- Fonte:
- Giorgio Amendola, Un'isola, Milano, Rizzoli, 1980.
«Le giornate erano lunghe [nel carcere di San Vittore], mi sentivo un leone in gabbia. Come passare il tempo, senza andare a rimuginare sempre gli stessi pensieri? Chiesi i libri della biblioteca. Venne un cappellano, dall'aria gentile. Gli dissi subito, con aria sprezzante, che ero ateo, che non avevo bisogno di un prete, ma di libri. Non si scompose, e mi rispose quieto che non era venuto come prete ma come bibliotecario. Rimasi mortificato per la mia inutile scortesia. Di regola si potevano avere due libri la settimana, ma a me, "data la mia cultura", ne concesse quattro. Lo conquistai scegliendo nel catalogo, tra i primi, I promessi sposi ed il Marco Visconti. Non ricordo i motivi di quella scelta. Forse perché mi trovavo in Lombardia. Fu la prima lettura seria dei Promessi sposi e ne compresi finalmente il valore. La biblioteca era vecchia. Vi trovai molti romanzi ottocenteschi, D'Azeglio, Guerrazzi, anche padre Bresciani. Trovai motivi di freschezza, e di speranza nella capacità dell'uomo, con la lettura attenta e ripetuta, fatta a voce alta, dei canti dell'Iliade e dell'Odissea nelle vecchie traduzioni Sonzogno di Vincenzo Monti e di Ippolito Pindemonte. Una volta si fermò allarmato il secondino ed aprì lo sportello per vedere con chi parlassi. Gli indicai il libro che leggevo. Era il brano dell'incontro di Nausicaa con Ulisse. Se ne andò con un cenno che significava che mi considerava un po' matto.»
(Giorgio Amendola, Un'isola, p. 92).
«A Roma mi ficcarono in un'automobile, e di corsa a Regina Coeli. [...] Rimasi in isolamento per circa dieci mesi. [...] Dopo la minestra, studio e letture. La biblioteca del carcere mi forniva libri di viaggi, quelli di Appelius, allora in gran voga, ma anche di vecchi esploratori, una grande storia dell'India, un volume di un missionario dell'Amazzonia. Così il grande mondo lontano giungeva sino nella mia cella.»
(ivi, p. 94-95).