- Fonte:
- Giovanni Papini, Un uomo finito, Firenze, Libreria della Voce, 1913.
«Un milione di libri
Dopo qualche anno di letture furiose e disordinate mi accorsi che i pochi libri ch’erano in casa e quegli altri pochi che potevo avere o ricorrendo alle scarse librerie di parenti e conoscenti o comprandone qualcuno usato coi centesimi risparmiati sul companatico o coi soldi rubati alla mamma, non bastavano. Seppi da un ragazzo un po’ più grande di me che c’erano in città grandissime e ricchissime librerie aperte a tutti, dove in date ore si poteva andare, chiedere qualunque libro si volesse, e, quel che più conta, senza spender nulla. Decisi di andarci subito. C’era però una difficoltà: per entrare in que’ paradisi bisognava aver per lo meno sedici anni. Io ne avevo dodici o tredici ma per l’età mia ero anche troppo alto. Una mattina di luglio mi provai. Salii uno scalone, che a me parve largo e solenne, tremando. Dopo due o tre minuti di incertezza e di batticuore infilai nella saletta delle richieste, scrissi alla peggio la mia scheda e la presentai con l’aria impacciata e sospettosa di chi sa d’essere in fallo. L’impiegato – lo ricordo ancora: sia maledetto! era un omicciuolo con tanto di pancetta e due occhietti cilestri di pesce morto e una piegaccia maligna a’ due lati della bocca – mi squadrò con aria di compatimento e colla sua esosa voce strascicata mi chiese: Scusi, quanti anni ha lei?
Io feci il viso rosso più per la rabbia che per la vergogna e risposi, facendomi più vecchio di tre anni:
– Quindici.
– Non bastano. Mi dispiace. Legga il regolamento. Torni fra un anno.
Uscii di là umiliato, indispettito, abbattuto e tutto gonfio di odio fanciullesco contro quell’orribile uomo che impediva a me, povero e affamato di sapere, il libero uso di un milione di libri e così mi rubava vigliaccamente, in nome d’un numero scritto, un anno intero di luce e di gioia. Avevo intravisto, entrando laggiù, una sala lunga e vasta, con venerabili seggioloni ad alta spalliera coperti di panno verde, e tutto intorno libri libri e libri, libri vecchi grossi e massicci, colle costole di pergamena e di pelle, scritte e fregiate d’oro: una meraviglia! E ognuno di que’ libri chiudeva quel che cercavo, offriva quel cibo ch’era fatto per me: storie d’imperatori e poemi di battaglia, vite di uomini semidivini, libri santi di popoli morti, e le scienze di tutte le cose e i versi di tutti i poeti e i sistemi di tutti i filosofi. E quelle migliaia di promesse in lettere d’oro eran per me: a un mio comando i volumi che aspettavano sotto la polvere, dietro la rete fitta degli scaffali, sarebbero scesi verso di me, e l’avrei squadernati e sfogliati e divorati a mio piacere!
Non aspettai neppur un anno per tentar la seconda prova. Anche questa riuscì male. Dovetti arrivare ad una altra estate per vincere. Avevo poco più di tredici anni – forse tredici anni e mezzo.
Insieme a un altro ragazzo più grande di me, che da un pezzo entrava là senz’inciampo, finalmente passai. Per non dar nell’occhio e non passar da bambino in cerca di passatempo chiesi un libro serio, un libro di scienza – quello del Canestrini su Darwin.
C’era questa volta al di là della parete di legno e di vetro un altro impiegato – un tipo alto e secco come un uccellaccio pelato, sgarbato nelle mosse e che non stava mai fermo. Prese la mia richiesta senza guardarmi, ci fece su un segnaccio con un lapis blù e la passò ad un ragazzotto ch’era lì presso senza far parola.
Aspettai mezz’ora, rodendomi dentro dalla paura che il libro non ci fosse o che non volessero portarmelo. Quando venne me lo strinsi sotto il braccio ed entrai tutto vergognoso e in punta di piedi nella gran sala di lettura. Non avevo provato mai un tal senso di riverenza – neppure in chiesa da piccino. Come spaventato dal mio ardire e dal trovarmi là dentro, dopo tanto, in mezzo a quel gigantesco reliquiario della sapienza dei secoli, andai a sedermi sul primo seggiolone libero che mi si parò dinanzi. Era tale lo smarrimento e il piacere e lo stupore e il senso d’esser divenuto ad un tratto come più grande e più uomo che per quasi un’ora non riuscii a capir nulla nel libro che avevo dinanzi.
Tutto là dentro mi pareva santo e maestoso come il ritrovo di una nazione. Quei seggioloni sudici e stinti, coperti di stoffa dove lo scolorito verde finiva nel giallo o si nascondeva sotto l’untume nero, sembravano a’ miei occhi colossali e fastosi come troni e il vasto silenzio mi pesava sull’anima più grave e solenne di quello d’una cattedrale.
Dopo quel giorno ci tornai tutti i giorni, per tutto il tempo che la tediosissima scuola mi lasciava libero. A poco a poco feci l’abitudine a quel silenzio, a quella stanzona così alta sopra la mia testa arruffata di adolescente trascurato, a quella ricchezza sterminata di volumi antichi e nuovi, di giornali, di riviste, di opuscoli, di atlanti, di codici e di manoscritti. Diventai presto come di casa, imparai le faccie dei distributori, scopersi i segreti delle segnature, penetrai nei cataloghi, conobbi i visi dei fedeli e degli appassionati che venivano come me, tutti i giorni, precisi e impazienti come a un ritrovo di voluttà.
E mi gettai a capofitto in tutte le letture che mi suggerivano le mie pullulanti curiosità o i titoli de’ libri che trovavo in altri libri visti nelle vetrine e sui barroccini e intrapresi allora, senza esperienza, senza guida, e senza un qualsiasi disegno, ma con tutto il furore e l'impeto della passione, la vita dura e magnifica dell’onnisapiente.»
(Giovanni Papini, Un uomo finito, p. 13-16; la testimonianza si riferisce alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)