- Fonte:
- Mario Soldati, Rami secchi, Milano, Rizzoli, 1989.
«Nel 1929 [Henry Furst] tornò negli Stati Uniti, dove gli erano stati offerti due jobs a cui poteva attendere contemporaneamente: professore di italiano al Vassar College di Poughkeepsie, una cittadina sul Hudson a poche miglia da New York, e, a New York stessa, bibliotecario alla Paternò Library della Casa Italiana, nella Columbia University. Fu qui che ci conoscemmo, appunto in biblioteca, una tarda mattina del dicembre 1929. [...]
Lui arrivava in biblioteca di fuori solo in quel momento, quando l’ora consueta della pausa era già incominciata. Studenti e studiosi già si erano levati dai loro libri e dalle carte: uno dopo l’altro abbandonavano la biblioteca, uscivano per il lunch. Dai finestroni a sud, su Amsterdam Avenue, entrava, diretto e sfolgorante, il sole di una bella giornata d’inverno a New York. Quel sole sembrava avere con sé la grande luce azzurra dell’oceano verso cui la penisola di Manhattan avanza come la prua di un’immensa nave, e si rifletteva invitante sui mogani delle scrivanie ormai deserte. Nella biblioteca vuota, l’alto frastuono del traffico della metropoli giungeva attutito, confuso, musicale.
«Piacere della conoscenza...» e stesi la mano a Furst per salutarlo.
«Dove va?»
«Ma...» dissi con un’occhiata all’orologio «... al lunch, come tutti gli altri. È ora.»
«È ora? Ora di mangiare? Ma non trova che è più bello, proprio adesso, camminare? Non vede...» rispose Furst ridendo, e indicandomi dalla finestra l’avenue che scendeva, infinita e rettilinea, contro il sole: «... non vede le vie dorate?» [...]
Lavorava moltissimo, ma sempre fuori orario: era un sistema, un proposito, un’intima necessità sua. Entrato per la prima volta nella sua vita, in un ordine costituito, doveva per forza reagire in qualche misura, ribellarsi in qualche modo. Poiché il suo impegno non contemplava nessun obbligo specifico di orario, lui cominciava a lavorare quando tutti gli altri finivano, e finiva quando tutti gli altri cominciavano. Stava su le notti intere.
La biblioteca, fortunatamente, era isolata: due piani sulla strada, tre sotto le camere del piccolo college italiano. Furst cominciava a lavorare verso le otto o le nove di sera. All’una o alle due dopo la mezzanotte, si prendeva un po’ di riposo, prima di riattaccare: poi, restava a tavolino, tra libri, schede, dizionari, macchine per scrivere e registratori, fino all’alba e oltre. Il riposo consisteva nel suonare, per un’oretta, a tutto volume, dischi generalmente di Mozart, che era, per lui, quello che Leopardi era per me. Emeriti visiting professors, ospiti americani, lo stesso direttore della Casa Italiana, Giuseppe Prezzolini, talvolta rincasavano da qualche spettacolo o da qualche ricevimento ufficiale, e salendo con l’ascensore al college e passando al piano della biblioteca, udivano esterrefatti tuonare i timpani del Dies Irae, o cantare spiegati i violini della sinfonia K. 543, o incalzare il vaudeville finale del Ratto. In quest’ultimo caso, se si fossero fermati, e se fossero usciti dall’ascensore e se, attraversato l’atrio, avessero dischiuso un battente del grande portone lucido, avrebbero forse visto, nella severa sala deserta e tutta illuminata, in mezzo agli alti scaffali colmi di libri, Furst che danzava e saltava da solo sulla moquette bordò, con piroette ed inchini alla Pavlova, entrechats e battements alla Nijinsky. [...]
Furst in pochi mesi, senza l’aiuto di nessuno, né di un segretario né di una dattilografa, lavorando oltre ogni immaginazione, compilò il catalogo, che ancora mancava, della Biblioteca Paternò.»
(Mario Soldati, Rami secchi, pp. 126-132)