Dopo il felice debutto l’editore Lucca, che aveva già pubblicato il David Rizio, chiese a Canepa un secondo lavoro da presentare al Teatro alla Scala. Nacquero così I Pezzenti, melodramma basato sul libretto che il giornalista Fulvio Fulgonio, legato agli ambienti della Scapigliatura milanese, aveva ricavato dall’omonimo dramma di Felice Cavallotti, ispirato a sua volta a un racconto di Emanuel Gonzalès, Les iconoclastes ou les briseurs d’images. L’opera andò in scena Alla Scala il 20 settembre del 1874, ma i pregi di questo lavoro vennero offuscati da un’esecuzione molto modesta, tanto che la critica rimproverò l’autore per aver accettato una compagnia di canto inadeguata.
Il soggetto dei Pezzenti, che dà il nome al dramma, si ispira alla rivolta dei patrioti olandesi contro Filippo II. In realtà già nel dramma di Cavallotti, e successivamente nel libretto di Fulgonio, sono piuttosto i caratteri e le vicende dei singoli personaggi ad assumere grande rilievo teatrale: Enrico di Brederode, capitano dei pezzenti, Maria, figlia dei conti di Rysdal, promessa sposa ad Enrico, e Federico di Toledo, governatore dei Paesi Bassi, pretendente alla mano di Maria.
La prevalenza nel dramma cavallottiano di questa componente 'privata', articolata su un classico triangolo amoroso, rese possibile nella trasposizione librettistica un ricalco fedele dell’originale testo teatrale. Fulgonio riportò nel libretto perfino i versi di due degli svariati inni e canzoni di cui è infarcita l’azione del dramma di Cavallotti: l’Inno dei Pezzenti e la Preghiera di Maria.
A due anni di distanza dal David Rizio era impensabile che Canepa ridisegnasse, per di più in un’opera scritta in tempi molto ristretti, la propria concezione drammaturgico-musicale. I Pezzenti continuano dunque ad essere un lavoro strutturato in numeri musicali dal taglio sostanzialmente tradizionale, nel quale peraltro Canepa prende di tanto in tanto le distanze da certo accademismo facendo leva soprattutto su una diversa qualità dei materiali melodici e su un impiego della 'solita forma' più rispondente alla disposizione drammaturgica delle scene. In particolare il finale dell’opera riesce a distaccarsi dalla convenzionalità del finale del David Rizio, per avvicinarsi ad una condotta più 'aperta', dunque meno influenzata dai vincoli imposti dalla quadratura delle forme melodrammatiche. In questo e in altri numeri musicali inoltre anche la strumentazione si presenta più varia e pertinente e i profili melodici attribuiti ai vari personaggi non di rado si attestano su una vocalità spiccatamente declamatoria.
Il secondo lavoro teatrale di Canepa dunque, pur movendosi all’interno di quel modello di teatro musicale che stenta ancora ad allontanarsi dalle convenzioni post-rossiniane, presenta un più alto grado di originalità, evidente soprattutto in quei momenti in cui il compositore si lascia guidare in maggior misura dalle esigenze dell’azione: un’originalità che, pur ricondotta al reale significato che questo termine può avere nel contesto del teatro musicale italiano dell’Ottocento, prelude alla più matura esperienza teatrale del Riccardo III.
[da: Antonio Ligios, Luigi Canepa: l’esordio operistico, in Musica e musicisti in Sardegna, vol. 3: Cappelle, teatri e istituzioni musicali tra Sette e Ottocento, Sassari, Delfino, 2005]