Biblioteca Universitaria Alessandrina

La Biblioteca Alessandrina può essere definita senza tema di errore il frutto del disegno propagandistico del pontefice Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi; nonostante questo, la prima idea di dotare lo Studium Urbis di una biblioteca si deve far risalire a Carlo Cartari, decano degli Avvocati Concistoriali, che si occupavano della gestione della “Sapienza” di Roma a seguito del Breve di Sisto V. Già nel 1587, infatti, era stata avanzata la richiesta di dotare l’Ateneo di un luogo di lettura per studenti e professori, perché fosse creata
una stabile circolazione di idee all’interno di una struttura universitaria che stava subendo a poco a poco un evidente depauperamento a causa della concorrenza del Collegio dei Gesuiti e delle lezioni private. Lo Studium Urbis, che aveva ricevuto il nome di “Sapienza” solo a partire dal XVI secolo, era stato fondato da
Bonifacio VIII con la bolla In supremae praeminentia dignitatis il 20 aprile 1303; ma solo il contributo di un pontefice entusiasta della cultura, bibliofilo, e al contempo desideroso di gloria personale, avrebbe potuto risollevarne le sorti.

Fabio Chigi, nato a Siena nel 1599, era un personaggio politico di levatura europea: aveva partecipato in qualità di nunzio pontificio alla stesura della pace di Vestfalia, e proprio come “pacificatore di Vestfalia” è infatti ricordato sulla meravigliosa facciata barocca della chiesa di S. Maria della Pace, che fece restaurare tra il 1656 ed il 1667 da Pietro da Cortona. La Guerra dei Trent’anni aveva provocato la virtuale dissoluzione dell’unico vero simbolo dell’universalità politica della religione cattolica, il Sacro Romano Impero, e non è un caso se uno degli artefici della pace che aveva posto fine alla prima vera guerra europea cercasse di rivitalizzare la propria autorità spirituale con mezzi culturali di vario tipo, che facevano perno sullo Studium Urbis, al tempo stesso istituzione concreta e spazio simbolico.

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Il Seicento è in Europa il secolo delle grandi biblioteche, pensate ed edificate ad imitazione di quella fatta costruire da Filippo II nel monastero di San Lorenzo del Escorial dall’architetto Juan Herrera (commissionata nel 1563 e inaugurata nel 1584). Quest’ultima presentava, oltre ad una collezione bibliografica di proporzioni mai raggiunte prima, arredi innovativi, che prevedevano - in luogo dei tradizionali plutei - nuovi scaffali a muro di legno pregiato (cedro, mogano e palissandro), nei quali la disposizione dei volumi era in posizione verticale, invece che orizzontale.

La bolla di fondazione della biblioteca, che dal pontefice prese il nome di Alessandrina, fu emanata il 20 aprile 1667, ma solo il 6 novembre 1670 una notifica a stampa annuncerà l’apertura della stessa “a pubblico uso e comodità”.

Lo Studium Urbis era allora localizzato in corso Rinascimento, nel cuore del rione Sant’Eustachio, nel complesso presso il quale, nel 1642, Francesco Borromini aveva iniziato la costruzione della chiesa dedicata a sant’Ivo Hélory, che avrebbe poi dotato della famosa cupola elicoidale. In quello spazio, nel 1659, l’architetto ticinese gettò le fondamenta delle mura della nuova biblioteca, che fu completata dopo la sua morte, ma per la quale aveva progettato un’aula di ampie dimensioni, suddivisa in tre campate coperte da volte a vela, con scaffali lignei a parete e plutei al centro, su suo disegno. Il palazzo della Sapienza, la cui costruzione era iniziata sotto la responsabilità di Michelangelo durante il pontificato di Leone X ed era poi proseguita con il suo successore Sisto V, è oggi sede dell’Archivio di Stato di Roma.

L’attuale dislocazione della Biblioteca Alessandrina nel quartiere di San Lorenzo, all’interno della Città Universitaria, nel corpo di fabbrica del Rettorato, risale invece al 1935, ossia all’epoca del trasferimento di tutte le facoltà dell’Università La Sapienza nel campus progettato e realizzato tra il 1928 ed il 1935 da Marcello Piacentini e dai suoi collaboratori secondo forme razionaliste. Piacentini ha elaborato sia la struttura della biblioteca (e dei magazzini, che sono sopraelevati e realizzati con un’unica configurazione autoportante che si eleva per quattro piani) sia gli arredi della stessa, in legno e metallo, sobri, eleganti ed estremamente funzionali. Meritano particolare menzione gli scaffali dei depositi librari, che l’architetto fece realizzare dalla ditta Lips Vago in metallo color verde militare, ergonomici e versatili grazie ad una spalliera a cremagliera che consente di far scorrere i ripiani all’altezza necessaria per disporre nella maniera più razionale possibile, e soprattutto senza spreco di spazio, il materiale librario.

La Biblioteca Alessandrina fu considerata fin dalla nascita la più grande biblioteca di Roma dopo la Biblioteca Apostolica Vaticana ed il Regolamento della stessa venne emanato il 21 aprile 1667. Agli Avvocati Concistoriali spettava di nominare due Custodi: il Primo Custode, che avrebbe ricevuto una paga mensile di dieci scudi, ed il Secondo Custode, che avrebbe invece ricevuto una paga di sette scudi. Entrambi dovevano essere sacerdoti ed avevano l’obbligo di alloggiare nell’edificio. Il pontefice Alessandro VII si riservò tuttavia il diritto di nominare per la prima volta il Bibliotecario, incarico per il quale scelse l’avvocato concistoriale Marc’Antonio Buratti, ed i due Custodi. Come Primo Custode nominò Carlo Magri, sacerdote maltese, e come Secondo Custode Fausto Nairone, sacerdote maronita, accomunati dalla provenienza da zone lontane da Roma nelle quali la fede cattolica aveva, nel corso del tempo, dato prova di essere accesa ed intransigente: è probabile che il pontefice li avesse scelti più come custodi di letture che di libri, vista la presenza in biblioteca di volumi proibiti per i quali era necessario prevedere degli irreprensibili guardiani. Il Primo Custode aveva inoltre la facoltà di designare un ministro che tenesse pulita la biblioteca e le finestre, che sarebbe stato remunerato con la cifra di 12 scudi l’anno.

Per quanto concerne le raccolte librarie l’Alessandrina è stata ideata e realizzata secondo il modello della biblioteca cardinalizia: Alessandro VII aveva infatti deciso di fondare un istituto che sopravvivesse alla sua morte, continuando ad accrescersi nel tempo, ma l’intraprendenza e la foga con cui gli Avvocati Concistoriali si dedicarono immediatamente al reperimento del materiale bibliografico sono senza paragone nella storia delle biblioteche. L’Alessandrina, già al momento della sua apertura al pubblico, risultava costituita da un insieme di fondi riuniti sotto la gestione dello Studium Urbis - e ad esso appartenenti - ma purtroppo non mantenuti distinti dal punto di vista dell’autonomia fisica, secondo un principio che sarebbe stato auspicabile e potremmo definire “archivistico”, dal punto di vista della provenienza degli stessi.

Fondo costitutivo della nascente Biblioteca fu, comunque, la “libraria impressa dei duchi d’Urbino”, ricca di oltre 13.000 volumi, che Francesco Maria II della Rovere, morendo senza eredi, aveva lasciato ai Chierici Regolari Minori Caracciolini di Casteldurante (oggi Urbania), e che con chirografo del 22 dicembre 1666 Alessandro VII fece requisire per lo Studium Urbis da Marc’Antonio Buratti. Questi fu inviato, nel corso di un inverno particolarmente freddo e nevoso, a Casteldurante con il compito di curare il trasporto a Roma di tutto il materiale: un inventario completo dei volumi, con la disposizione che gli stessi avevano nelle scansie, si trova ancora oggi nei codici 50 e 51 del Fondo Manoscritti dell’Alessandrina. È possibile asserire che la collezione raccogliesse i frutti di vari secoli di mecenatismo illuminato, comprendendo anche autori proibiti, o sospetti, come Machiavelli, Bruno, Copernico e Keplero. D’altro canto i manoscritti dei duchi di Urbino erano già stati requisiti una decina di anni prima dal pontefice per la Biblioteca Vaticana, presso la quale sono oggi consultabili con la segnatura Fondo Urbinate. L’ultimo duca d’Urbino, Francesco Maria II, appunto, è ricordato ancora oggi come modello di principe illuminato: figlio di Guidobaldo della Rovere e di Vittoria Farnese, trascorse gli anni della sua giovinezza - e della sua formazione culturale - alla corte del re di Spagna, partecipò alla battaglia di Lepanto, combattendo valorosamente alla testa di duemila soldati provenienti dal ducato d’Urbino, e cercò di risanare le malandate finanze del suo stato senza vessare con tasse eccessivamente onerose i suoi sudditi. La biblioteca che egli raccolse rispecchia i suoi molteplici e variegati interessi, interessi che lo avevano portato ad applicarsi ad imprese speculative del tutto insolite per un regnante: si tratta di una delle raccolte più armoniose, più complete, e dalla struttura bibliografica più ricercata e significativa, dell’epoca, ed è la creazione di uno spirito metafisico, di un intellettuale per vocazione interiore e non per professione o lucro. Aver acquisito tale tesoro per la nascente Biblioteca Alessandrina fu un’operazione di importanza strategica risolutiva: il Fondo Urbinate rappresenta infatti ben il 39% dei 34.000 volumi, che in base ai cataloghi sappiamo appartenere in toto alla Biblioteca Alessandrina al momento della sua apertura al pubblico.

Altra fonte di arricchimento per l’Alessandrina furono i doni personali del pontefice e quelli del cardinal nipote Flavio Chigi, questi ultimi doppi della Biblioteca Chigiana, mentre gli altri, identificabili grazie alla nota manoscritta sul frontespizio Donum S. D. N. Alexandri VII apposta dal Cartari, doppi della Biblioteca Vaticana: è necessario infatti ricordare che lo scambio degli esemplari duplicati rappresenta una forma di transazione molto diffusa nel commercio librario, per quanto il concetto di doppio, nei tempi più antichi, debba essere inteso nel suo significato più ampio, riferito cioè all’opera e non all’edizione specifica.

Importanti furono, inoltre, i lasciti dei singoli professori dello Studium, primo tra tutti il Rettore Pierfrancesco de Rossi - o De Rubeis, alla latina - che donò alla Biblioteca manoscritti e testi a stampa, in gran parte rilegati con pergamena verde, probabile opera di una bottega di legatori dell’Urbe, gli Andreoli, verso la quale si sono indirizzati gli studi di codicologia degli ultimi anni.

Da citare ancora i 22 volumi degli Erbari di inizio Settecento, che offrono una testimonianza storicamente molto importante del livello degli studi nell’Orto Botanico di Roma e rappresentano un’attestazione unica nel suo genere.

La Biblioteca Universitaria Alessandrina oggi possiede e gestisce più di un milione di documenti bibliografici ed offre un servizio fondamentale ad oltre 450 utenti al giorno: notevoli sono i problemi di spazio per la conservazione e quelli per la tutela del materiale, ma la passione che ha contraddistinto fin dai primi giorni i protagonisti della sua storia - dal pontefice al Bibliotecario, dal Primo Custode all’ultimo duca di Urbino - si manifesta ancora negli attori di oggi, che lavorano quotidianamente al servizio della cultura.

 

Daniela Fugaro, Direttore della Biblioteca Universitaria Alessandrina