Gargiulo (1955)

Fonte:
Alfredo Gargiulo, Tempo di ricordi, prefazione di Emilio Cecchi, Brescia, Morcelliana, 1955.

«Passavo a quel tempo le mie intere mattinate in biblioteca, e non infrequente era il caso che mi trovassi là troppo presto; rimanevo con altri ad aspettare che la porta si aprisse al pubblico.
I miei compagni in questo zelo, gli «studiosi» fin dalla primissima ora! Non so come facesse a raggiungere la monumentale altezza di quel secondo piano, un tale, tremante d’inverno in un chiaro vestitino d’estate, tanto affannava e tossiva. E un giorno infatti scomparve. Immancabile v’era uno, noto a tutti gli assidui, che da un tempo non definito veniva ad immergersi nella lettura dello stesso libro; e sarebbe poco: alla stessa pagina.
Mi domando se la crudeltà dei vent’anni, essa sola, faceva apparirmi anche vecchi, in genere, i componenti la miserevole compagnia. Ma forse intuivo giusto, almeno in un certo senso: spirava da coloro, indistintamente, qualcosa che vorrei chiamare la «disoccupazione definitiva».
Né poi i vecchi d’anni mancavano. Due ne ho presenti, dalla cui attenzione io ero preso di mira; ed oggi sono in grado d’intendere il penoso significato di quegli sguardi che, partendo da un così lontano fondo, cercavan di raggiungere la mia gioventù. Negli occhietti sbiancati dell’uno, l’ammirazione nostalgica si traduceva in pura, sconfinata umiltà; in quell’altro, che mi risalutava quasi ogni volta che lo guardassi, l’umiltà torbida invece, voleva farsi lusinga, strumento d’approccio.
Attendere i libri, prenderli, e leggerli in una sala in comune, in presenza di altri, costituiva per me un punto alquanto difficile da superare. La ringhiera di legno della distribuzione, che ci riuniva tutti, mi diventava una specie di traguardo; e di essere fra tali «concorrenti», – con quell’urgenza ogni giorno di riattaccarmi ai vecchi libri, – mi pungeva una sottile vergogna.
Di fronte a chi? I benedetti scontrosi vent’anni non spiegano abbastanza quel senso di mortificato pudore. Contribuiva non poco al mio confuso disagio, questo è certo, la presenza dell’uomo dietro la ringhiera. Era soltanto l’usciere addetto al materiale passaggio da una mano all’altra, delle schede e dei libri. I miei compagni lo sogguardavano appena, con una soggezione sconfinante nella paura; io, sebbene potessi sorridere della paura, quanto capivo quella soggezione!
Penso a quando l’uomo veniva sostituito da un compagno: risento l’effetto assurdo che mi faceva il cambio. Il sopravvenuto si mostrava cacciato lì, misero anche nell’aspetto, a compiere una funzione scaduta da ogni dignità. O che forse tanto alta era la funzione? Una domanda simile, allora, mi avrebbe sorpreso prima che infastidito.
Subentrava nel posto uno qualunque: ebbene, per me era come quando non si tollera, perché neanche lo si «raffigura», il nuovo designato a rivestire l’autorevole carica di chi ci era sembrato personificare la carica stessa fino all’altezza del simbolo, legato a quella senza vincolo di tempo.
Talvolta pure mi accadde di vedere il nostro addetto alla distribuzione, fuori, per la strada, nel suo vestito privato e in cappello: una rimpicciolita figura tra l’agente di forza pubblica e il contadino; e sfuggente, perché tutto raccolto in se stesso, egli andava lestissimo. Ma nella memoria questa impressione è inerte; invece il personaggio vi resta vivo nella sua uniforme color tabacco sporco, filettata di giallo: inseparabile da essa nella misura della nobile naturalezza con cui la portava e, starei per soggiungere, la «superava».
Se è ovvio che talora io incontrassi l’uomo anche in altre sale o nei corridoi della biblioteca, ciò non toglie che la sua immagine mi si ripresenti, con la maggiore spontaneità, sempre al posto indicato. Anzi in un particolare momento: nelle soste; allorché egli, quasi sull’attenti, una mano appena poggiata al tavolo delle sue operazioni, lo sguardo fisso un po’ in alto, appariva come assorto unicamente nell’attesa di essere di nuovo richiesto del suo lavoro. Tale atteggiamento, provvisorio quanto mai, assume invece per me carattere permanente.
Non è meraviglia, del resto. Avevo allora l’ingenua, perfetta illusione che in quella immobile figura di profilo, «tutto l’interno» fosse palese alla vista come in un quadro: intendo appunto, senz’altro, «tutto» quello che qui ora vuole un così lungo discorso.
Ma intanto noto: una cosa essenziale certamente sfuggiva alla fervida attenzione del riguardante, data la sua età felice: cioè la condizione del pover’uomo, in quanto si guadagnava così il suo pane. Il pover’uomo intravisto per la strada; che avrà avuto moglie, figli; le cui corse preoccupate saranno state verso casa.
Ora un usciere, ora anche qualcuno degli impiegati circolanti per la distribuzione, un superiore quindi, si avvicinava al nostro personaggio per sussurrargli all’orecchio qualcosa; non prima peraltro che egli facesse cenno di poter dar loro ascolto. Evidentemente, nella consuetudine, colui doveva suscitare un bisogno di confidarglisi pari al rispetto. Lo volevano giudice a sfogo dei reciproci risentimenti, e non gli risparmiavano il racconto di un solo incidente increscioso o ridicolo del servizio. Tutto quel che avveniva nelle sale interne, credo, gli avrebbero volentieri riferito; quasi con l’inconscio desiderio di averlo in un modo qualsiasi onnipresente. Non chiedevano che di essere sentiti, per tornar via soddisfatti; o sentirsi, nel caso, più sicuri di sè e delle proprie ragioni. L’ascoltatore di solito rimaneva muto: che importa? Bastava ai ricorrenti quella sua pronta attenzione, proporzionata ogni volta, si sarebbe detto, al peso che ciascun di loro dava alla comunicazione propria. Sicché nessuno mostrava di avvertire, nel lieve commento mimico che teneva luogo di risposta, ciò che pure apertamente si leggeva. Erano le sfumature, appena, di una disposizione indulgente sempre eguale, e distaccata quanto più comprensiva.
Certo, da paragonarsi alla forza di chiusura degli uomini l’un contro l’altro, c’è solo, a questo mondo, l’intensità del loro fondamentale bisogno di spezzare la chiusura e aprirsi, affidarsi a qualcuno. Fate che ne intravedano la possibilità: vi si precipiteranno con lo slancio dell’assoluta fede. Ma se io non ero in grado, allora, di cogliere tutta la profondità d’un tale rapporto, non perciò l’eroe del mio giovanile ricordo grandeggiava meno nella mia ammirazione. Quella sua umanità! L’idea di «umanità multanime»: ecco appunto quale era, al tempo di cui parlo, fra le mie vergini idee la più alta e gelosa.
Se cerco di definire il senso che allora avevo di quel mio frequentare la biblioteca e dello studio e delle letture, non posso se non scrivere, così, con la maiuscola, la parola: Vita. Nei libri non perseguivo altro: trovarla, era ogni volta un rapimento; non importa se soltanto qualche rara opera, alla fine, sapesse darmi espressioni di vita alla profondità cui, oh, come ne ero sicuro! le avrei poi fermate io stesso. Era questo, anzi, il maggior motivo dello slancio e della gioia; e restava ancora al di là di tutto questo, ultimo magnifico termine di conquista, per se stessa, fuori dai libri, la vita, nella sua realtà; e, in essa, le persone vive con le loro qualità essenziali. Come quel mio personaggio, ch’io andavo così intensamente osservando.
A noi del pubblico, l’uomo dietro la ringhiera non dava intanto che rapidissime occhiate. Non di più gli occorreva per conoscere i frequentatori ad uno ad uno; né intendo solo per associare alle persone i nomi e i libri abituali.
L’«umore» degli assidui non gli restava ignoto di sicuro. E a me sembrava perfino che il suo tratto fosse, verso quelli, sempre opportunamente diverso.
Soprattutto avevo l’impressione che, porgendo i libri a qualcuno dei lettori «eccentrici», egli accompagnasse l’atto, in modo appena percettibile, con un sorriso: il sorriso dosato o più di benevola ironia o più di compassione, che quegli precisamente si meritava.
Ma la memoria, la pratica, che doveva posseder colui di tutta la biblioteca e del servizio, il suo prezioso intuito nelle varie ricerche: su ciò non credo davvero che potessi ingannarmi. Gli era sufficiente quella medesima attenzione, fuggevole in apparenza, alle schede, ai libri; ed ogni sbaglio dei distributori veniva chiarito davanti al suo tavolo, prima che avesse a riscontrarlo l’interessato. Alle difficoltà che i distributori gli comunicavano, egli rispondeva con indicazioni, suggerimenti; o infine cedeva il suo posto, nei casi più complicati, per intervenir di persona.
Non so da parte di chi, anche s’invocasse il suo aiuto nelle sale interne, allorché ve lo chiamavano con tanta premura, a volte un po’ misteriosamente; e non poteva comunque trattarsi che di questioni attinenti ad altri rami di servizio. Rammento una curiosa scena: un alto funzionario della biblioteca si affida urgentemente per una ricerca al nostro uomo; e rimane lui stesso frattanto, con una scherzosa bonarietà, tranquillamente in attesa, a sostituirlo.
Spesso risuonava poi l’allarmato appello: il Signor Direttore! L’usciere della distribuzione accorreva: l’appello era per lui. Ben giustificata, da quel che dirò appresso, era la mia certezza che il Direttore, il vecchio Abate, dovesse in molte occasioni desiderare di averlo almeno presente, là, sottomano. O allora, perché non gli lasciava addirittura la direzione della biblioteca? Sebbene non ricordi quando, fantasticando, ebbi a formularlo, mi restò fisso in mente questo allegro paradosso.
Eppure le meraviglie della capacità e attività di colui in tale campo, tutte alla fine per me rientravano, come naturali manifestazioni secondarie, nell’ordine stabilito dalla grandezza del mio eroe in quell’altro campo ch’io esploravo: l’umano.
Quasi tutti i giorni, verso le dieci, squillando non so dove, una campanella annunziava l’arrivo dell’Abate. Seguiva un movimento, o uno scappare, tra il personale; qualche voce ammoniva bassa, dava ordini in fretta. Afferrato uno sgabelletto pieghevole che teneva lì a portata di mano, l’uomo della ringhiera abbandonava il posto al compagno già sopraggiunto, e si precipitava per le scale. Soltanto a lui il vecchio si affidava, per la faticosa salita.
Quanto tardava quell’avvenimento sempre solenne: l’ingresso dell’insigne Abate, il suo lento passaggio attraverso la prima sala dei lettori! Non v’era certo da sbagliarsi, immaginando che il vecchio, aggrappato al suo sostegno, sostasse scalino per scalino, e lunghissimi fossero i suoi riposi sullo sgabelletto, ad ogni ripiano.
Finalmente la coppia appariva. Lo sguardo e il sorriso tremanti si sforzavano a significare una specie di luminosa bontà benedicente tutti noi; mentre solo riflettevano la soddisfazione, ancora un po’ incerta, della superata fatica. Perciò, quand’essi si rivolgevano alla persona dell’accompagnatore, si facevan più chiari nella espressione d’una elementare, quasi animale riconoscenza.
Ma anche nelle mani il vecchio tremava: tutto, veramente, pareva che in lui tremasse; sicché mi domandavo se le «idee» almeno, in tali momenti egli riuscisse a tener ferme. Non era ignota la sua irosa volubilità nei riguardi del servizio; e così, quale ora appariva su quella soglia, e sapendolo angusto, tormentato da manie, capace d’ogni animosità e ingiustizia, il «venerando uomo», il dotto di gran fama, lo «studioso all’antica», non suscitava soprattutto, un senso di commiserazione?
A contrasto, io consideravo l’altra figura. E non potevo dubitare: il «sapiente» Religioso, il «saggio» Abate si faceva reggere dal braccio di quell’ultimo fra i suoi dipendenti, vi si teneva così stretto, per ragioni in realtà a lui stesso oscurissime.
Saggezza, sapienza: grosse parole; e tuttavia si sarà inteso che le assorbiva e giustificava quel mio infervorato culto dell’«umanità». Ad esso sottostava, del resto, – e dirlo mi par quasi superfluo, – una più larga fede, non meno esclusiva: la fede, in generale, nelle qualità native e «sintetiche» degli uomini; col suo rovescio: una insofferente disistima dell’acquisto, dell’«analitico». Richiamo la vergogna, notata in principio, che mi dava la frequentazione dei libri tra la gente. Rievoco l’ex-compagno di scuola, che di solito in biblioteca mi sedeva accanto: perso sui libri intere giornate a tutto indifferentemente imparare, all’unico scopo di imparare. Il suo triste impegno mi faceva pena e ripugnanza insieme; e quale sollevazione d’orgoglio, se pensavo di poter essere paragonato a lui! Nessuno avrebbe mai sospettato, che là dentro io stessi ben altrimenti che da semplice «studioso»; e che i libri fossero per me, – o addirittura, Dio mi perdoni, per me solo? – un’«altra cosa». Ma ecco, prima, la necessità di una confessione. Mi piacque fantasticare, talvolta, intorno alla specie privilegiata degli eventi che sembrano in qualche modo legittimar l’idea di preordinazione ad un fine. E dico dunque che a ciò mi dette occasione anche il ricordo, sempre vivo negli anni, dell’uomo la cui figura mi son deciso infine a tracciare. Colui non mi si era presentato a testimoniare, personificandole meravigliosamente, alcune disposizioni fondamentali del mio spirito? e proprio nel tempo che di esse io prendevo un’inebriante coscienza, in condizioni favorevoli al loro imperioso risalto? Questo è certo: da una parte stava la genialità del mio umile eroe: dall’altra tutto quel mondo della faticata cultura.
Là intanto io creavo tutto un altro mio mondo da scoprire e conoscere con appassionato fervore. Stato di effettiva beatitudine, se ve n’è uno sulla terra, tale avidità intatta: non è essa la «gioventù assoluta»? Gli uomini esistiti ovunque e in ogni tempo, e forse quanto più accesi da passioni e lacerati da contrasti nelle pagine della storia; figure d’uomini, passioni, contrasti creati dal genio umano nei secoli; e l’umanità presente, viva e operante nella immensità e bellezza del mondo: tutto ciò, alla pari, perdeva ogni senso che non fosse di spettacolo, predisposto unicamente perché se ne esaltasse quest’ultimo venuto. Il quale credeva d’aver tanta ragione di riconoscersi fuori serie, fuori causa. Avesse potuto parlare; non glielo avesse impedito quel suo feroce pudore; sapremmo da lui stesso, anche da quale missione egli si sentiva fatalmente investito.
L’assiduità che posi nel frequentare la biblioteca, quella che mi si doveva poi imprimere nella memoria come la biblioteca per eccellenza, fu quindi una specie di sistemata frenesia. L’èmpito che ogni mattina me la faceva ricercare; l’èmpito che me la faceva lasciare!
Eccomi al mio posto. Davanti alle possibilità infinite, folgoranti in un unico momento, talvolta mi sentivo soffocare; e smarrito mi guardavo intorno. Pareva che la stessa sontuosità dell’immenso salone volesse sopraffarmi; attraverso le vetrate del balcone lì presso, al di là della via larga come fiumana, vedevo donne affacciarsi indifferenti a balconi e finestre, scomparire, ricomparire.
Ma sarebbe un bel raccontare, se potessero assumere forma comunicabile le mie occupazioni di allora, nel resto della giornata: i miei vagabondaggi, gli svagati itinerari. Fuori, dico, e dentro di me: slanci, stanchezze, cadute. E sempre quell’insostenibile struggimento a vuoto, verso sera, nell’ora che precede i lumi: d’estate, d’inverno; poiché le stagioni, infatti, m’era crudeli ciascuna a suo modo. E quel ritrovarmi poi d’un tratto con la mia felicità non solo ricostituita, ma ancor più splendida; dato che tutta l’affidavo, ormai, alle magnifiche «soluzioni» dell’indomani. La biblioteca entrava nel giuoco, e quanto. In me veniva addirittura a provarsi, che uno può pensare anche ad una biblioteca, dall’oggi al domani, come si pensa all’innamorata nell’attesa del prossimo incontro.»

(Alfredo Gargiulo, In biblioteca, a vent’anni, in Tempo di ricordi, p. 29-40)

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