Il Medioevo
print this pageLa piana operosa: campi, prati e boschi nutrono i lombardi
sezione a cura di Maria Pia Bortolotti
…lo dolce piano/che da Vercelli a Marcabò dichina…(Inferno XXVIII, 74-75) fin dall’epoca romana fu oggetto di interventi operosi compiuti in due modi opposti: nell’alta pianura asciutta, per guadagnare terra all’agricoltura contro l’aridità, irrigando il suolo con sistemi di canalizzazione delle acque; per contro, nella bassa pianura padana, prosciugando e bonificando le aree paludose. Il periodo delle invasioni barbariche, dei flagelli naturali, di guerre e pestilenze interruppero lo sviluppo dell’agricoltura, le colture vennero abbandonate e la costante minaccia della carestia fece precipitare in una grave crisi economica l’Europa intera.
E’ a partire dal IX-X secolo che riprese la vita nelle campagne, la popolazione ricominciò a crescere, la Pianura Padana fu colonizzata e le terre coltivate cominciarono a prosperare, grazie anche a innovazioni tecniche e alle opere di bonifica avviate dalle comunità monastiche. In Lombardia (e nell’Italia del nord), i più grandi proprietari fondiari furono le istituzioni ecclesiastiche: abati, badesse, sacerdoti gestivano il patrimonio di proprietà dell’ente cui erano preposti, tramite contratti di acquisto, livello, enfiteusi, permuta.
Le pergamene che dal XII secolo testimoniano le transazioni economiche che riguardano i terreni, ci offrono un variegato panorama del paesaggio medievale, poiché i fondi venivano identificati con molta precisione con la terminologia che li classifica in base alla produzione: vigneti, frutteti, campi, boschi, pascoli, prati, brughiere e inoltre il canone dell’affitto era costituito per lo più da prodotti naturali, anch’essi quindi significativi delle varietà delle colture.
L’economia dell’alto medioevo si basava principalmente sull’autoconsumo, pertanto sia il proprietario che il conduttore del fondo cercavano di approvvigionarsi di tutto: prodotti della terra e prodotti animali.
Le risorse che le terre coltivate e incolte offrivano agli uomini erano differenziate tra i prodotti provenienti dalla “bassa” e prodotti provenienti dall’ “alta” pianura, quindi il regime alimentare era vario: carne, uova, pesce, latte, formaggio, frutti selvatici non erano inferiori ai prodotti agricoli: cereali, legumi, ortaggi, frutta coltivata. Un regime alimentare abbastanza equilibrato, anche se l’alimento prevalente era la carne, che garantiva la sopravvivenza per la maggior parte delle persone.
Il successivo miglioramento delle condizioni agricole fece alzare il livello della produzione, quindi cominciò a delinearsi un’attività di distribuzione dei prodotti sui mercati dei centri urbani, che cominciavano a essere facilmente raggiungibili tramite la creazione di nuove vie di comunicazione tra il contado e i centri mercantili.
Per la sua privilegiata posizione al centro della Pianura Padana, Milano ebbe fin dall’antichità le funzioni di nodo economico di un vasto territorio, diventando nel Medio Evo uno dei centri produttivi più importanti d’Europa. Il cronista umiliate del XIII secolo Bonvesin da la Riva, descrive, seppur in modo celebrativo, Milano del XIII secolo come la città, dal punto di vista economico, senza rivali nell’occidente cristiano e a “Le meraviglie di Milano” (è il titolo della sua opera), fa da sfondo l’opulenza della regione Lombardia, famosa “per la posizione, e per la frequenza dei luoghi abitati e la densità degli abitanti e per la bellezza e fecondità delle sue pianure”.
Chiudo questa brevissima sintesi sull’alimentazione medievale con le parole di Bonvesin da la Riva, poiché, per quanto riguarda il tema dell’alimentazione, il suo De magnalibus Mediolani fornisce istruttive informazioni sulla produzione e sui consumi alimentari sia della popolazione milanese che del contado: a Milano “affluiscono come a una stiva, di tutti i beni temporali pane, vino e saporite carni d’ogni qualità…abbondano miele, cera e latte e giuncate, e ricotte e burro e formaggi e uova. Abbondano in modo incredibile i gamberi…. Nel nostro territorio è, come ciascun vede, abbondanza di biade, di vino di legumi, di frutta, d’alberi, di fieno e d’ogni bene.”
Le pergamene qui esposte vogliono offrire un esempio di quelli che erano i mezzi di sussistenza in un periodo davvero lontano dall’odierno nostro mondo occidentale, in cui ora il concetto di “sana alimentazione” è completamente ribaltato: poca carne e tanta verdura e frutta.
Vogliono anche puntare l’attenzione del visitatore sulla terminologia usata nei documenti medievali per chiamare i cibi, termini che per noi oggi hanno altri significati, identificativi di alimenti diversi da quelli del passato.
Il contratto di lavoro del fornaio
1166 maggio 28, Como
Pergamene per fondi, scat.104
E’ veramente raro trovare un contratto di lavoro scritto nel 1166 che stabilisce gli obblighi delle prestazioni di un salariato nei confronti del datore di lavoro, e viceversa. I reciproci doveri derivano da una transazione amichevole: le due parte si sono rivolte a un arbitro, Giovanni Sescalco, che deve decidere una vera e propria vertenza tra il datore di lavoro e il fornitore d’opera.
Quali sono dunque gli obblighi del fornaio Ottone? Deve ogni notte fare seccare e immagazzinare i cereali, cuocere abitualmente il pane, fare rifornimento di legna per il forno e per la vigna e seguire i monaci nelle trasferte. In cambio del lavoro svolto, il fornaio riceve un salario in prodotti per ogni giorno di lavoro effettivamente svolto: quote di pane e di vino stabilite; inoltre a Natale le quote sono aumentate e a Carnevale oltre al pane e al vino deve ricevere due pezzi di carne. Quando prepara e cuoce laghena et raphiolos et mortadelas, ossia lasagne, ravioli e mortadelle, Ottone avrà diritto di ricevere la sua quota stabilita. Inoltre gli viene proibito di assumere senza il consenso dell’abate un aiutante per panificare e per setacciare la farina.
Lasagne, ravioli e mortadelle in un’epoca così remota nel comasco: non sono certamente gli stessi che consumiamo oggi. Per capire cosa cuoceva il fornaio Ottone nel 1166 dobbiamo risalire all’etimologia delle parole: la lasagna è la forma di pasta tagliata a strisce larghe, il raviolo è la pasta tagliata a rettangoli o a dischi. Per quanto riguarda la mortadella, a mio parere non è l’insaccato di carne di maiale che mangiamo oggi, ma una specie di focaccia o di torta, ottenuta pestando nel mortaio (dal latino mortarium, da cui anche l’odierna “mortadella”, ossia carne triturata) semi di cereali, ricavando una farina che, amalgamata con latte o acqua formava una sottile focaccia che veniva cotta nel forno.
Bibliografia: L. Martinelli Perelli Carte del monastero di S. Abbondio di Como – Dalla fondazione all’anno 1200, Unicopli 2009
L. Fasola Il monastero di S. Abbondio nel quadro istituzionale comasco della prima età comunale (secoli XI-XII, in S. Abbondio lo spazio e il tempo – Tradizione storica e recupero architettonici, Como 1984
Le focacce di Chiaravalle
1187 novembre 12, Milano in consulatu
1190 febbraio 22, Milano in consulatu
1190 ottobre 23, Milano
Sentenze
Pergamene per fondi, scat. 555
Tre sentenze emanate, in ordine di data, dai consoli Guglielmo Giudice detto Calzagrisia con Marchisio Visconti; Nazario detto Visconti con Arnaldo Giudici detto Superaqua e con Raniero de Addobato; il medesimo Raniero de Addobato con […] detto Giudice e Arderico Zavattari, condannano i massari dell’abbazia di Chiaravalle, i quali lavoravano le grange di Valera e di Vicomaggiore, a consegnare al monastero medesimo ogni anno un carro di legna, 4 polli, due focacce, una carretta di fieno, un fascio di grano e una manna (un covone di paglia o di spighe).
La focaccia medievale è la stessa che consumiamo noi: quae ad focum, seu ignem familiarem, coquitur, ossia, pane di forma schiacciata cotto nel forno; l’etimo deriva dal latino focus, focolare.
I pranzi dell’abate
1241 febbraio
Guglielmo Cotta, abate del monastero di Sant’Ambrogio di Milano, stabilisce le albergarie che gli uomini di Inzago devono dare ogni anno al monastero.
Pergamene per fondi, scat. 316
La maggior parte dei contratti d’affitto dei terreni di proprietà degli enti monastici ai coloni che dovevano gestirli e farli fruttare, prevedeva un canone annuale misto, in natura e in denaro; i beni in natura consistevano nei prodotti ricavati dalle coltivazioni degli appezzamenti di terra: cereali, legumi, vino, frutti (castagne, noci), ecc., e in animali e derivati: pollame, uova, ecc., solitamente in quote fisse. Inoltre, in molti contratti si chiedeva agli affittuari l’albergheria, che consisteva in una contribuzione di viveri, foraggio e a volte alloggio, prestata nell’alto medievo specialmente agli ecclesiastici.
Il monastero di S.Ambrogio, nella persona dell’abate, stabilisce che i massari di Inzago dovranno 25 albergarie consistenti in: pane, vino, polli, carne porcina e carne vaccina, trote, interiora condite con una buona piperata, raviollos et lasanias.
Anche i cavalli devono essere riforniti: il palafreno dell’abate con stara uno d’orzo o di annona bianca (frumento) e gli altri cavalli con una mina di segale e di panico per ognuno.
I pranzi della badessa
1287 – Nota delle spese fatte per la badessa.
Pergamene per fondi, scat. 492
Il gastaldo (amministratore) del Monastero San Maurizio Maggiore di Milano, Ambrogio de Moegiano, redige la nota delle spese sostenute per il mantenimento della badessa del medesimo monastero Pietra Osii nei giorni dal 22 maggio all’11 giugno.
Pietra Osii, badessa del monastero benedettino di San Maurizio Maggiore di Milano, con il suo seguito, visita le proprietà che il monastero possedeva nella zona di Arosio (antico comune ora in provincia di Como, è considerato la porta della Brianza e fa parte del Parco Regionale della Valle del Lambro) nei giorni compresi tra il 22 maggio e l’11 giugno 1287 per controllare i lavori agricoli e l’amministrazione delle proprietà.
Le spese registrate dal gastaldo riguardano soprattutto i costi sostenuti per l’alimentazione della badessa e dei suoi accompagnatori e l’elenco viene scrupolosamente redatto giorno per giorno, e noi lo leggiamo come un menu.
E’ singolare che la nota spese cominci con i costi sostenuti per l’alimentazione dei cavalli: giovedì 22 maggio (primo giorno): 3 staia e una mina di segale per i cavalli, mentre gli umani hanno consumato 22 soldi di pane e 28 di carne. I giorni di martedì e di venerdì viene rispettato il magro, infatti la lista registra il consumo di pesci, chiamati anche “menusse” e “muiollis”, ossia piccoli pesci d’acqua dolce, molto probabilmente pescati nel fiume Lambro che scorre vicino ad Arosio. L’alimento maggiormente consumato è comunque la carne e a volte ne viene specificata la qualità: di capretto, di pollo, di montone e carne salata; la domenica viene servito il vino, talvolta viene registrato che è il barbera (“barberio” nella pergamena).
Le uova vengono mangiate solo due volte e una volta sola compare la frutta: le ciliegie, per soldi 4 e denari 2.
Senza dubbio le ciliegie provenivano dalle terre del monastero che dedicava particolari cure e attenzioni agli alberi che crescevano nelle vigne e nei campi di proprietà dell’ente monastico, tanto che nel 1292 Alcherio Osii, sindaco del Monastero San Maurizio Maggiore, redige l’inventario degli alberi esistenti nei possedimenti di Dugnano e Incirano (fino al 1869 erano due comuni distinti, vennero riuniti sotto il comune di Paderno Milanese, l’odierno Paderno Dugnano). In oltre 770 pertiche di campi, vigne e selve venivano coltivati 85 ciliegi dei quali 6 producevano i “graffioni”, grosse e saporite ciliegie a polpa bianca e soda e buccia bianca e rossa, 217 castagni, 137 noci, 45 querce, 15 olmi e altri 2 alberi “piccoli”, e, a ulteriore dimostrazione delle attenzioni di cui erano oggetto, ognuno dei 501 alberi elencati viene descritto: grosso, novello, azucato (cimato).
Proseguendo la lettura del menu sappiamo che come condimenti erano usati l’olio, il sale e la peperata.
Poche sono le testimonianze sulla coltivazione degli alberi d’ulivo in questo periodo, si deduce che la maggior parte dell’olio usato proveniva dalla spremitura delle noci, come racconta un passo di Bonvesin da la Riva …Di noci vi è un’abbondanza incredibile e i cittadini, cui piacciono, ne fanno un uso continuo durante tutto l’anno: le impastano triturate con uova cacio e pepe e ne fanno un ripieno per le carni durante l’inverno; ne traggono un olio molto adoperato fra noi.”
(Bonvesin da la Riva Le meraviglie di Milano, traduzione e testo di E. Verga, pag. 26, Arnaldo Forni ed. 1973)
Bibliografia: E. Occhipinti Il contado milanese nel secolo XIII, Cappelli ed. 1982.
L’inventario degli alberi
1292
Pergamene per fondi, scat. 492
Alcherio Osii, sindaco del Monastero San Maurizio Maggiore di Milano, redige l’inventario degli alberi esistenti nei possedimenti del medesimo Monastero a Dugnano e a Incirano.
La peperata
1386 aprile 18, Milano
Panigarola Statuti, Registro n. 1 cc. 110 t-111v
Disposizione del 1386 che stabilisce i prezzi di vendita della peperata, nelle due versioni, forte e dolce; inoltre deve essere preparata rispettando la ricetta fissata dal Comune di Milano (secundum ordines Comuni Mediolani): piperata fortis bene gialda zafrano et bene ordinata et pista secundum ordines Comuni Mediolani, imperiali duodecim pro onza, piperata speziorum dulcis et bona ut supra, imperialium duodecim pro onza. La grida prosegue fissando i prezzi delle spezie e di altri generi venduti dalle drogherie di Milano e circondario: pepe, zinzabro (zenzero), cannella, mandorle, uva passa, garofano (si intende non il fiore ma la spezia che si ricava dalla pianta), zucchero, riso, miele e cera per candele.
La peperata, nei documenti piperata, era una salsa molto adoperata nel Medio Evo per condire carni e pesci; a base di pepe, zenzero e zafferano, era venduta nelle spezierie nelle due versioni, forte e dolce. Nel 1430 ne venne stabilita per decreto del Vicario di Provvisione la ricetta; per la versione forte le dosi degli ingredienti erano: 3 libbre di pepe, 1 libbra di zenzero della Mecca (michini) e once 1,5 di zafferano. La peperata dolce era composta da 14 once di pepe, libbre 1,5 di zenzero della Mecca, 2 once di zafferano, 3 once di chiodi di garofano (fustorum garofonorum), 3 once di noce moscata (nuchum mustatum) e 8 once di cinnamomo.
(Laghi A. Piperata e spezie nei Registri del Tribunale di Provvisione del Comune di Milano in ASL anno 1957, pag. 443)