Salvaguardia del patrimonio artistico

Distruzione e conservazione. La tutela del patrimonio artistico durante la prima guerra mondiale

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Approntamenti per la protezione di opere d'arte, Padova, 1916
Approntamenti per la protezione di opere d'arte, Padova, 1916

A Firenze, nella Sala del Cinquecento di Palazzo Vecchio, il primo luglio 1917 Ugo Ojetti pronunciava un vibrante discorso dal titolo “il Martirio dei Monumenti” che era incentrato sui danni inferti al patrimonio artistico italiano dalla guerra che vedeva coinvolta l’Italia. Fin dalle prime parole del suo discorso vengono chiariti gli intenti della prolusione:

Trattare d’arte e di monumenti, trasferirsi per loro nei ricordi del più lontano passato, passeggiare sia pure con disperata tristezza nei chiusi e pettinati giardini della storia, piangere sulle pietre ferite quando le carni di centinaia di migliaia d’uomini fratelli nostri sanguinavano e spasimano, sembra, cittadini, uno svago da oziosi e un diletto da eruditi i quali si vogliano difendere contro il fragore e il terror della guerra dietro le trincee dei loro libri compatti. Altro s’ha oggi da fare: combattere, resistere, vincere. Per le lacrime, le proteste, i rimbrotti, le accuse, avremo, si dice, tempo dopo. È un errore. Esso deriva, prima di tutto, dall’avere separato l’arte dalla vita, e considerato l’arte non più come un bene e un bisogno di tutti, una continua e viva funzione sociale, un’espressione sincera del nostro carattere nazionale, un documento solenne e inconfutabile della nostra storia.

I danni inflitti dalla guerra al patrimonio artistico erano considerati come degli atti vili contro la memoria di una nazione, della sua tradizione della sua storia. Un atto di barbarie. Il nemico[...] s’è accanito a distruggere i monumenti che sono i testimoni di questo nostro passato.

Un tema questo che venne ripreso dallo stesso Ojetti anche in seguito. Il concetto che il patrimonio artistico nazionale fosse una delle poste in gioco del conflitto, trovò un immediato riscontro nella documentazione coeva, infatti, dipinti, affreschi, chiese e monumenti protetti dalla guerra o distrutti sul fronte, furono ampiamente documentati da campagne fotografiche, scritti, oltre che dall’attività di artisti e di intellettuali. Fu una delle prime volte, all’interno del percorso della nazione che la tutela del patrimonio e la “cultura d’arte” venne considerata come fatto fondante, come uno dei cardini della nazione. Una tutela che prevedeva una duplice via, da una parte documentare la distruzione delle opere d’arte – chiese e palazzi, affreschi, statue, ecc. – al fine di fare un’opera di propaganda interna che mostrasse l'"insensibile barbaria del nemico”; dall’altra cercando di porre un freno alla rovina e al rischio di distruzione, proteggendo i monumenti con trincee di sacchetti di sabbia, imballando e spedendo in luoghi più sicuri dipinti e sculture. Una tutela conservativa di prevenzione e restauro e tra i numerosissimi casi uno ampiamente documentato fu quello emblematico dei cavalli bronzei della basilica di San Marco che vennero fatti traslocare nel cortile di palazzo Venezia a Roma o quello che riguardò i grandi teleri veneziani di Veronese o Tintoretto che vennero chiusi entro casse in legno, avvolte entro cilindri, e fatte emigrare al sicure. Interventi che riguardarono anche palazzi e monumenti pubblici come nel caso degli archi di Palazzo Ducale a Venezia che vennero tamponati e rinforzati mentre molte strutture esterne vennero protette da rinforzi. Le città del triveneto, in particolare quelle del fronte, apparivano quindi come deserte, offrendo, per dirla ancora con Ojetti un “malinconico spettacolo”. Ma anche in altre città, seppur con minore risonanza, vennero eseguite altre analoghe operazioni. Questa intensa attività di documentazione ci è testimoniata oggi attraverso numerose fonti visive come le centinaia di fotografie che sono conservate presso l’archivio del Museo Centrale del Risorgimento. La raccolta del Museo Centrale del Risorgimento è frutto della circolare di Paolo Boselli, che fin dal 1915, al momento dello scoppio del conflitto aveva voluto documentare puntualmente tutte le fasi del conflitto facendo confluire presso il Museo carte, foto e documenti comunque prodotti che potessero servire a fare luce sulla “quarta guerra d’indipendenza nazionale”. A questi materiali fotografici si aggiunsero nel corso degli anni altri nuclei documentari, come ad esempio le carte Capello, che oggi offrono una sorta di interfaccia documentario alle foto. Si tratta spesso di materiale poco noto che si muove tra la documentazione tecnica e gli scritti di propaganda. Accanto alle foto ed ai documenti un'altra testimonianza d’eccezione è rappresentata dalle opere di quegli artisti, come i pittori/soldato, che immortalarono sui loro dipinti, nei disegni e nelle acqueforti le città con i monumenti imballati entro trincee di sacchetti di sabbia o il desolato panorama della facciata della basilica di San Marco priva dei suoi cavalli bronzei. Nel 1918 Anselmo Bucci scriveva sulle note introduttive che accompagnavano la sua cartella di incisioni “Marinai a terra”: “Canal Grande è una prateria deserta…il Palazzo Ducale colle ogive raddoppiate dalle travi, gli archi chiusi e gi angoli sprofondati nei piloni, complicato e incompiuto, non appartiene quasi più all’architettura.. e il San Marco di guerra è un granaio col soffitto d’oro…fuori, le cupole di piombo, i pinnacoli d’oro, gli angeli d’avorio, gli archi di vetro, emergono da un’umile cassa d’abete”.

Basterà a questo proposito guardare alcuni dipinti di Anselmo Bucci o di Giulio Aristide Sartorio e confrontarli con le foto coeve per cogliere in queste immagini tutto il loro valore simbolico: la protezione dell’arte come estrema difesa dell’identità nazionale e al tempo stesso, al di là della facile retorica, la consapevolezza di trattare il patrimonio artistico come un bene condiviso al di là delle singole frontiere nazionali. Ancora una volta la Grande Guerra si pone come un vero e proprio crinale culturale tra due società diverse quella risorgimentale e quella contemporanea. L’utilizzo della fotografia come strumento di propaganda è in qualche modo il preludio alla stagione del cinema di propaganda - come nel caso della nascita qualche anno più tardi dell’Istituto LUCE - e quindi si possono ancora una volta riproporre le parole di Ugo Ojetti quando affermava: La propaganda più efficace è quella per gli occhi. Essa sola raggiunge gli analfabeti, i pigri, i distratti: cioè il pubblico.

Pittori soldato

  • Italico Brass, Dirigibile, 1918
  • Anselmo Bucci, Nave in costruzione, 1918
  • Aldo Carpi, Prigioniero austriaco, dicembre 1915, Valona
  • Vito Lombardi, Altro 305, 1918
  • Lodovico Pogliaghi, Accampamento alle cime di Roveredo, 1915

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