Costa (2009)

Fonte:
Lella Costa, La sindrome di Gertrude: quasi un'autobiografia, con Andrea Càsoli, Milano, Rizzoli, 2009.

«A questo punto qualcuno dei lettori di cui sopra, giustamente stremato, potrebbe commentare: «E allora, di grazia, perché ci stai sfinendo proprio dalle pagine di un libro?». Bella domanda. Risposta scontata: perché me l’hanno chiesto, e sono stati convincenti (sai che sforzo, con la sindrome che mi ritrovo). [...] O forse perché ho avuto la fortuna di leggere (prima di lasciarle nella biblioteca di un carcere, come vi racconterò più avanti) quelle due pagine di Ignacio Paco Taibo II che cominciano così:
«Scriviamo con la sensazione scostante che nulla di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale, eppure, allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata giungla cittadina di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando e tutto quanto un giorno potrà cambiare. [...]».
(Lella Costa, La sindrome di Gertrude: quasi un'autobiografia, p. 26-27).

«Qualche anno fa sono stata invitata all’inaugurazione della biblioteca del carcere di Bollate, la cui direttrice, Lucia Castellano, è un fiume in piena di generosità, intelligenza, energia; insieme all’amato Gigi Pagano e a Giacinto Siciliano, direttore di Opera, per me è una figura leggendaria: puro mito. Avevo scelto di leggere Scriviamo, le due pagine memorabili di Paco Ignacio Taibo II, tratte da Te li do io i Tropici (Tropea), cfr. pp. 27 e segg., e il racconto di Erri de Luca che ho amato di più, In alto a sinistra (Feltrinelli), in cui l’autore racconta gli ultimi mesi di vita del padre, l’umiliazione della malattia, le lunghe conversazioni notturne, le discussioni interminabili sui libri («ama anche i libri del tuo tempo»). In alto a sinistra è il punto in cui comincia ogni nuova pagina: emozione, attesa, scoperta, alba. Struggente. Finito di leggere, e di commuovermi, mi è sembrato giusto lasciare proprio quei due libri alla neonata biblioteca; li ho appoggiati su un tavolo, mi sono allontanata a salutare altri ospiti, poi mi sono voltata, ed eccola lì, la scena da film: un detenuto e una guardia, di spalle – tutti e due alti, tutti e due giovani – stavano sfogliando i miei libri, le teste vicine, concentrati. Un colpo basso. Roba che quando te la propinano in qualche fiction televisiva, una scena così, ti viene da dire: insomma basta con tutta ’sta retorica, ’sto buonismo, mica succede nella vita vera. E invece, come dice Sylvia Plath (poi la smetto con le poesie, giuro): «Avvengono miracoli». Basta essere disposti a vederli, e soprattutto a riconoscerli.»
(ivi, p. 60).

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