- Fonte:
- Giorgio Scerbanenco, Venere privata; in appendice Io, Vladimir Scerbanenko, Milano, Garzanti, 1990.
«Poi venimmo a Milano, dove mamma cominciò ad ammalarsi e a entrare e uscire dall'ospedale, più tardi seppi che era un tumore, e dopo l'operazione rimase per sempre in una sala dell'ospedale in via Commenda, dove andavo a trovarla molto raramente. Dovevo lavorare, dovevo leggere i libri presi in prestito alle biblioteche, dovevo scrivere e non capivo niente della vita intorno a me, non vedevo nulla, ero come cieco e certo per questo soffrii pochissimo in quel periodo che pure fu così amaro.
[...]
Rimasi lì da Borletti un anno e mezzo. Feci anche carriera. Si accorsero che ero un poeta e mi misero al magazzino spedizioni, a scrivere l'entrata e l'uscita delle merci. [...] Come nelle biografie degli eroi americani, la sera studiavo. Soltanto non avevo lo spirito pratico degli eroi americani, e così studiavo filosofia. Prendevo i libri in prestito alla biblioteca del Castello Sforzesco, e li leggevo poi all'osteria dove mangiavo. Siccome l'osteria chiudeva all'una, smettevo di leggere i trattati di filosofia all'una, poi andavo a dormire all'albergo popolare. Lavorando, stavo diventando ricco, e non stavo più nel dormitorio comune, ma avevo la stanzetta che costava di più. In quella stanzetta, non più larga di un grosso baule, ho imparato la logica di Kant e la dialettica di Hegel e lo scetticismo di Hume.»
(Giorgio Scerbanenco, Io, Vladimir Scerbanenko [1966], p. 223-252: 229, 234).