- Fonte:
- Gianni Rodari, Grammatica della fantasia: introduzione all'arte di inventare storie, Torino, Einaudi, 1973.
«Nell'inverno 1937-38, in seguito alla raccomandazione di una maestra, moglie di un vigile urbano, venni assunto per insegnare l'italiano ai bambini in casa di ebrei tedeschi che credevano - lo credettero per pochi mesi - di aver trovato in Italia un rifugio contro le persecuzioni razziali. Vivevo con loro, in una fattoria sulle colline presso il lago Maggiore. Con i bambini lavoravo dalle sette alle dieci del mattino. Il resto della giornata lo passavo nei boschi a camminare e a leggere Dostoevskij. Fu un bel periodo, fin che durò. Imparai un po' di tedesco e mi buttai sui libri di quella lingua con la passione, il disordine e la voluttà che fruttano a chi studia cento volte più che cento anni di scuola. [...]
Io allora, ripartiti i miei ebrei in cerca di un'altra patria, insegnavo nelle scuole elementari. Dovevo essere un pessimo maestro, mal preparato al suo lavoro e avevo in mente di tutto, dalla linguistica indo-europea al marxismo (il cavalier Romussi, direttore della Biblioteca civica di Varese, benché il ritratto del duce fosse bene in vista sopra la sua scrivania, mi consegnò sempre senza batter ciglio qualsiasi libro di cui gli avessi fatto regolare richiesta); avevo in mente di tutto fuor che la scuola. Forse, però, non sono stato un maestro noioso. Raccontavo ai bambini, un po' per simpatia un po' per la voglia di giocare, storie senza il minimo riferimento alla realtà né al buonsenso, che inventavo servendomi delle «tecniche» promosse e insieme deprecate da Breton.
Fu in quel tempo che intitolai pomposamente un modesto scartafaccio Quaderno di Fantastica, prendendovi nota non delle storie che raccontavo, ma del modo come nascevano, dei trucchi che scoprivo, o credevo di scoprire, per mettere in movimento parole e immagini»
(Gianni Rodari, Grammatica della fantasia: introduzione all'arte di inventare storie, Torino, Einaudi, 1973, pp. 3-4.