26 - Il Carcere illuminato
print this pagengelo Tarachia, segretario di stato del duca di Mantova, scrisse l’opera intitolata Il carcere illuminato mentre era imprigionato (1659-1663) con l’accusa di tradimento. Tutto il testo, incompiuto, si configura come una sorta di autodafé dei valori della vita cortigiana, che gli si presentarono in quel frangente in tutta la loro inanità, sino alla rivelazione del palazzo della Filosofia entro il quale accedere a un mondo fondato su principi autentici. In precedenza, Tarachia si era distinto come scrittore d’occasione per le nozze della Cesarea Maesta di Ferdinando Terzo colla Serenissima Leonora Gonzaga (Mantova, presso Osanna, 1651) e delle Feste celebrate in Mantoua alla venuta de’ serenissimi arciduchi Ferdinando Carlo, e Sigismondo Francesco d’Austria, et arciduchessa Anna Medici (Mantova, Osanna, 1652). Componimenti encomiastici e celebrativi, concepiti quando ancora poteva contare sui favori della corte.
L’antiporta (acquaforte e bulino, mm 131 x 73) dell’opera in esame presenta una figura femminile posta entro una cella buia, dalle basse travi, con sbarre alla piccola finestra. Essa appare nuda, incoronata, con il volto raggiante come un sole, e una clessidra posata ai piedi, mentre verga su un foglio la scritta
“Rutilat candor in atro”.
("Riluce lo splendore nel buio"). I suoi attributi sono genericamente associabili all’allegoria della Verità, ma ad ogni modo si può pensare che essa, anche in relazione al contenuto del libro, sia allusiva alla Innocenza.
All’invenzione si presta particolarmente la naturale predisposizione di Pietro della Vecchia per temi insoliti, concettosi, che lo resero uno dei più geniali e bizzarri creatore di soggetti, apprezzato anche nella cerchia dell’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan (per l’attività di Pietro della Vecchia come disegnatore di frontespizi, in relazione anche all’Accademia degli Incogniti e alle Lettere di Loredan). Solitamente, egli si trovò a collaborare con incisori come Giorgi, o come Giacomo Piccini. Qui l’incisore è il francese Jean Langlois (1649- 1712), educatosi a Roma, celebre anche per la sua raccolta di incisioni da architetture di Andrea Palladio. Lo stesso incisore è autore della traduzione calcografica del ritratto di Angelo Tarachia realizzata da Ferdinando Valdanbrino che si trova all’interno del volume (acquaforte e bulino, mm 132 x 74), accompagnato dalla scritta:
“Angelus Tarachia Mantuanus / Ser.mi olim Caroli II. / intimus a Secretis Status / Supra quimquagesimum Aetatis Anno / in qua requient”)
e sembra essersi in qualche modo specializzato nel genere del ritratto inciso, tanto che si contano almeno altri due esemplari da lui realizzati: i ritratti dei procuratori Girolamo Querini e Battista Nani, del 1670.