- Fonte:
- Tommaso Landolfi, Ombre, Firenze, Vallecchi, 1954.
«Il pomeriggio d'agosto regnava incontrastato la Biblioteca di Facoltà dell'Ateneo fiorentino. I bibliotecari, tra cui uno con lunga barba nera, boccheggiavano là in fondo; il paio di lettori e la lettrice sparsi per la sala in languide pose, non si capiva bene se sonnecchiassero o fossero stati assunti in beato stupore. Poi c'ero io stesso, studente in quei felici giorni, che, non tanto per prepararmi a un vicino esame (tali non furono mai le mie preoccupazioni) quanto nel vano tentativo di scacciare la noia, mi andavo di poco in poco azzufficchiando con certo testo da fare accapponar la pelle. Ed ecco, a un tratto, mi sentii saltare addosso qualcosa. Conoscevo questo qualcosa e lo temevo. Era come una voglia di stiracchiarsi, di respirare una boccata d'aria libera, magari di fare un malestro; era infine esso medesimo un malo estro, che in generale mi prendeva appunto in qualche pomeriggio d'agosto. Per dirla in breve, questa volta pensai: Far l'occhiolino all'unica ragazza presente, non ci so veder costrutto, tanto ella è occhialuta. Invece una partita a qualche buon gioco d'azzardo farebbe forse al mio caso e della mia noia.
Ma una partita: e con chi? I due o tre lettori, studenti come me, tolta la loro mutria e il loro miserabile aspetto, stavano già raccattando le scartoffie per andarsene. Aria più umana avevano i bibliotecari, che erano del resto i soli relitti dell'afa. Diavolo, i bibliotecari! E come convincerli alle mie voglie?
Ebbene, passiamo ora nella sala assira della medesima biblioteca. Nel mezzo, tra gli scaffali irti di testi, era, e forse è tuttora, un gran tavolo lucente. Sul quale io, avendo ormai insegnato il gioco del faraone ai bibliotecari, tenevo banco contro gli stessi. Ciascuno di noi aveva davanti a sé un mucchietto di denaro, e il gioco procedeva allegramente, con mio vantaggio. D'improvviso la porta a due battenti si spalancò con fracasso e un uomo alto, elegante e dallo sguardo gelido ci si presentò innanzi. Costui, che doveva aver usolato, era in persona il Segretario generale (o come si chiamasse) dell'Università, creatura temibile e misteriosa, appena intraveduta talvolta tra un uscio e l'altro. Consideratici un momento senza visibile sdegno, disse agghiacciante: «Lei è studente, vero? Mi dia il suo libretto. Per voialtri, sarà provveduto diversamente»; e voltosi senza più, scomparve a passi felpati pei meandri di quelle dotte sale.
Gli sconsigliati bibliotecari, rei di essersi lasciati infruscare dal cattivo arnese che firma qui in calce, furono in effetti sospesi per tre mesi dalle loro funzioni (e dal loro stipendio). Quanto a me, dopo la riapertura dei corsi passai alcune brutte settimane, in attesa di sanzioni che non potevo immaginare se non gravi. Infine mi si fece sapere pel bidello che dovevo passare dal Preside di Facoltà. Presso il quale mi recai, si può crederlo, col cuore ai piedi.»
(Tommaso Landolfi, Il faraone, in Opere, 1: 1937-1959, a cura di Idolina Landolfi, prefazione di Carlo Bo, Milano, Rizzoli, 1991, p. 821-822. La testimonianza, che fa riferimento alla biblioteca della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze, è tratta dall’articolo Il faraone, uscito su «Il mondo» del 1° settembre 1953 e poi compreso nella raccolta Ombre, pubblicata per la prima volta con Vallecchi nel 1954. Il gioco del faraone è stato un gioco di carte molto popolare tra Sette e Ottocento).