I difficili inizi del “nuovo” Archivio nazionale
Con l’arrivo a Milano dei francesi, per gli archivi si apriva una fase di incertezze destinata a proseguire per tutto il Triennio democratico. Prima ancora che l’Agenzia militare francese e la successiva Amministrazione generale di Lombardia potessero affrontare la questione, il direttore degli archivi governativi lombardi Bartolomeo Sambrunico, rimasto fedele alla casa d’Austria, abbandonò l’incarico.
Tra le diverse incombenze attribuite al direttore generale vi era soprattutto la guida dell’importante Archivio governativo di Milano, istituto concepito nel 1780 per raccogliere tutta la documentazione prodotta dai principali uffici centrali dello Stato di Milano e formatosi a partire dall’anno successivo all’interno dell’ex casa dei gesuiti di San Fedele, nel pieno centro della città.
Alla testa dell’ufficio fu posto provvisoriamente il più stretto collaboratore di Sambrunico, l’archivista Luca Peroni, funzionario di lungo corso che dopo più di venticinque anni di onorato servizio otteneva una promozione insperata.
Per quello che ben presto fu ribattezzato Archivio nazionale si aprì un periodo di forte instabilità, segnato dalla nomina di un nuovo direttore, Carlo Borrone, anch’egli proveniente dalle fila dell’amministrazione asburgica, ma senza alcuna esperienza nel lavoro d’archivio. Mal visto da gran parte del personale, Borrone fu quasi immediatamente relegato ai margini, con il Direttorio della Repubblica cisalpina costretto, quasi a “furor di popolo”, a riassegnare la direzione dell’istituto a Peroni (8).
A essere messa in discussione, in quel frangente, fu l’utilità stessa degli archivi del passato, visti da molti “patrioti” come inutili orpelli. Che senso aveva conservare le testimonianze scritte di norme, leggi, consuetudini e, più in generale, di una società che si consideravano ormai superate? A suggellare il trionfo della nuova era rispetto all’ancien régime giunse, sul finire del 1797, un avviso quanto mai emblematico con il quale il ministro dell’Interno cisalpino annunciò l’imminente vendita della documentazione giudicata inutile, che si conservava in gran copia negli archivi nazionali, per finanziare l’istituzione di una Stamperia che, ironia della sorte, avrebbe dovuto produrre gli avvisi e i proclami delle nuove autorità (6).
Gli archivi cisalpini in mano alla polizia austriaca
Ben altro valore assunsero, da lì a qualche mese, gli archivi correnti prodotti dallo stesso Direttorio e dagli altri organi centrali della Repubblica cisalpina, trasformati in fonti preziose per le indagini della polizia
austriaca.
Con il ritorno di Milano sotto il controllo dell’Austria, per qualche mese rientrò in servizio anche il fedele Sambrunico, che si diede immediatamente da fare per raccogliere e spulciare la documentazione che le autorità cisalpine non erano riuscite a far scomparire.
La ricerca fu condotta soprattutto grazie alla solerzia dell’archivista della Commissione di polizia Giovanni Battista Bianchi, che dopo il trionfale ritorno delle armate francesi fu, non a caso, costretto a riparare in Veneto (9).
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6. L’antico regime mandato al macero
Milano, 22 frimale anno VI [12 dicembre 1797]
Avviso a stampa, in Raccolta delle leggi, proclami, ordini ed avvisi pubblicati in Milano nell’anno VI repubblicano, IV, Milano, Veladini, 1797, p. 62.
Avviso del ministro dell’Interno della Repubblica cisalpina Giuseppe Ragazzi relativo alla vendita delle «carte inutili» degli archivi nazionali a sostegno della nuova Stamperia nazionale
In occasione dell’istituzione di una nuova Stamperia nazionale, necessaria a «procurare la più sollecita diramazione delle disposizioni» emanate quotidianamente dalle «autorità costituite», il ministro Ragazzi annunciò la volontà di procedere entro dieci giorni alla vendita della documentazione degli archivi nazionali ritenuta inutile.
La proposta era rivolta in particolare ai «fabbricatori di carta», che avrebbero potuto acquisire il materiale scalandone il valore dal costo delle forniture di carta destinata alla stessa Stamperia, contribuendo dunque a un processo assai “virtuoso” per le casse dello Stato.
La scelta di finanziare la produzione di nuova documentazione con l’alienazione delle scritture pregresse, destinandole al macero come materia prima per le cartiere, è di per sé emblematica. Agli occhi di quanti si sentivano protagonisti di una nuova era, molte leggi e disposizioni del passato avevano perso gran parte del loro valore, rendendo di conseguenza inutili le relative prove documentarie.
8. L’archivista Luca Peroni «capo» e «arbitro unico» dell’Archivio nazionale
[Milano], 21 novembre 1799 [data di registrazione]
ASMi, Atti di governo, Studi, Parte antica, b. 36
Relazione riservata di Carlo Borrone, ex direttore dell’Archivio nazionale di San Fedele, alle autorità austriache rientrate a Milano nel 1799.
Nell’intento di allontanare da sé i sospetti di aver messo mano alle scritture abbandonate a Milano nel 1796 dagli austriaci, Borrone raccontò la sua versione delle vicende occorse all’istituto e ai suoi fondi durante il Triennio democratico, attribuendo qualsiasi responsabilità a Luca Peroni, archivista di lungo corso entrato in servizio negli archivi lombardi nel 1770.
Dopo il ritiro a vita privata dell’ex direttore filoaustriaco Bartolomeo Sambrunico, nel 1796 Peroni aveva effettivamente ottenuto la tanto agognata promozione alla guida dell’Archivio. Passati pochi mesi, però, il suo posto era stato assegnato proprio a Borrone, anch’egli esperto funzionario asburgico, ma del tutto a digiuno della materia, essendosi per lo più occupato di censura libraria.
Sin dai primi giorni di lavoro — narrava Borrone — egli era stato relegato nel suo ufficio, «riguardato dagli officiali come un intruso e dal Peroni con occhio geloso», mentre quest’ultimo aveva mantenuto il ruolo di «capo» e «arbitro unico dell’Archivio», tanto che le stesse autorità cisalpine già nel 1798 erano state costrette a invertire i ruoli, riconoscendo al navigato archivista la preminenza sul collega.
Pur considerando la faziosità della testimonianza, volta evidentemente a difendersi dalle possibili accuse di aver favorito oltremodo il nemico, dalle parole di Borrone traspare il disinteresse mostrato in quel frangente dalle autorità francesi e cisalpine verso l’Archivio nazionale, lasciato in balia degli impiegati, che “elessero” a propria guida Peroni.
9. I «patrioti» nascosti negli archivi
[Milano], 21 maggio e 5 luglio 1799 [date di registrazione]
ASMi, Atti di governo, Uffici e tribunali regi, Parte antica, b. 257
Rapporti dell’archivista Giovanni Battista Bianchi alla Commissione di polizia istituita durante i Tredici mesi di occupazione austriaca.
Con il rientro degli austriaci a Milano, gli archivi della prima Repubblica cisalpina si trasformarono ben presto in strumenti per condurre indagini di polizia su quanti avevano aderito con troppo trasporto al precedente regime.
Parte della documentazione fu concentrata nell’ex convento di Sant’Antonio, per essere passata in rassegna dallo stesso Bianchi e sottoposta al vaglio della polizia, come avvenne per «un piccol fascio contenente diversi elenchi de’ patrioti più energici di alcuni dei dipartimenti della ex Repubblica cisalpina».
Prima dell’arrivo a Milano delle truppe austro-russe, una mano ignota e previdente aveva comunque operato un «rilevante spoglio» delle scritture destinate a restare in città, eliminando, «singolarmente», proprio quelle riguardanti «oggetti di guerra e di polizia».