatore, come tonico dello spirito umano [...].
La «Società promotrice» aveva ben presto però tradite quelle speranze e quegli auspicî; aveva sofferto il destino che in Italia – per mancanza di tenacia, soprattutto – colpisce la più parte delle istituzioni geniali che vi si fondano. Non solo non aveva «promosso» un bel nulla fuori di Milano, ma anche l'unica Biblioteca popolare milanese era divenuta la preda delle muffe e dei ragnateli.
Dotata di un cospicuo numero di volumi – oltre 30 mila – ma in gran parte classici o superati dallo sviluppo scientifico e disadatti allo scopo – essa limitavasi poco più che a fornire le traduzioni belle e fatte agli scolaretti fuggifatica delle scuole medie, e un certo numero di romanzi, e non sempre dei migliori, ai disoccupati, alle portinaie, ai convalescenti del quartiere – uno dei quartieri più vecchi della vecchia Milano, lontano da ogni movimento operaio moderno. Di poi la Biblioteca peregrinò per varie sedi, perseguitata dal Municipio che, in compenso del «favore» di fornirle un meschino locale a stracciamercato, la obbligava ad ogni tratto a sloggiare, come uno studente che vive sulle camere ammobigliate, indebitandosi per le spese dei trasporti, obbligata a lunghi periodi di chiusura per rimettersi in ordine, perdendo libri e perdendo credito e clientela.
Esserne consigliere d'amministrazione non era dunque grande lusinga all'amor proprio, nè forniva grandi soddisfazioni di coscienza. Pure chi scrive queste linee vi rimase ostinatamente – si adoperò anzi a ottenerle anche la erezione in ente morale – sempre nell'attesa della «congiuntura propizia», che permettesse di svolgere, da quel vecchio tronco insecchito, nuovi e rigogliosi rampolli!
La congiuntura aspettata si risolveva essenzialmente in un po' di quattrini (le idee sono meno difficili a trovarsi, ma inzitelloniscono senza i quattrini fecondatori), per dare alla vecchia Biblioteca nuove sedi, nuovi libri, un catalogo a disposizione di tutti, nuovo personale. Un primo tentativo di interessare ad essa le organizzazioni operaie, raccolte nella Camera del Lavoro, fallì miseramente. Quando prese a funzionare l'Umanitaria, collo scopo di lenire la piaga della disoccupazione e di «aiutare i diseredati a rilevarsi da sè», ci parve che uno dei mezzi migliori per raggiungere il suo scopo fosse quello di rigenerare la vecchia Biblioteca, di aiutarla a spandere la cultura, a «illuminare la strada» di coloro che hanno bisogno di rilevarsi – o magari di non cascare.
Per ventura, non parlammo a sordi. Il resto.... verrà appreso da chi leggerà la relazione del primo anno di vita del «Consorzio delle Biblioteche popolari», nella quale il prof. Fabietti – che del Consorzio è insieme l'anima e il braccio – ha profuso i tesori della esperienza acquistata sull'argomento.
Questi ricordi personali spiegano perchè non abbiamo ritegno da invadere un paio di numeri della Critica con parecchie colonne sul tema delle Biblioteche popolari. Pensiamo che l'iniziativa milanese possa espandersi, per virtù dell'esempio, in altre contrade, dove il bisogno ne è anche maggiore: e perciò la nozione dei particolari anche i più minuti, che generarono il nostro successo, non dev'essere trascurata. Le cose riescono o falliscono soprattutto per la cura o per la negligenza dei particolari minuti.
Aggiungiamo, per completare la nostra confessione, che all'amore – altri dica all'infatuazione – delle Biblioteche popolari noi siamo venuti dalla politica e soprattutto per motivi politici. Vi siamo venuti proprio dal socialismo.
Lunge da noi l'idea che le Biblioteche popolari debbano servire a un partito: ciò equivarrebbe a renderle settarie e ad ucciderle.
Ma l'esperienza della propaganda nelle masse ci venne mano mano convincendo di una cosa: che l'efficacia di essa era paralizzata soprattutto dalla incoltura. [...]
Il rimedio a questo male non è altro che il libro: il libro seminato dappertutto; il libro che cerca il lettore, lo adesca, lo invesca, lo persegue, se ne impossessa; il libro che è coltura, che è ginnastica, che è luce, che è redenzione. E la Biblioteca popolare – se trionfa – non solo metterà il libro in valore, gli darà la vita che gli manca; ma lo creerà, lo susciterà ex novo. Per la legge della domanda che provoca l'offerta, i buoni libri popolari saranno creati dalla esistenza dei lettori educati a cercarli.»
([Filippo Turati], Il libro come strumento di redenzione sociale, «Critica sociale», 15, n. 7 (1° apr. 1905), p. 101-102, firmato «La Critica». Poi in Filippo Turati, Trent'anni di Critica sociale, Bologna, Zanichelli, 1921, p. 131-136).
Ungaretti (1909)
«Mi creda, caro Signor di Pompeo, ella va a cercar gli articoli troppo lontano, e forse... a troppo alto prezzo... [...]
Su quest'argomento, serenamente, vorrei esprimere tanti concetti, parlando della raccolta di classici, che per iniziativa del Giornale d'Italia e della Voce, stan curando presso Laterza e presso Carabba, Benedetto Croce e Giovanni Papini... E vorrei vedere il Prof. [Vincenzo] Fago, per un articolo sull'Università Egiziana, e vorrei visitare la biblioteca di Cairo, per consultare alcune opere, e vorrei quella lettera che mi ha promesso... per quegli articoli sul Hashich, che non saranno i soliti articoli, vedrà!»
(Giuseppe Ungaretti, minuta di lettera a Enrico Di Pompeo, [Cairo novembre-dicembre 1909], in Lettere a Enrico Pea, p. 23-24).
Ungaretti (1912-1913)
«Ieri giornata con [Salvatore] Piroddi. [...] Lo conoscono tutti a Parigi, e tutti gli vogliono bene. Peguy [Charles Péguy] ci fraternizza, [Julien] Benda ci polemizza, [Jean] Variot ci scopre sé stesso, ed io, che sono una celebrità in fasce, gli dò retta a causa della sua contentezza. [...] In grazia sua potrò frugare negli archivi della Nazionale, ciò che insomma val la pena di guardargli a volte il muso gioviale.»
(Giuseppe Ungaretti, lettera a Enrico Pea, [Parigi dicembre 1912], in Lettere a Enrico Pea, p. 39).
«Io voglio aggiungere questo alla mia lettera: che tu, per ora, sei l'artista (e ormai leggo anche i latini e in estate con Condachi spero d'imparare a leggere i greci) sei l'artista piti compiuto, più intensamente artista ch'io conosca. [...]
E ora andiamo in biblioteca a decifrare [Jean de] Joinville.»
(Giuseppe Ungaretti, cartolina a Enrico Pea, Parigi 26 febbraio 1913, in Lettere a Enrico Pea, p. 49. Probabilmente anche in questo caso il poeta si riferisce alla Bibliothèque nationale, che conserva importanti manoscritti di Joinville).
Ungaretti (1925)
«Dimmi esattamente in che numero di Lacerba è apparsa la traduzione, e che cosa hai tradotto. Se ci fosse alla Vitt. Em. [Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele di Roma] la collezione della rivista, avrei fatto la cosa da me.»
(Giuseppe Ungaretti a Ardengo Soffici, lettera con timbro postale dell'8 giugno 1925, p. 115. L'informazione richiesta si riferiva alla traduzione di poesie di Lautréamont. Evidentemente la collezione della rivista fu acquistata dalla Biblioteca successivamente)