Addio al Giro
di Indro Montanelli
da "Corriere della Sera", 17/6/1947
Commemorò il Giro D’Italia raccontandone un piccolo episodio: Tanto piccolo, che la cronaca non lo prese nemmeno in considerazione. Esso avvenne il giorno in cui Coppi prese a Bratali la maglia rosa (siete proprio sicuri che l’anno 1947 non passerà alla storia come “l’anno del 4° Gabinetto De Gasperi” o come “l’anno dell’F.A.2” ma come “l’anno di Coppi”?) e io mi trovavo a salire il Passo del Pordol, dove la catastrofe stava svolgendosi, seduto accanto al comm. Z…, il direttore della casa antagonista a quella del campione in declino. La nostra macchina seguiva quest’ultimo e il cronometrista Radice controllava il distacco che ad ogni chilometro allungava si qualche secondo la distanza fra il giovane corridore che vedevamo lassù in alto già quasi sulla cima, e quello vecchio che pedalava accanto a noi. Z… piangeva. Da venticinque anni la sua ditta non vinceva il Giro e finalmente il grande giorno sembrava venuto per i coloro bianco-celesti che il giovane Coppi stava per far trionfare sui quelli rosso-verdi di Bartali. Z… seguiva trepidando sul cronometro di Radice, il delinearsi di questa vittoria e piangeva di commozione.
Ma era un pianto strano. Le lacrime che sgorgavano dall’occhio sinistro del comm. Z… non somigliavano a quelle che gli sgorgavano dall’occhio destro. La prime erano di gioia; le seconde erano di pena. Le prime gl’inumidivano le guance ogni volta che alzava lo sguardo sulla vittoria di Coppi; le seconde gli correvano sul naso ogni volta che’egli riabbassava le pupille sulla disfatta di Bartali, “Ha quattro minuti di vantaggio” disse a un tratto Radice; e quattro minuti significavano già una larga vittoria. Ma Z… gli serrò nervosamente il braccio e sottovoce lo pregò: “non farti sentire da lui. Lo demoralizzerebbe.” Poi si volse al vecchio tenace avversario che pedalava col volto contratto nello sforzo, e gli disse paternamente: “Forza Gino! Lo hai quasi raggiunto.” E non era vero. In quale altro sport sarebbe concepibile un simile episodio? In un altro anno ormai molto lontano un altro uomo seguiva un altro uomo seguiva un altro corridore in un difficile Giro di Francia. Era Cougnet, il commissario italiano della squadra di Bottecchia. Bottecchia stava terminando quella corsa con oltre un’ora di vantaggio sui più diretti inseguitori, quando cadde in una discesa fracassandosi il viso le mani e le gambe. Cougnet, sopraggiunto in auto lo trovò accartocciato sul margine della strada, imbrattato di sangue e piangente di scoramento. Non poteva aiutarlo: il regolamento glielo proibiva. Il vecchio Cougnet guardò senza dir nulla quel corridore in crisi, che sembrava ormai rassegnato a perdere la maglia gialla del vincitore; poi, toltasi la pipa di bocca, prese a cantare la canzone degli alpini friulani. Bottecchia cessò di piangere, tese l’orecchio, con uno sforzo disperato si rialzò, si rimise in sella, riprese a pedalare. Pedalava a passo d’uomo e a passo d’uomo Cougnet lo seguì per chilometri, sempre cantandogli le canzoni del suo paese. Altri corridori sopraggiunsero videro Bottecchia sfigurato e tronco, si diedero a fuggire con impeto per approfittare dell’occasione e rubargli la maglia gialla. Ma Cougnet non cessò di cantare e sotto la spinta di quel canto Bottecchia arrivò al traguardo: a passo d’uomo, ma sempre in tempo per conservare la sua maglia. In quale altro sport sarebbe concepibile un simile episodio? Io sono entrato “Nel Giro” con l’animo di chi non crede, ne esco dopo aver scoperto che, se le folle si adunano al suo passaggio con entusiasmo che mai tribuno della plebe e vittorioso generale suscitò una ragione c’è. Nell’età spietata del “V.2” e delle bombe atomiche, esso resuscita un vecchio mondo cordiale e lo porta in pellegrinaggio per un paese a cui Dio ha concesso il privilegio di ripugnare dalle invenzioni del diavolo e che cova profonda infondo al suo cuore la nostalgia della fatica contro le seduzioni del comfort. Ed è giusto che si chiami U.V.I. unione velocipedistica Italiana, perché questo è proprio il mondo del Velocipede, il mondo di Cougnet e dei nostri nonni, che non conoscevano la Bicicletta e “sfidavano i rischi dell’alta velocità” a venticinque chilometri all’ora. Un mondo buono e d’altri tempi, paesano, polveroso e generoso, dove s’incontrano incanutiti, ma sempre uguali a sé stessi, Garrone e De Rossi, la piccola vedetta lombarda e gli aneddoti dei nostri babbi.
Ieri il silenzio mi ha risvegliato prima del solito. Non c’ero più abituato. Per tre settimane il “Giro” ha assuefatto i miei timpani al gracidio degli altoparlanti dislocati in ordine di battaglia. Fu duro, i primi giorni avvezzarcisi. Quelle voci, chiocce mi dissuggellavano le palpebre ancora vogliose di sonno alle prime luci dell’alba e mi obbligavano ad avventarmi sulla finestra per chiuderla. Ma poi cominciavano anche le campane, pattuglie di “tifosi” forzavano la porta della mia camera, convinti che vi si celasse Bartali o Coppi, e nessuna persiana, nessun lucchetto, nessuna imbottitura riuscivano più a isolarmi dalla festa del “Giro”, luminosa e sonora come una Domenica delle Palme. in quella festa mi ero abituato a dormire le ultime ore del mio sonno mattutino. Essa era la mia innocente morfina, e ora mi manca.
Chi non ha conosciuto tutto questo, chi non ha conosciuto il “Giro” è come chi non ha conosciuto suo nonno, De Amicis e la sua piccola vedetta lombarda. Nessuno è più orfano di lui.