- Fonte:
- Sofia Corradi - Isabella Madìa, Un percorso di auto-educazione: materiali per una bio-bibliografia di Mario Verdone, Roma, Aracne, 2003.
«[Verdone:] Ero venuto a Roma nel 1941 ed avevo approfondito gli studi sul Belli. Quando abitavo a Roma mi recavo quasi quotidianamente alla Biblioteca Nazionale, a Piazza del Collegio Romano, nel reparto manoscritti, sezione diretta con grande professionalità e devozione da Egle Colombi (chiamata “la Vestale del Belli”), la quale, proprio in quel periodo, organizzò una mostra di inediti del Belli, di cui possiedo tuttora il catalogo. ll saggio era pronto per essere pubblicato, e mi si consigliò di farlo leggere a Pietro Paolo Trompeo. Io abitavo a Piazza Paganica, presso i miei amici coniugi Fiore, pittori, al quarto piano. Al secondo piano abitava Trompeo. Un giorno scendo le scale, suono, mi presento e gli dico: «Ho questo scritto, la pregherei di dargli un’occhiata». Lo guardò, lo sfogliò e mi disse: «È interessante, diamolo a Ceccarius». E così mi presentò a Ceccarius (Giuseppe Ceccarelli, romanista “mitico”) il quale decise subito: «Lo pubblichiamo sulla “Strenna dei Romanisti”». Questo mi pare che sia avvenuto attorno al 1946, dopo la fine della guerra, perché durante il conflitto la “Strenna dei Romanisti” non veniva pubblicata. [...]
Di quel periodo, il saggio che ritengo più importante fu Il Belli nel mondo dello spettacolo. Perché il Belli nel mondo dello spettacolo? Perché il Belli inizia la sua attività di scrittore tentando di fare delle commedie e dei libretti d’opera. [...] Era un frequentatore assiduo di teatri. Aveva anche scritto dei “bollettoni”, in romanesco, che erano delle specie di annunci propagandistici o pubblicitari per spettacoli teatrali. Quindi aveva avuto esperienze dirette con il teatro. Ironia della sorte, venne nominato Censore Pontificio dei libretti d’opera. Ricordo che una volta ho letto le sue relazioni di censura, conservate fra i manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Roma, e ne ho presente una che mi divertì perché suggeriva di togliere determinate parole da un libretto e questo – ovviamente – non tanto per convinzione sua quanto per le superiori direttive che aveva avuto dalle autorità pontificie. Di una parola che poteva alludere agli angeli o ai santi o ad altro, scriveva: «Questa si può togliere, tanto non guasta il mercato».»
(Sofia Corradi, Primi scritti sul Belli e su Roma, in Sofia Corradi - Isabella Madìa, Un percorso di auto-educazione, p. 96-99)
«Verdone: Copiai tutti i sonetti di una sua raccolta inedita, La proverbiade. Erano numerosi e ognuno aveva il titolo di un proverbio; mi proponevo di pubblicarli. Ho tuttora i fogli che ho ricopiato in biblioteca, però la cosa non andò in porto perché oramai il cinema mi aveva travolto e mi costringeva a trascurare un po’ gli studi belliani. Poi intervenne il Professor Vighi, esimio studioso, che desiderava pubblicarli, e io non gli volevo fare concorrenza, anche se li avevo letti vent’anni avanti. [...]
Sempre in quegli anni, nel 1945-50, io ero sempre benevolmente accolto nella Biblioteca Nazionale, a Roma, da Egle Colombi con la quale avevamo stabilito un’amicizia particolare perché durante il periodo della prima guerra mondiale era stata una collaboratrice di Federigo Tozzi alla Croce Rossa. Il fatto di essere tutti e due dei tozziani affezionati, dei fans di Tozzi e di Belli, ci legava molto. Era un’anziana signora, molto ben disposta nei miei riguardi, come amicizia, come simpatia, soprattutto di carattere intellettuale, letterario. Una volta la Colombi mi disse: «Guardi, Verdone – mi dava del Lei – qui ci sono dei foglietti del Belli che non hanno né capo né coda eppure meritano attenzione: sono terzine in dialetto romanesco. Il Belli ha scritto molti sonetti, ma terzine in dialetto romanesco ne ha scritte poche. Queste sarebbero interessanti, però non ci si capisce niente, forse sono legati male, bisognerebbe che Lei li studiasse».
Presi tutti i foglietti, me li lessi attentamente e rifeci il montaggio. I fogli erano disordinati, quasi un rompicapo: poniamo, a mo’ d’esempio, che corrispondessero ai numeri uno, sei, nove, dodici, quindici. Io li rimisi in sequenza: uno, due, tre, quattro, cinque, e così via, nel loro ordine giusto, ponendoci delle annotazioni a lapis, opportune frecce indicative, eccetera. Fatto questo lavoro, risultò un “capitolo”, o poemetto, bellissimo, di carattere gastronomico. Era proprio qualcosa da recitare in un convivio: non senza motivo io sostenevo che il Belli era uno scrittore di teatro, ma non di teatro normale, piuttosto da teatrino casalingo, da teatrino da camera. [...] Questo “capitolo” in romanesco – «Dico una cosa che nun è bbuscìa» – che riguarda “una gran magnata”, è divertentissimo. Ho dunque sistemato i versi nell’ordine in cui andavano messi. M’ero proposto di pubblicarli, ma poi sono stato ripreso dal cinema e, come ho detto, il professor Vighi, tenacissimo, affezionato al Belli, che ha fatto una bella edizione delle poesie del Belli, ha anche trovato le pagine da me numerate, un lavoro, dunque, già avviato, e lo ha pubblicato. ll poemetto è caduto in buone mani ed io, senza lamentarmene, ho citato questo episodio in qualcuno dei miei articoli, per cui non è fuor di luogo ricordare che la ricostruzione di questa poesia è opera mia.»
(ivi, p. 100-102)