L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Cecchi (1953)
«Tralasciando cose maggiori, basti pensare, lì nel bel mezzo alla città, una fondazione come il “Gabinetto Vieusseux”, dove le tradizioni della Antologia, e dei colloqui del Tommaseo col Capponi, il Colletta, il Leopardi, non erano meno presenti anche se ridotte al modesto servigio letterario d’un prestito di libri. Io credo che soltanto la London Library, fondata a Londra dal Carlyle nel 1841, abbia sopravanzato il “Vieusseux” in una funzione simile. Ch’è funzione a corredo e sussidio delle grandi biblioteche pubbliche; con la diffusione di prodotti di letteratura e di storia, italiani e stranieri, recenti e recentissimi, che a tali biblioteche accedono più lentamente, e ad alcune non accedono affatto per la necessaria osservanza delle diverse specializzazioni».
(Emilio Cecchi, Tre volti di Firenze (1953), in Fiorentinità e altri saggi, prefazione di Mario Luzi, nota ai testi di Margherita Ghilardi, Firenze, Sansoni, 1985, p. 105-106; poi in: Firenze, Torino, Aragno, 2017, p. 261-262).
Gli abbonamenti di Cecchi alla circolante Vieusseux, con l'indicazione dei vari recapiti, risultano registrati nel Libro dei soci (Archivio Storico del Gabinetto Vieusseux XIX 2B). Tra il 1901 e il 1919, sono segnalati i seguenti domicili: 26 luglio 1901 (via S. Gallo 65 e Villa Borgheri Querceto), 30 dicembre 1902, 7 marzo 1904, 1° dicembre 1908 (Via Bolognese 24); 11 marzo e 11 novembre 1910 (borgo Santa Croce piano III); 4 luglio 1911 (Via Nomentana 331, Villino Natalucci, Roma; “La Tribuna”); 4 agosto 1914 (Villa Baldi, Vaglia, Mugello); 3 ottobre 1916 (Via Colletta 8 p. 2°); 16 luglio 1917, 13 febbraio e 24 agosto 1918 (via Jacopo Nardi 15 p. 2°), 30 aprile 1919 (Via Colletta 8 p. 2°). Si ringrazia Laura Desideri per la cortese segnalazione.
Cecchi-Baldini (1920)
«È due giorni che io giro Roma in cerca delle opere di San Giovanni Crisostomo; perché ho letto delle citazioni rincoglionitive dai suoi «Costumi delle donne», e me lo voglio leggere. Non importa ti dica che, per ora, l'ho cercato dovunque, invano.»
(Emilio Cecchi, lettera a Antonio Baldini, Roma 10 agosto 1920, p. 184-185).
«S. Giovanni Crisostomo non è nella Patrologia del Migne in Biblioteca [nazionale], Sala di Studio?»
(Baldini a Cecchi, Caprarola 13 agosto 1920, p. 186).
Cecchi-Praz (1923)
«Godo molto che Lei vada a Londra: che esperienza! [...] Se Ella può credere che io possa darle qualche lettera di presentazione, a suo tempo mi scriva, e lo farò volentieri. Io conosco là diversa gente: e alcuni veramente in gamba. Credo che il Sigr [Frederic Herbert] Trench (o se no io stesso) potrà presentarla a Laurence Binyon del «British Museum»; cosa utilissima per avere subito il permesso per la sala di studio del Museum.»
(Emilio Cecchi, lettera a Mario Praz, [Roma] 6 gennaio 1923, p. 42)
«Un piccolo piacere: quando va al «British Museum», mi segna, in un pezzetto di carta, la bibliografia di quello che è stato pubblicato, in volume, intorno a Joseph Conrad? Mi scusi, e grazie.»
(Emilio Cecchi, lettera a Mario Praz, Roma 18 settembre 1923, p. 65)
«Le trascrivo quanto ho potuto raccogliere di bibliografia conradiana. La fonte bibliografica principale è naturalmente:
Th. J . Wise, A Bibliography of the writings of Joseph Conrad... [...]
Da questa ho ricavato la maggior parte delle citazioni seguenti: altre ne ho trovate nel catalogo del British Museum. Ho consultato anche i fascicoli di nuove accessioni. [...]
Di volumi pare non ci sia altro. Non mi sembrano molto importanti, così a occhio e croce. Però, se crede, posso dare un'occhiata, come posso dare un'occhiata alle critiche e recensioni apparse in riviste, che, a parere del Wise, formano il contributo più notevole.»
(Mario Praz, lettera a Emilio Cecchi, Londra 30 settembre 1923, p. 65-67)
Chinello (1975)
«Passammo la notte sul 26 aprile (del '45), in attesa dell'ordine di uscire per l'insurrezione, nell'officina di Giacomo Tenderini in campo S. Tomà, pronte le armi che ci eravamo man mano conquistate nei mesi precedenti disarmando i fascisti per strada e pronta anche una bandiera rossa con su ricamato in oro «Battaglione F. Biancotto» [...] Nell'attesa, ad un certo momento cominciai a riassumere e a commentare – l'ombra di Marx mi perdoni – il «Manifesto dei comunisti» che avevo letto e riletto alla Marciana – chissà come tradotto – in un volume di una collana fascista di economia. Quelli che, con pazienza, mi ascoltavano erano tutti, o quasi tutti, giovani operai.»
(Cesco Chinello, Nella Resistenza: prime esperienze politiche, in: 1943-1945, Venezia nella Resistenza: testimonianze, p. 495-501: 498).
Ciccotti (1908)
«Se il visitatore non è già disilluso nella sua curiosità o non è già stanco; se l’accompagnatore non ha troppa fretta si sale ancora un ramo di scale per arrivare alla Biblioteca... I libri, cresciuti di anno in anno, addensati negli scaffali, salgono sino alla soffitta, mettendo a dura prova la ingegnosità del bibliotecario per trovar posto ancora a quelli che vengono e che verranno, suscitando qualche preoccupazione per la durata di un equilibrio che, turbato in un istante, seppellirebbe, dalle altezze ove l’hanno ricacciata, sotto una valanga di scienza immagazzinata, il nido e l’arsenale de’ legislatori d’Italia. I curiosi guardano stupefatti quell’apparato, mentre cercano di smorzare il rumore de’ passi sulla stuoia e di sussurrare più discretamente qualche loro domanda, nella tema di disturbare i rari frequentatori alle prese con qualche stenogramma da rifare o con mucchi di libri frettolosamente affastellati da compulsare. Di tanto in tanto si apre e si richiude, sbattuta, la porta delle scale o dell’ascensore, e arriva qualche deputato, che deve preparare il suo discorso, e domanda ansiosamente al personale della biblioteca de’ libri che lo illuminino sull’argomento, che, sfogliati o leggiucchiati qua e là, lo facciano apparire pronto, saputo, dotto anche, un pozzo di scienza se occorre, se è possibile, di fronte a’ colleghi o almeno davanti agli elettori. I distributori frugano i grandi cataloghi, girano le lunghe corsie, si arrampicano sulle lunghe scale tremolanti, vanno, vengono, tornano, messi sempre nuovamente a contributo per trovare un altro libro, un libro più riassuntivo più universale più scansafatiche; e, dopo un’ora, dopo mezz’ora, il deputato riparte; e qualche volta il grosso acervo di libri lo aspetta per una settimana, per quindici giorni, per un mese; documento se non testimone de’ suoi studî profondi, mentre il suo discorso forma già l’ammirazione degli elettori che non lo leggono, od egli stesso corre le ferrovie d’Italia dietro una causa da vincere, un affare da concludere, o, magari, una cocotte da conquistare. Ma qualche volta la Biblioteca si popola insolitamente, ne’ giorni di grande votazione, quando gli ascari, come si chiamano i deputati ministeriali con tutti i ministeri, accorrono chiamati dal telegrafo, e gli avvocati specialmente si rifugiano lassù per compilare a più agio le loro comparse conclusionali o sbrigare le corrispondenze con i clienti, intanto che i campanelli si mettono a squillare con strepito folle per annunziare l’appello nominale imminente, e gli uscieri sollecitano gli ultimi ritardatarî.
Qualche volta anche la Biblioteca vede visitatori insoliti: in tempo di crisi ministeriali.
Mentre ovunque si danno convegni, e le trattative e gl’intrighi si annodano si sciolgono fervono da per tutto, e ogni occhio che guarda e ogni orecchio che ascolta può essere quello di un indiscreto o di un concorrente che deve ignorare; gli aspiranti al potere, i cacciatori di portafogli, i questuanti di sotto-segretari si danno la posta o si mettono in agguato in Biblioteca, dove si aggirano circospetti, chiedendo un libro che non c’è, troppo impazienti per leggere o sedere; finchè l’atteso arrivo, e dopo una mezz’ora, un quarto d’ora di promesse bisbigliate, di sollecitazioni, dall’estremo fondo della Biblioteca esce un nuovo ministro, o un deluso, che dal suo banco di oppositore, cauto e tenace, accomodante o stizzoso, ricomincia il lavoro di approcci o di scalata al potere.
E subito la Biblioteca torna ad essere silenziosa, solitaria, frequentata appena da qualche studioso o da qualche ex-deputato che pratica e conserva le abitudini d’inquilino di Montecitorio.»
(Ettore Ciccotti, Montecitorio, pp. 18-20)
Citati (2004)
«Anch'io sono stato normalista, dai diciassette ai ventun anni: 1947-1951. Dal 1949 al 1951, ho abitato in una camera bellissima nel palazzo del Vasari, che dà su piazza dei Cavalieri: camera alta sei metri, vasta almeno cinquanta metri quadrati, con austeri mobili moderni e un letto francescano in un angolo. [...]
Della Normale, ho anche buonissimi ricordi. Alle otto di mattina scendevo quasi nudo, in pigiama e vecchie pantofole, in Biblioteca (eccellente, ma molto meno ricca di quella di oggi): firmavo frettolosamente diciotto o venti schede (ora tutto sarà molto più regolare) e tornavo carico di libri nella mia camera vasariana, grondante di ricordi dei Cavalieri cinquecenteschi. Avevo il sogno infantile della scienza pura: la ricerca appassionata, acuminata, spassionata della verità, quale essa sia, con tutta la bibliografia necessaria.»
(Pietro Citati, Scuola, storia di un disastro annunciato, p. 50-51).
Coccioli (1963)
«Durante i quattro o cinque anni dei miei studi universitari, la Biblioteca nazionale centrale di Firenze l'ho vista soltanto «da una parte». L'ho vista dalla parte di chi vi entrava per chiedere in lettura cinque o sei opere rare a trovarsi o troppo care per essere acquistate in libreria; dopo una decina di minuti d'attesa davanti a un austero banco semicircolare in una vastissima sala dalla luce fredda e dai marmi littori, mi venivano dati (o non dati) i volumi richiesti, coi quali entravo in un'altra vastissima e in quegli anni gelida sala; mi mettevo a sedere in una seggiolona di cuoio davanti a una lunga tavola o banco o leggìo che fosse (e certo continua ad esserlo: l'unica differenza fra l'oggi e l'ieri è che oggi quelle seggiolone son più flosce d'allora); passavo lì – tremando di freddo – tutto il mio laborioso pomeriggio.
A volte, autorizzato da una speciale tesserina che mi era stata rilasciata dalla direzione, andavo in una delle sale di consultazione del primo piano, bellissime, dalle grandi finestre aperte (o più esattamente chiuse) sull'Arno; ivi m'era concesso di prender personalmente dagli scaffali i libri di cui avevo bisogno, e che erano e sono opere d'interesse generale, come enciclopedie, dizionari, testi di bibliografia, monografie consacrate tutte ad un determinato argomento: la cosiddetta «sezione toscana», per esempio. Tale durante quattro o cinque anni, è stata per me – il mio ricordo, nonostante quel freddo, quei tremiti, è colmo di gratitudine – la Biblioteca nazionale centrale di Firenze. Ieri mi è venuta la voglia di vederla «dall'altra parte»: da dietro la facciata.
Ne sono uscito con le gambe stanche – dal gran girare – e con la fantasia accesa.»
(Carlo Coccioli, Usava per segnalibro una salacca il più brutto bibliotecario toscano, «Corriere della sera», 88, n. 284 (6 dic. 1963), p. 3. Il ricordo si deve riferire agli anni intorno al 1940).
Codignola (1910)
«Pisa è città di silenzio e di raccoglimento: quanto fu fervida, agitata, violenta la sua vita passata, nell’ora della grandezza, tanto è stagnante e monotona l’odierna: dorme essa, come un’antica divinità obliata, il sonno delle glorie morte. [...]
Non vi è una sola biblioteca circolante decente: qualcuno che tentò l’impresa fallì: l’unica è ora quella della libreria Bemporad, composta in gran parte di romanzi da popolino. Neppure riuscirono pochi volenterosi ad istituire le biblioteche popolari. [...]
Nonostante parecchie lacune gravissime anche la biblioteca universitaria è assai ricca e rifornita: ma la sala di lettura è inadattissima ed insufficiente: essa non solo è adibita anche alla distribuzione, ma è nello stesso tempo sala di passaggio di tutti gli studiosi e degli impiegati, che devono attraversarla per recarsi negli altri locali, dove sono riposti i libri. Siccome le migliori opere, specialmente filosofiche e giuridiche, sono comprese nei lasciti e doni Carrata, Piazzini, Ferrucci e Gabba e non sono date a prestito, quello sconcio riesce dannosissimo agli studiosi ed esige una soluzione pronta ed energica, che non dovrebbe offrire soverchie difficoltà ora specialmente che si sta riordinando tutto l’edifizio universitario. È assolutamente impossibile raccogliersi nella lettura di opere scientifiche e filosofiche in una sala, dove si è disturbati ogni momento da un continuo andirivieni, sbatacchio di porte e cicalecchio di passanti e di impiegati. [...]
In questo ambiente di indifferenza e di mediocrità sono falliti finora tutti i tentativi di svecchiare un po’ la coltura e di agitare qualche nuova idea. [...]
Un gruppo di giovani tentò qualche mese fa di scuotere questo torpore e fondò un Circolo di Coltura, che si prefiggeva, oltre che una più intima e spirituale comunione fra gli studenti, l’apertura di una biblioteca circolante, di una sala di lettura con buone riviste italiane ed estere e più tardi di un’università popolare: i fondi dovevano essere raccolti con un ciclo di conferenze e poi con una sottoscrizione popolare. Ma i promotori ebbero l’ingenuità di invitare a parlare uomini, che agitassero idee con serietà e coscienza, e non le solite celeberrime e nauseanti nullità dell’accademia e del giornalismo, e mal gliene incolse.»
(Ernesto Codignola, Pisa, «La voce», 2, n. 5 (13 gen. 1910), p. 245-246: 245).
Colombo (2014)
«[A. G.] Sono luoghi che oggi frequenta per lavoro, ma in passato ha utilizzato la biblioteca come lettore?
[G. C.] Io ho studiato veramente tanto, alla Sormani, quando facevo l’università, perché era un ambiente in cui si poteva studiare molto bene. Adesso non so come sia. Io prendevo un libro a caso e me lo tenevo, ma avevo i miei da leggere.
[A. G.] Ah! Dunque era l’ambiente-biblioteca che lei utilizzava in quegli anni! Ma avrebbe potuto essere anche vuota di libri, tanto leggeva i suoi.
[G. C.] Beh, qualche volta succedeva anche che prendessi un testo lì perché mi serviva.»
(intervista di Alessandra Giordano a Gherardo Colombo, pubblicata in C'erano un giudice, un ragazzo e Dostoevskij..., p. 64).
Ancora nel 2014, Colombo è intervenuto sul tema del ruolo e l'importanza delle biblioteche in un contributo pubblicato sulle pagine di «AIB studi», 54 (2014), n. 1, p. 5, <aibstudi.aib.it/article/view/10027>.
Compagna (1991)
«Non c'è tradizione che si continui se non attraverso contaminazioni. Il dato acquisito sull'Illuminismo dalla cultura moderna è che non si può partire da zero. Antonio Gramsci non è partito da zero: tutt'altro. Ha preso Croce per interlocutore di partenza, non a caso. La questione è anzitutto di metodo, ma un metodo sempre più rifiutato. Oggi gli intellettuali sono intellettuali da assemblea: dico che la loro cultura scaturisce dal lessico assembleare e non più dalle biblioteche. Non dico che bisogna disertare le assemblee: dico che non bisogna disertare le biblioteche.»
(Enzo Siciliano, Ma tu che libri hai letto?, p. 57; l'intervista è datata al 20 dicembre 1975)
Consolo (1994)
«C'è qualche episodio particolare della tua infanzia che può spiegare questa tua "fame" di libri?
[...] Non solo in casa nostra non c'erano libri, ma a Sant'Agata – il mio paese – non c'era nemmeno la biblioteca.»
(Attilio Mangano, "La mia doppia biblioteca": a colloquio con Vincenzo Consolo, p. 38).
«Qual è invece il tuo rapporto con le biblioteche pubbliche, con il loro funzionamento e con il loro essere istituzionale?
Devo confessarlo, è un sentimento tutto speciale, è proprio un senso di angoscia. Forse si potrebbe parlare di un trauma originario, di una "prima volta" che rimane impressa nel mio inconscio e mi condiziona per sempre. È l'angoscia di non sapere trovare e reperire un libro, di non sapermi orientare con le segnature. Quando ero militare ed andai per la prima volta alla Biblioteca nazionale a Roma ricordo che ne rimasi sconvolto, mi sembrò la biblioteca di Babele. Ma mi rendo conto che è in un certo senso colpa mia.
Non è un giudizio con cui vuoi chiamare in causa le biblioteche pubbliche?
Forse, anche. Non so bene. Certo, se ho bisogno di un libro da prendere in biblioteca chiedo aiuto a mia moglie e lei si reca in missione e va a cercarlo in biblioteca, io non ci riesco. Ma in questa mia resistenza ci sono certo non solo delle ragioni psicologiche, c'è anche una parte di fastidio, potrei citare in questo senso un trattatello di Umberto Eco, De biblioteca [ma De bibliotheca], che fa una serie di esempi e di proposte per rendere il libro assolutamente raggiungibile.»
(ivi, p. 41).
Contini (1940)
«’Iοῦ ἰοῦ, carissimo,
sono arrivato un paio d’ore dopo la partenza del tuo treno: incrociato a Stresa, mi pare. Ero stato un giorno e mezzo a Milano, per collazioni in Ambrosiana. M’è spiaciuto proprio.
In Friburgo continua la Begeisterung per te, dal padre [Jean] de Menasce e universale. Ho visto la stupenda Reinhart. Direi quasi che Chardin ne è il re, come Konrad Witz della sorella.
Ciao, forse arrivederci presto.»
(Gianfranco Contini, cartolina a Giorgio Pasquali, Domodossola 28 gennaio 1940; p. 397)
Contini (1972)
«Passando una mattina al principio del mese a Milano, ho fatto chiedere tue notizie, mentre ero in Ambrosiana, alla Gina. Riposavi, e non volli disturbare quando uscii (avevo studiato un codice francese che dobbiamo essere stati in tre a guardare, il cardinal Federigo, Pio Rajna e io; mi giunse tranciato, voglio dire col piatto anteriore della legatura perfettamente staccato: "labile barbaglio" di che cosa?).»
(Gianfranco Contini, lettera a Eugenio Montale, Ronchi 15 giugno 1972, p. 246).
Contini (1985)
«Quando io conobbi Montale, il suo studio alla Direzione del Vieusseux, allora in Palazzo di Parte Guelfa, era allogato al sottosuolo (vidi poi che anche la sua camera di via Varchi era in un seminterrato). Montale stava in piedi dietro un alto leggio, dove mi fece intendere che la sua filiforme scrittura annotava sul primo avanzo cartaceo che gli venisse a tiro le parole che un raro, improbabile suggerimento gli forniva [...].
Mi iniziò subito al rito bigiornaliero della sosta alle Giubbe Rosse nella piazza detta allora Vittorio. [...] E c'erano le visite del Vieusseux da
narrare: il nipote di August von Platen sulle tracce dell'antico congiunto; Luigi Foscolo Benedetto, che a colpo scopriva documenti stendhaliani; Charles Singleton, allora in cerca di canti carnascialeschi, di cui Montale ammirava il perfetto italiano, e che sarebbe comparso spesso negli ultimi versi in funzione di patrologo. In questi si ritroverà anche una squisita apparizione di Pio Rajna.»
(Gianfranco Contini, Istantanee montaliane, in: Eugenio Montale: immagini di una vita, a cura di Franco Contorbia, Milano, Librex, 1985, p. V-XII; poi in Amicizie, p. 99-117: 106-108).
Contini (1988a)
«Angelini fu, del canone degli scrittori contemporanei, il primo che frequentai; quello verso il quale nutrii perciò la maggior soggezione. [...] Nella sua antica città aveva una camera particolarmente arcaica, mi pare, in Seminario, che non saprei ricostruire se non come sede di amabili prestiti di libri. [...] Connetto con Angelini le prime letture dell'Esame di coscienza e anche, con entusiasmo, di Victor-Marie, comte Hugo, nel fascicolo dei Cahiers de la Quinzaine. Fossero prestiti suoi o dell'Universitaria [di Pavia], per quanto questa incertezza mi sia crudele, se ne ricava un indizio sicuro delle nostre conversazioni.
La quale Universitaria si raccomanda per copia di legno di noce. E sento il legno a sfondo di qualche battuta che ci scambiammo durante un incontro casuale, a bassa voce, sulla mia ultima passione, Tommaseo.»
(Gianfranco Contini, in: Per Cesare Angelini: studi e testimonianze, a cura di Angelo Stella, Firenze, Le Monnier, 1988, p. 117-119; poi in Amicizie, p. 133-137: 133-134).